LE GRU DI CARTA E LA VOCE DEI CRISANTEMI

LETTURE DA AUTORI GIAPPONESI

(Scelte da Ezio Beccaria)

Sul cartello è scritto:

“Non sciupare questi fiori”.

Ma per il vento è inutile,

perché (il vento) non sa leggere.

(Anonimo)

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MAESTRO ZEN

UNA PARABOLA

(LA TIGRE E LA FRAGOLA)

In un Sutra,  Buddha raccontò una parabola.

Un uomo che camminava per un campo si imbatté in una tigre.  Si mise a correre,  tallonato dalla tigre.  Giunto a un precipizio,  si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo.  La tigre lo fiutava dall’alto.  Tremando,  l’uomo guardò giù,  dove,  in fondo all’abisso,  un’altra tigre lo aspettava per divorarlo.

Soltanto la vite lo reggeva.

Due topi,  uno bianco e uno nero,  cominciarono a rosicchiare pian piano la vite.

L’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola.  Afferrandosi alla vite con una mano sola,  con l’altra spiccò la fragola.

Com’era dolce!

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BANANA YOSHIMOTO

(Tokyo 1964 – )

SONNO PROFONDO

(Shirakawa yofune   1989)

   Da quanto tempo sarà che quando sono sola dormo in questo modo?

Il sonno viene come l’avanzare della marea.  Opporsi è impossibile.  È un sonno così profondo che né lo squillo del telefono né il rumore delle auto che passano fuori mi arriva all’orecchio.  Nessun dolore,  nessuna tristezza laggiù:  solo il mondo del sonno dove precipito con un tonfo.

È soltanto nel momento in cui riapro gli occhi che mi sento un po‘ triste.  Alzo lo sguardo verso il cielo rannuvolato e mi rendo conto di aver dormito molto a lungo.  Ancora un po‘ intontita penso:  non avevo la minima intenzione di dormire,  e invece ho perso tutta la giornata…  E a un tratto,  in quel pesante rammarico così vicino alla vergogna,  mi si gela il sangue.

Quand’è che ho cominciato ad abbandonarmi così al sonno,  che ho smesso di opporre resistenza?  È davvero possibile che un tempo fossi sempre piena d’energia e completamente sveglia?  Sembra un periodo tanto lontano da perdersi nell’antichità.  Se cerco di ricordarlo vedo solo un’immagine sfocata che sembra appartenere a un’età remota,  dove felci e dinosauri si riflettono negli occhi in colori vividi e primitivi.

Eppure,  anche nel sogno,  riesco sempre a riconoscere le telefonate del mio uomo,  solo le sue.

Il suono delle telefonate di Iwanaga è l’unico che riesco a distinguere in modo inequivocabile.  Non so come ma riesco sempre a sapere con certezza che è lui.  A differenza di tutti gli altri suoni che rimangono all’esterno,  se è lui a chiamare,  lo squillo del telefono mi risuona nella testa come attraverso una cuffia,  con una piacevole vibrazione.  Allora mi tiro a sedere sul letto,  afferro il ricevitore e lui pronuncia il mio nome con una voce così profonda da darmi un brivido:

“Terako?”.

E quando io rispondo “Si!”,  al tono inebetito della mia voce lui ridacchia e ogni volta mi fa:

“Di nuovo a dormire?”.

Lo dice con un tono particolarmente gentile,  diverso da quello che usa di solito.  Mi piace tanto che ogni volta ho la sensazione che il mondo si chiuda attorno a me avvolgendomi,  e non vedo più nulla,  come se davanti a me si fosse abbassata una saracinesca.  La sua voce lascia un’eco che assaporo all’infinito.

” Si,  dormivo,”  rispondo,  tornando finalmente in me.

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MASAOKA SHIKI

(Matsuyama 1867 – 1902)

Torri di nubi;

verso sud volano

vele bianche

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KENZABURŌ ŌE

(Uchiko 1935 – )

IL FIGLIO DELL’IMPERATORE

(SebuntīnSeiji shōnen shisu   1961)

SEVENTEEN

3.

Il suono brutale del male e dell’ostilità risuona nel mondo a un volume che danneggia l’impianto stereofonico,  sterminiamoli tutti per difendere la nostra precaria vita,  questa è la giustizia,  mi alzo in piedi applaudo e grido,  il leader sul palco colpisce i miei occhi spalancati per i sintomi dell’isteria,  risplende fulgido come l’uomo d’oro che appare dall’abisso dell’oscurità,  continuo ad applaudire e a gridare,  questa è la giustizia!  Per le cose terribili che ci hanno fatto e per le ferite che hanno inflitto al nostro spirito,  questa è la giustizia!

“E quello sarebbe uno di destra,  ma se è un ragazzino,  eppure sembra prenderla sul serio.”  Mi volto di scatto,  vedo le tre impiegate che mi stanno criticando avere un sussulto.   È così,  sono uno di destra,  un’improvvisa e violenta felicità mi assale e comincio a tremare.  So qual è la mia vera natura,  sono di destra!  Faccio un passo avanti verso le ragazze che si stringono l’una all’altra spaventate e protestano debolmente.  Affronto loro e gli uomini che stanno lì attorno,  rivolgo in silenzio sguardi carichi di livore e di astio verso tutta quella gente.  Mi fissano,  sono uno di destra.  Sono sotto gli occhi di tutti,  ma non perdo la testa né arrossisco,  sento di essere una persona nuova.

Anche i grandi ora mi osservano come avessero davanti un loro compagno adulto,  con una personalità indipendente.  Ho avvolto quel piccolo me stesso debole in una solida corazza che mi proteggerà dagli sguardi degli altri per il resto della vita.  È l’armatura della destra!

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MISHIMA YUKIO

(Shinjuku,  Tokyo 1925 – 1970)

 (POESIA DI ADDIO AL MONDO)

Non importa cadere.

Prima di tutto.

Prima di tutti.

È proprio del fior di ciliegio

cadere nobilmente

in una notte di tempesta.

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MURAKAMI HARUKI

(Kobe 1949 – )

L’ARTE DI CORRERE

(Hashiru koto ni tsuite kataru toki ni boku no kataru koto   2007)

Capitolo primo

5 Agosto 2005,  Isola di Kauai

   Forse parrà un po’ assurdo che una persona della mia età,  non più nel fiore degli anni,  si metta a questo punto della sua vita a fare certe dichiarazioni,  ma vorrei dire una volta per tutte,  per mettere le cose in chiaro,  che io sono uno che ama stare da solo,  è nella mia natura.  Anzi,  per maggior precisione,  diciamo che stare solo non mi dispiace.  Correre ogni giorno per un’ora o due senza parlare con nessuno,  trascorrere quattro o cinque ore seduto a scrivere in silenzio:  non lo trovo né stancante né noioso.  È un tratto del mio carattere che ho mantenuto con coerenza fin da quando ero giovane.  Più che partecipare a un’attività con altre persone,  ho sempre preferito leggere in silenzio un libro,  o concentrarmi nell’ascolto di un disco.  Quando sto da solo,  se necessario so inventarmi mille modi di passare il tempo.

Tuttavia,  da quando mi sono sposato – mi sono sposato giovane,  avevo ventidue anni -,  poco alla volta mi sono abituato alla convivenza con un’altra persona.  Dopo la laurea ho gestito un pub,  e ho capito l’importanza delle relazioni con i miei simili.  La consapevolezza che non si può vivere sempre in solitudine – cosa in realtà ovvia – l’ho acquisita sulla mia pelle.  E con essa anche una certa socievolezza,  seppur in forma vaga e distorta.  A ripensarci ora,  durante il decennio dai venti ai trent’anni la mia percezione del mondo ha compiuto una trasformazione non da poco,  e penso di essere evoluto anche in quanto essere umano.  A forza di sbattere la testa da tutte le parti,  ho appreso trucchi e tattiche per cavarmela nella vita.  Se durante quel decennio non avessi avuto momenti relativamente duri,  probabilmente non mi sarei messo a scrivere e,  anche se avessi voluto farlo,  non ci sarei riuscito.  Comunque sia,  il carattere di base delle persone non può cambiare in maniera drastica.  Il desiderio di solitudine è sempre esistito dentro di me.  Quindi correre un’ora al giorno,  e garantirmi così un intervallo di silenzio tutto mio,  è indispensabile alla mia salute mentale.  Per lo meno durante quel lasso di tempo non ho bisogno di parlare con nessuno,  di ascoltare nessuno.  Basta che contempli il paesaggio,  sia quello esterno che quello mio interiore.  Questo momento di solitudine è per me più prezioso di qualsiasi altra cosa.

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TAKANO KIKUO

(Isola di Sado 1927 – 2006)

SOTTO IL SOLE

Di continuo

si dilata e tende

una goccia di disgelo

che sfavilla

lungo il cornicione.

 

Più si dilata

più s’accresce il bagliore,

il paesaggio riflesso

sulla sua superficie,

la luce

che ha avuto dal sole.

 

Poi arriva l’attimo

in cui non sopporta

il suo peso,  e dal cornicione

si stacca la goccia di luce.

Sarà tutta resa alla terra?

Si smuove appena il suolo in cui è sgocciolata.

 

Vederla mi rattrista

e consola,

mi turba – troppo somiglia

alla vita degli uomini

la goccia.

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YASUNARI KAWABATA

(Osaka 1899 – 1972)

KOTO

(Koto   1962)

La città dei kimono

   Non era passata mezz’ora che Takichiro Sata arrivò in automobile davanti alla bottega di Sosuke.  Aveva gli occhi luminosi.  Aprì subito un involto e mostrando dei disegni:

“Sono venuto per pregarvi di questo.”

( …) Sosuke guardò Takichiro con la coda dell’occhio.  “Per un obieh?  Insolitamente moderno e vivace,  per voi.  (…)”

(…) “È per mia figlia!”

Oh!  quando lo vedrà,  sverrà dalla sorpresa.  Ma innanzi tutto:  lo indosserà un obi così?”

È lei che mi ha regalato un paio di volumi di opere di Klee.”

“Klee?”

È il precursore dell’astrattismo.  Delicato,  dignitoso,  fantasioso,  dà piacere anche a me,  vecchio giapponese.  (…) ho guardato e riguardato le sue opere,  e poi mi è venuto fuori questo disegno.  Completamente diverso dai motivi classici giapponesi,  no?”

“Questo è vero.”

“Ho pensato di vedere cosa ne viene fuori a tesserlo sulla stoffa”  fece Takichiro ancora tutto eccitato.

Sosuke rimase un po‘ a guardare il disegno di Takichiro.

“Bello,  davvero,  anche la disposizione dei colori…  È di una modernità per voi assolutamente insolita e tuttavia non è per nulla vistoso.  Sarà difficile tesserlo.  Be‘,  tentiamo.  C’è il cuore di vostra figlia per voi,  e il vostro per lei.”

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YOSANO AKIKO

(Sakay,  Osaka 1878 – 1942)

Sebbene così fragile

e così breve l’amore,

ha sangue troppo giovane

questa ragazza,  per bruciare

poesie di primavera.

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BANANA YOSHIMOTO

LA PICCOLA OMBRA

(Furin to Nanbei   2000)

LA PICCOLA OMBRA

(…) presi l’autobus con l’idea di andare a visitare la tomba di Evita,  e mi diressi verso il quartiere della Recoleta dove si trovava il cimitero.

La vegetazione era talmente rigogliosa che mi chiesi se non fossi entrata in un parco.  Molta gente camminava con il cane al guinzaglio.  C’era anche un tipo che da solo ne portava in giro più di una decina.  Immaginai che anche quello potesse essere un lavoro.  C’era poi una chiesa con il campanile che svettava alto nel cielo.  Mi diressi verso l’ingresso ed entrai nel camposanto.

Completamente diverso dal cimitero che avevo immaginato,  quello era un luogo in cui si succedevano edifici stranamente eleganti.  Ogni tomba era costituita da una cappella molto imponente.  Sembrava addirittura un quartiere residenziale.  Ai cigli di larghi viali si susseguivano file di costruzioni simili a case che proseguivano fino in lontananza.  I tumuli,  poi,  erano talmente grandi da poterci entrare in più di una persona.  Case abitate da persone morte,  e poi ancora case.  A dare una nota di colore,  c’erano statue di angeli,  di personaggi vari,  di Cristo e di Maria.  C’erano anche tombe con la chiesetta incorporata e altre con l’ossario con la porta di vetro ad apertura automatica.  Dentro,  disposte una sopra l’altra,  le bare erano magnifiche.  C’era anche una cappella con le scale che portavano sottoterra.  Quella di Evita,  costantemente visitata da moltissima gente,  nonostante fosse decorata con splendidi fiori freschi,  a paragone delle altre con l’aspetto da museo,  non è che fosse di grande impatto,  soprattutto quanto a sontuosità.  La tranquilla luce pomeridiana,  le case dei morti sprofondate nella quiete…  quell’atmosfera mi ricordava un po‘ gli scavi di Pompei dove molti anni prima ero stata con i miei genitori.  Il silenzio di quella città dove gli abitanti erano spariti,  sebbene gli edifici fossero rimasti gli stessi.  Quella città di pietra dove ancora adesso si sente l’odore della vita di un tempo.  Quella città immersa nella pace eterna della morte,  con il cielo azzurro che le fa da sfondo.

Gli edifici decorati di quel cimitero formavano file di cappelle in ognuna delle quali avrebbero potuto trovare collocazione tranquillamente cinquanta tombe della grandezza di quella di mia madre.

Sì,  quella di mamma era davvero piccola,  minuscola al punto da aver difficoltà a trovarla anche all’interno di un cimitero giapponese.

E queste,  com’erano belle!  Pensai che se fossi diventata ricca,  avrei fatto costruire per mia madre una tomba altrettanto lussuosa,  ma poi l’idea svanì subito.

Mi ero ricordata che mia madre odiava entrare in quelle piccole case,  più di ogni altra cosa.

In un luogo in cui i morti erano più numerosi dei vivi,  ricordare una di loro era stato stranamente semplice.  Giravo un angolo e un altro ancora,  ma la “città delle tombe” abbellite con fiori e splendidi fregi simili tra loro continuava senza fine.  Illuminata dai raggi del sole,  con una differenza molto netta tra le zone di luce e quelle d’ombra,  era come camminare in un sogno.  Se avessi continuato a stare lì dentro,  la frontiera con il mondo dei morti sarebbe venuta meno spontaneamente,  tanto da sentire di poterci irrompere in un modo molto naturale.

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MATSUO BASHŌ

(Ueno 1644 – 1694)

Mi sorprenderà la pioggia

ora che non ho neppure il cappello di bambù

ma che importa…

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KŌBŌ ABE

(KIMIFUSA ABE)

(Tokyo 1924 – 1993)

LA DONNA DI SABBIA

(Suna no onna   1962)

Capitolo XIV

   Prima di andare in vacanza,  l’uomo s’era comportato in modo esageratamente misterioso ed era venuto via senza dire a nessuno dei colleghi lo scopo e la meta del suo viaggio.  Si era comportato deliberatamente in quel modo:  non solo s’era circondato di silenzio ostinato,  ma aveva cercato perfino di darsi un’aria misteriosa.  Sapeva che era il modo più efficace per irritare i tipi dalla pelle grigia come il grigiore della loro vita quotidiana.  E quei tipi grigi si mettevano a odiarti con esasperazione solo all’idea che tu,  e non loro,  potessi avere un colore di pelle diverso.

Un’estate gloriosa sotto il sole abbagliante:  comprensibilmente,  una cosa del genere esiste soltanto nei romanzi o nei film.  Nella realtà esistono solo le domeniche dei piccoli borghesi che passano la giornata sdraiati sopra le pagine della politica dei giornali,  che sanno di esplosivi.  Termos col coperchio magnetico,  succhi di frutta in scatola,  una barchetta a centocinquanta yen l’ora,  dopo un’ora di coda davanti alla biglietteria,  schiuma color piombo in riva al mare,  schiuma che nasce dalle carogne dei pesci…  E infine il treno strapieno e corroso dalla stanchezza dei gitanti domenicali.  Tutti lo sanno anche troppo bene;  ma solo per non rendersi ridicoli,  confessando di essere stati imbrogliati,  continuano a imbrattare la tela grigia coi disegni di una festa immaginaria.  Miseri padri con la barba non fatta,  che non smettono di molestare i figli per farsi dire da loro quant’è stata divertente la domenica,  scene modeste negli angoli dei treni,  che abbiamo visto tutti almeno una volta.  Invidia,  il pietoso desiderio di possedere il sole altrui…

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SHUNTARO TANIKAWA

(Tokyo 1931 – )

QUANDO GLI UCCELLI SPARIRONO DAL CIELO

Il giorno in cui le bestie sparirono dalla foresta

la foresta trattenne il respiro.

Il giorno in cui le bestie sparirono dalla foresta

gli umani continuarono a costruire strade.

 

Il giorno in cui i pesci sparirono dal mare

il mare cupamente gemette.

Il giorno in cui i pesci sparirono dal mare

gli umani continuarono a costruire porti.

 

Il giorno in cui i bambini sparirono dalla città

la città si affaccendò perfino con più operosità.

Il giorno in cui i bambini sparirono dalla città

gli umani continuarono a costruire parchi.

 

Il giorno in cui l’umanità perse se stessa

tutti gli umani furono simili uno all’altro.

Il giorno in cui gli umani smarrirono la personalità

gli umani continuarono a confidare nel futuro.

 

Il giorno in cui gli uccelli sparirono dal cielo

il cielo pianse quietamente.

Il giorno in cui gli uccelli sparirono dal cielo

gli umani continuarono,  inconsapevoli,  a cantare.

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MISHIMA YUKIO

(Shinjuku,  Tokyo 1925 – 1970)

LA VOCE DELLE ONDE

(Shiosai)

5

   Come ogni mese,  il giorno della ricorrenza della morte del padre l’intera famiglia si recò a visitarne la tomba.  Per non distogliere Shiniji dal lavoro,  avevano scelto l’ora precedente la partenza dei battelli e l’inizio della scuola di suo fratello.

Shiniji e il fratello uscirono di casa con la madre che portava dei bastoncini d’incenso e dei fiori per la tomba.  Lasciarono la casa aperta:  nell’isola non accadevano mai furti.

Il cimitero si trovava un po’ distante dal villaggio,  su una bassa rupe a picco sul mare,  e con l’alta marea le onde arrivavano sino ai piedi della rupe.  Il pendio disuguale era coperto di pietre tombali,  alcune delle quali inclinate sulla base di soffice sabbia.

Il giorno non era ancora spuntato.  In direzione del faro il cielo andava schiarendosi proprio allora,  ma il villaggio ed il suo porto,  che guardava a nord-ovest,  restavano ancora in ombra.

Shiniji camminava avanti recando una lanterna di carta.

   Al cimitero soffiava gagliarda una fresca brezza mattutina.  Sottovento all’isola la superficie del mare era scura,  ma al largo appariva chiazzata dall’aurora.  Si scorgevano nitide le montagne che circondavano il Golfo di Ise.  Alla pallida luce dell’alba,  le pietre tombali somigliavano a bianche vele di navi ancorate in un porto gremito.  C’erano vele che non sarebbero state mai più gonfiate dal vento,  vele che per essere rimaste troppo a lungo inutilizzate e pesantemente inclinate,  s’eran mutate proprio in quelle pietre che lì si vedevano.  Le ancore dei battelli erano ancora nella terra nera,  tanto che non si sarebbe potuto più estrarle.

Raggiunta la tomba del padre,  la madre sistemò i fiori che aveva portato con sé e,  dopo aver strofinato molti fiammiferi che il vento spense uno per uno,  alla fine riuscì ad accendere l’incenso.  Poi fece inchinare i figli davanti alla tomba,  mentre anch’essa s’inchinava alle loro spalle,  piangendo.

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YOSA BUSON

(Kema,  Settsu 1716 – 1784)

L’orchidea,  di notte

nasconde nel profumo

lo splendore del fiore.

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HARUMI SETOUCHI

(Tokushima 1922 – )

IL MONTE HIEI

(Hiei   1979)

7.

   Seguendo con gli occhi le valli e i picchi dove era appena passata con l’uomo,  Toshiko si era dimenticata del tempo che scorreva.  Quando si era seduta sull’erba secca scaldata dal sole,  sul bordo del canale,  le costruzioni erano sparite dalla sua visuale,  lasciando solo la montagna,  il lago e i campi.  All’improvviso le era sembrato di risentire il suono di una campana.  Una campana che avevano visto passando davanti al tempio originario,  vicino al Daikōdō,  il grande padiglione dove si tenevano le letture.  Forse a causa della stagione e dell’ora,  a parte loro due non c’era anima viva.  In alcuni punti restava della neve gelata,  e l’aria era tersa come cristallo.

A una trave della torretta di legno che sorreggeva la campana era attaccata una scatola,  nella quale bisognava mettere un’offerta in denaro ogni volta che si voleva battere un colpo.  L’uomo aveva lasciato a Toshiko il compito di depositare il denaro,  aveva afferrato la fune della grossa trave che serviva a colpire la campana,  e puntando bene i piedi l’aveva fatta oscillare diverse volte nell’aria.  Ovunque viaggiassero,  sempre,  per una sorta di infantilismo,  appena vedeva una campana gli veniva voglia di suonare qualche colpo,  ma quando era Toshiko a scoprirla per prima,  distoglieva apposta gli occhi facendo finta di non vederla,  e restava di cattivo umore finché non ne trovava una lui.

Più volte aveva portato la trave fino quasi a toccare la campana,  per poi tirarla di nuovo indietro,  finché le sue mani avevano allentato la stretta e lasciato andare la fune,  permettendo alla trave di andare smaniosa a colpire di slancio il ventre della campana.

Il suono si era propagato sordo nelle quattro direzioni,  tagliando l’aria limpida come vetro.  Aveva superato le cime e raggiunto le valli,  chiamando a raccolta l’eco,  finché si era perso gradualmente in lontananza.  Prima che il riverbero del primo colpo si dissolvesse,  l’uomo ne aveva battuto un altro.

“Questa sì che è una bella campana”,  aveva detto alzando lo sguardo a guardarla contento,  stanco,  asciugandosi il sudore sulla fronte.  Diceva sempre quelle parole con la stessa espressione,  per qualunque campana,  anche la più vecchia,  scovata in qualche tempio diroccato fra i campi.  Anzi,  più la campana era malconcia,  più le parlava in tono gentile e affettuoso.

Quella volta aveva suonato la campana della pagoda orientale,  quindi dovevano essere vicini alla cima più alta.

“Cosa fai?”

Chissà quando,  l’uomo era arrivato alle sue spalle.

“Dove pensi che fosse quella campana?”

“Quella sì che valeva la pena”  aveva detto l’uomo in tono soddisfatto,  prendendo un’espressione beata,  come se ne risentisse il rimbombo in tutto il corpo.   “Era magnifica.  Peccato che non l’abbia suonata anche tu.”

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YOSANO AKIKO

(Sakay,  Osaka 1878 – 1942)

Appoggio il mio corpo al cancello

perduta in pensieri

che non hanno confine

e guardo il vento d’autunno

passare sui fiori rossi.

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BANANA YOSHIMOTO

N. P.

(N P   1991)

   Ancora adesso ogni tanto ci penso.  A Shōji.

Mi innamorai di lui quand’ero al liceo,  me ne innamorai al punto di assorbire tutto di lui con un trasporto assoluto.  Quasi tutti i giorni uscivamo insieme,  o io andavo a casa sua,  a volte aiutandolo nelle traduzioni.  Quando stava con me sembrava felice.  Su questo potrei giurare.

Ma col tempo si erano formati dei nodi nella sua vita e io non ero assolutamente in grado di fermare una stanchezza che aveva cominciato a crescere in lui molto prima di conoscermi.  Mi era impossibile comprendere veramente quel lato oscuro che occupava una parte così grande della sua personalità e che tanto fascino esercitava su di me.  Io ero una farfalla volata nella stanza del suo essere,  dove la lampadina aveva già cominciato a bruciare.  Anche se gli ero stata di conforto,  portando in quel buio la scia luccicante della luce del giorno non avevo fatto che creare maggiore confusione.

È forse per questo che quando lui compare nei miei sogni,  succede sempre che sono io di adesso a incontrare lui di un tempo.  Forse perché penso,  come sono oggi,  di potergli offrire qualcosa di più di quel luccichio:  delle ore di gioia tranquilla da trascorrere insieme.  Può darsi che questo in realtà sarebbe impossibile anche adesso,  ma ugualmente mi resta questo rimpianto.  Avrei voluto incontrarlo come sono oggi.  È quello che penso in qualche parte di me.  Ma forse mi sopravvaluto.

Ci sono delle volte,  quando mi capita di sentire quel vecchio discorso secondo cui l’anima dei suicidi non può andare in paradiso ed è condannata a soffrire per l’eternità,  che mi sembra d’impazzire.  Ma prima di fare in tempo a pensare che sono tutte bugie,  mi appare sempre davanti agli occhi il suo sorriso fragile.  Quel sorriso che non permetteva a nessuno di entrare

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ISHIJI ASADA

(Giappone)

CANZONE DI HIROSHIMA

(1955)

Dove è stata distrutta la città,

dove ci sono ora le ceneri dei nostri amati,

dove c’erano l’erba verde e le bianche piante,

funesto è stato il raccolto di due bombe atomiche.

 

Perciò,  fratelli e sorelle,  vigilate e badate

che non venga mai la terza bomba atomica.

 

Il cielo sta sospeso come un sudario sulle nostre teste

e il sole è ingabbiato dalla nube nera che scende.

Non un uccello che vola nel cielo plumbeo,

funesto è stato il raccolto di due bombe atomiche.

 

Perciò,  fratelli e sorelle,  vigilate e badate

che non venga mai la terza bomba atomica.

 

La pioggia lieve raccoglie il veleno del cielo,

e i pesci portano la morte nelle profondità del mare;

le barche dei pescatori sono ferme,  i pescatori sono ciechi,

funesto è stato il raccolto di due bombe atomiche.

 

Perciò,  uomini di terra e di mare,  vigilate e badate

che non venga mai la terza bomba atomica.

 

Tutto ciò che gli uomini hanno creato con le loro mani

e con le loro menti,  per la gloria del mondo dove viviamo,

adesso può essere annientato e distrutto in un momento,

funesto è stato il raccolto di due bombe atomiche.

 

Perciò,  gente del mondo,  vigilate e badate

che non venga mai la terza bomba atomica.

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MURAKAMI HARUKI

A SUD DEL CONFINE,  A OVEST DEL SOLE

(South of the border,  west of the sun   1992)

 “ (…) Così vanno le cose a questo mondo!  La vita di una persona appartiene a quella persona.  Non ci si può sostituire a lei e assumersi la responsabilità della sua vita.  È come essere in un deserto,  non c’è altro da fare che abituarsi.  Alle elementari hai mai visto il film di Walt Disney Deserto che vive?”

“Sì”,  risposi.

“Questo mondo è come quel film.  Se c’è la pioggia,  i fiori sbocciano e se non ce n’è,  appassiscono.  Gli insetti vengono mangiati dalle lucertole e queste,  a loro volta,  vengono divorate dagli uccelli,  ma alla fine,  tutti muoiono comunque.  Tutto muore e inaridisce.  Finita una generazione,  ne viene un’altra.  È così che vanno le cose.  Tutti vivono e muoiono in tanti modi,  ma non è questo quello che conta.  Alla fine ciò che rimane è il deserto.  È il deserto quello che vive veramente!”

Andò via,  ma io continuai a bere da solo,  seduto al bancone.  Il locale aveva chiuso,  non c’era più nessun cliente e tutto lo staff era tornato a casa dopo aver messo a posto e pulito.  Ero rimasto solo.  Non volevo tornare subito a casa,  telefonai a mia moglie per dirle che avevo dell’altro lavoro da sbrigare e che avrei fatto tardi.  Spensi le luci del locale e in quel buio pesto mi misi a bere del whisky.  Per non stare a tirar fuori il ghiaccio,  lo bevvi liscio.

Finiremo tutti per scomparire,  uno dopo l’altro,  pensai.  Ci sono cose che svaniscono all’improvviso come se fossero state recise da un colpo secco,  mentre altre si dissolvono,  lentamente fino a sparire del tutto.  Ciò che rimane è solo il deserto.

Uscii dal locale prima dell’alba e una pioggia sottile cadeva su via Aoyama.    Ero sfinito.  La pioggia bagnava senza far rumore i gruppi di palazzi,  immersi in un silenzio di tomba.  Lasciai la macchina nel garage del locale e tornai a casa a piedi.  A metà strada,  mi sedetti sul guardrail a guardare un grosso corvo che gracchiava,  appollaiato su un semaforo.  Alle quattro del mattino,  la città appariva squallida e sporca.  C’erano dappertutto segni di degrado e di rovina,  nei quali mi sembrava di riconoscere me stesso,  come un’ombra impressa in quei muri.

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MASAOKA SHIKI

Tra le erbe

un fiore bianco sboccia.

Ignoto il suo nome.

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YASUNARI KAWABATA

BELLEZZA E TRISTEZZA

(Utsukushisa To Kanashimi To   1965)

Le campane di Kyoto

   Era il ventinove dicembre.  L’anno stava per finire.  Ōki aveva preso il treno perché voleva sentire il suono delle campane a Kyoto,  nell’ultima notte dell’anno.

Da quando aveva preso l’abitudine di ascoltare le campane di fine anno alla radio?  Sicuramente da quando era iniziata la trasmissione,  diversi anni prima.  Mentre la radio diffondeva il suono delle campane,  il commentatore raccontava la storia di varie campane dei templi più famosi e antichi di tutto il Giappone.  Col suono delle campane,  l’anno vecchio se ne andava,  e arrivava quello nuovo.  A volte i commenti degeneravano in uno stile troppo manierato o sentimentale.  Ma il suono delle campane echeggiava egualmente cupo e solenne a lunghi intervalli,  trascinandosi dietro l’antica tristezza popolare.  La radio alternava le campane dei templi del Nord a quelle dei templi del Sud,  e terminava immancabilmente con le campane dei templi di Kyoto.  (…).

Ogni anno,  nell’ora in cui la radio trasmetteva il suono delle campane,  sua moglie e sua figlia erano solite sfaccendare per la casa.  Se non stavano ancora preparando il pranzo del giorno di capodanno,  mettevano in ordine la casa,  disponevano i fiori o preparavano i kimono da festa.  Ōki ascoltava la radio,  comodamente seduto nel soggiorno.  Le campane gli riportavano al ricordo tutti gli avvenimenti dell’anno che stava per finire,  e ne era commosso.  La commozione era a volte violenta,  a volte amara.  I pensieri potevano anche essere dolorosi,  o colmi di rimpianto.  E anche se il tono sentimentale dell’annunciatore poteva dargli fastidio,  il suono delle campane non mancava mai di toccarlo nel profondo del cuore.  Aveva perciò a lungo sognato di trovarsi a Kyoto nella notte dell’ultimo dell’anno,  invece di ascoltare per radio il suono delle vere campane dei templi antichi.

Il desiderio a un tratto si era trasformato in una decisione,  e Ōki aveva preso il treno per Kyoto.  In segreto accarezzava l’idea di rivedere Otoko Ueno,  e ascoltare le campane con lei.  Non la rivedeva da tempo:  da quando era andata a vivere a Kyoto,  non ne aveva avuto più notizia.

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RIOKAN DAIGU

(Izumozaki 1758 – 1831)

D’estate, nella notte profonda,

i bambù sono coperti di rugiada.

Il rumore del mortaio è cessato.

L’erba del giardino trasuda umidità,

cantano le rane,  lontano e vicino,

in alto e in basso,  lampeggiano le  lucciole.

Non è più possibile dormire,

accarezzo il cuscino,  pensando a tante cose.

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MISHIMA YUKIO

NEVE DI PRIMAVERA

(Spring snow   1969)

1

   Allorché a scuola la conversazione cadde sulla guerra russo-giapponese,  Kiyoaki Matsugae domandò a Shigekuni Honda,  il suo più caro amico,  che cosa riuscisse a ricordarsene.  I ricordi di Shigekuni erano vaghi.  Rammentava a stento che una volta lo avevano portato davanti al cancello d’ingresso per osservare un corteo che sfilava alla luce delle torce.  L’anno della fine della guerra avevano entrambi undici anni,  e a giudizio di Kiyoaki avrebbero dovuto conservarne un ricordo un po‘ più netto.  I loro compagni di classe che parlavano disinvoltamente della guerra in tono da conoscitori,  in genere arricchivano le loro nebulose sensazioni mnemoniche per mezzo di episodi attinti ai discorsi degli adulti.

Due membri della famiglia Matsugae,  gli zii di Kiyoaki,  vi avevano perduto la vita.  Sua nonna percepiva ancora una pensione assegnatale in virtù di quei due figli uccisi,  ma quel denaro non lo usava mai:  posava le buste intatte sull’altare degli antenati.  Era forse per questo che,  di tutta la collezione delle fotografie di guerra,  quella intitolata “Cerimonie commemorative dei morti in guerra,  nelle immediate adiacenze del tempio di Tokuri”  impressionava Kiyoaki più di ogni altra.  Era datata 26 giugno 1904,  anno trentasettesimo dell’era Meiji.  Questa foto,  stampata in color seppia,  non aveva niente in comune col solito guazzabuglio dei ricordi bellici.  Era stata concepita dall’occhio di un artista dotato di un senso volumetrico molto marcato:  si sarebbe detto infatti che le migliaia di soldati presenti fossero stati disposti deliberatamente,  come le figure di un quadro,  per concentrare l’attenzione sul grande cenotafio di legno naturale che si ergeva in mezzo a loro.  Sullo sfondo,  le montagne inclinavano nella bruma i loro candidi declivi,  che digradavano dolcemente sulla sinistra dell’immagine scostandosi dalla vasta pianura che si allargava ai loro piedi.  Sulla destra,  si fondevano in lontananza con dei ciuffi d’alberi sparsi,  prima di svanire nel biondo pulviscolo dell’orizzonte.  Altrove,  al posto delle montagne c’era un filare d’alberi che s’ingrandivano a mano a mano che lo sguardo andava spostandosi verso destra,  mentre tra i fusti si faceva strada l’ocra del cielo.  In primo piano,  felicemente distanziati l’uno dall’altro,  si levavano sei alberi altissimi,  ognuno dei quali recava ulteriore contributo all’armonia generale del paesaggio.  Era impossibile dire a quale specie appartenessero,  ma i loro rami più alti sembravano curvarsi nel vento con una sorta di tragica maestà.

La distesa remota della pianura si accendeva gradatamente in un succedersi di delicate sfumature.  Su questo lato delle montagne la vegetazione appariva piatta e desolata.  E al centro dell’immagine spiccavano,  minuscoli,  il semplice cenotafio e l’altare sparso di fiori,  rivestito di un drappo bianco ripiegato dal vento.

A parte questo,  non si vedevano che soldati.  Migliaia di soldati.  In primo piano,  voltavano le spalle all’obiettivo,  lasciando scorgere i paranuca che pendevano dai chepì e le linee diagonali delle corregge di cuoio che attraversavano le schiene a bandoliera.  Non si erano schierati in fila,  ma erano riuniti per gruppi,  e tenevano il capo inclinato.  Soltanto alcuni,  nell’angolo sinistro,  in basso,  volgevano a mezzo verso il fotografo i loro volti aggrondati,  simili alle figure di un dipinto del Rinascimento.  Più in là,  un vero esercito si allargava sino ai limiti della pianura,  descrivendo un immenso semicerchio. Tale e tanta era quella massa umana,  che non era possibile distinguere un uomo dall’altro.   Altri gruppi si agglutinavano ancora,  tra gli alberi,  lontanissimi.

Le sagome di questi soldati,  in primo come in secondo piano,  erano immerse in una strana luce,  soffusa e indefinibile,  che sottolineava il contorno dei gambali e degli stivali conferendo risalto alla curva delle spalle e delle nuche.  E questa luce pervadeva tutta l’immagine,  impregnandola di un sentimento di dolore ineffabile.

Questi uomini esalavano un’emozione tangibile;  sgorgava da loro come un fiotto che andava a frangersi contro l’altare,  contro i fiori,  contro il cenotafio eretto in mezzo a loro.  Da quella massa enorme che dilagava fino al limitare della pianura,  simile a un pesante e gigantesco anello di ferro si abbatteva nel centro un pensiero unanime,  che nessun linguaggio avrebbe mai potuto esprimere.

Gli anni trascorsi e la stampa in color seppia immergevano questa fotografia in un’atmosfera di angoscia indicibile.

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BANANA YOSHIMOTO

AMRITA

(1994)

MELANCHOLIA

(Alcuni anni prima)

   L’unica volta che avevo incontrato Ryūichirō prima della sua partenza,  era stata una sera di quasi primavera.

Fino a poco tempo prima avevo lavorato come segretaria in un ufficio,  ma in seguito a una lite con un mio superiore ero stata licenziata e così per il momento lavoravo cinque giorni alla settimana in un vecchio bar che avevo frequentato a lungo come cliente.

Fu una serata strana,  lunghissima.  Lunga,  divisa in vari strati eppure dominata da una tonalità costante.  Una serata particolare.

Siccome rischiavo di arrivare tardi al lavoro,  camminavo a passo spedito,  la testa bassa,  in direzione del bar.  Era quasi sera,  da poco aveva smesso di piovere e il piazzale davanti alla stazione del metrò era intriso di luce come la riva del mare di notte.  Mentre andavo così di corsa,  quel bagliore mi colpì con un’intensità da capogiro.

Su un lato del piazzale c’erano delle persone che fermavano tutti quelli che passavano e chiedevano:  “Secondo lei,  che cos’è la felicità?”.  Fecero qualche tentativo anche con me,  ma al mio deciso “Non lo so”  indietreggiarono in fretta come in una scena all’indietro alla moviola.

Subito,  però,  quelle parole provocarono una qualche immagine della felicità,  che passò per un breve istante nella mia mente lasciandosi dietro una scia dal colore rosato.  Mi sembrò anche di sentire il motivo di alcune canzoni famose che parlano di felicità.

E pensai.

A un posto apparentemente irraggiungibile,  dove un’immagine dalla luce dorata risplende fortissima,  più intensa che se raccogliesse in sé tutta la speranza,  tutta la luce del mondo.  Non è questo ciò che tutti desiderano?

Qualcosa che,  quando si fugge dalle persone che davanti alla stazione chiedono cos’è la felicità,  e ci si va ad ubriacare,  sembra farsi più vicino,  tanto vicino da poterlo toccare.

A quel punto mi venne in mente Mayu,  così avida di felicità,  eppure così spenta,  passiva,  ambigua,  contorta.

In una cosa era straordinaria.

Aveva un talento che faceva dimenticare tutto il resto e le guadagnava il rispetto:  il sorridere.

Quando lei,  che possedeva almeno cento sorrisi diversi per ragioni professionali,  all’improvviso sorrideva senza uno scopo,  in modo innocente,  il suo sorriso colpiva al cuore le persone cancellando ogni suo difetto.

Un sorriso dolce come quando le nuvole si disperdono in un soffio,  lasciando apparire il cielo azzurro e la luce,  alla stessa velocità con cui gli angoli della bocca si sollevano e quelli degli occhi si assottigliano.  Un sorriso puro,  radioso,  così disarmante da commuovere,  sano,  spontaneo.

La cui forza non si oscurava nemmeno quando aveva il fegato distrutto,  il viso sciupato o la pelle rovinata.

Eppure,  se lo è portato nella tomba.

Avrei dovuto dirglielo,  com’era.  Sempre,  tutte le volte.  Invece di restare a guardarla a bocca spalancata,  avrei dovuto dirglielo.

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SADAKO SASAKI

(Hiroshima 7 Gennaio 1943 –  Hiroshima 25 Ottobre 1954)

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LA LEGGENDA DELLE MILLE GRU DI CARTA

   Sadako Sasaki aveva due anni quando,  il 6 Agosto 1945,  la bomba atomica esplose sulla sua città.  Sopravvisse.

   Ma all’età di undici anni le venne diagnosticata una Leucemia conseguente alle radiazioni.

   La sua migliore amica le parlò di un’antica leggenda secondo cui chi fosse riuscito a creare mille gru con la tecnica dell’Origami,  avrebbe potuto esprimere un desiderio e Sadako Sasaki cominciò a costruire gru di carta per poter continuare a vivere.

   Riferendosi alle gru di carta,  scrisse questo Haiku:

Scriverò pace sulle tue ali

intorno al mondo volerai

perchè i bambini non muoiano più così

   Forse Sadako Sasaki non riuscì a completare le sue mille gru.  Morì il 25 Ottobre 1954.

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Dedicato a Carla Goria Beccaria (26 Agosto 1918 – 14 Aprile 1992)

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14 Aprile 2014