Con Guido Gozzano
al Meleto di Agliè
LETTURE DA GUIDO GOZZANO
(Scelte da Luca Pivano)
A Ettore Colla
3 aprile 1900
[…] Penso, penso ai bei giorni che si sono passati insieme, in collegio, in campagna, ad Agliè… Dimmi, ti ricordi quando ritornavamo stanchi, impolverati dalla lunga passeggiata crepuscolare, nelle calde, afose sere estive e prendevamo d’assalto la pompa del cortile? […]
A Ettore Colla
16 giugno 1900
[…] Queste vacanze non so dove andrò: certo che se vengo al Meleto, mi ci fermerò ben poco. Sarà tutto sconquassato dai lavori, che sono già cominciati, ma che non finiranno certo prima di un’altra estate. Tuttavia al Meleto mi troverò discretamente. Non so: quella quiete della campagna mi si confà grandemente. I dintorni ombrosi, il laghetto saranno i luoghi dove mi troverò maggiormente a leggere, scrivere, studiare. D’altronde la distanza da Agliè è minima e con la bicicletta è cosa da nulla. Se verrò ad Agliè (al mare ci andrò certamente per un tempo più o meno lungo) chissà come ce la passeremo? Bene spero… […]
Da La Via del Rifugio (1907)
L’ANALFABETA
[…] Tramonta il giorno fra le stelle chiare,
placido come l’agonia del giusto.
L’ottuagenario candido e robusto
viene alla soglia con il suo mangiare.
Sorride un poco, siede sulla rotta
panca di quercia; serra per sostegno
fra i ginocchi la ciotola di legno:
mangia in pace cosí, mentre che annotta.
Con la barba prolissa come un santo
arissecchito, calvo, con gli orecchi
la fronte coronata di cernecchi
il buon servo somiglia il Tempo… Tanto,
tanto simile al Nume pellegrino,
ch’io lo vedo recante nella destra
non la ciotola colma di minestra,
ma la falce corrusca e il polverino.
Biancheggia tra le glicini leggiadre
l’umile casa ove ritorno solo.
Il buon custode parla: «O figliuolo,
come somigli al padre di tuo padre!…».
[…]
Oh! Il piccolo giardino ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto…
Ascolto il buon silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d’un frutto.
Si rispecchia nel gran Libro sublime
la mente faticata dalle pagine,
il cuore devastato dall’indagine
sente la voce delle cose prime.
Tramonta il giorno. Un vespero d’oblio
riconsola quest’anima bambina;
giunge un riso, laggiú dalla cucina
e il ritmo eguale dell’acciottolio. […]
Da La Via del Rifugio (1907)
L’AMICA DI NONNA SPERANZA
I.
Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto)
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherrotípi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cucú dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
II.
I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere
che cauti (han tolte le fodere ai mobili. È giorno di gala).
Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza
la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.
Ha diciassett’anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso:
da poco hanno avuto il permesso d’aggiungere un cerchio alla gonna,
il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine.
Piú snella da la crinoline emerge la vita di vespa.
Entrambe hanno uno scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande;
divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guance.
Han fatto l’esame piú egregio di tutta la classe. Che affanno
passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.
«Silenzio, bambini! Le amiche – bambini, fate piano! –
le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche».
[…]
Carlotta canta. Speranza suona. Dolce e fiorita
si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita.
O musica! Lieve sussurro! E già nell’animo ascoso
d’ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,
lo sposo dei sogni sognati… O margherite in collegio
sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati.
III.
Giungeva lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo,
ligio al passato, al Lombardo-Veneto, all’Imperatore;
giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene,
ligia al passato, sebbene amante del Re di Sardegna…
«Baciate la mano alli Zii!» dicevano il Babbo e la Mamma,
e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.
«E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta
Capenna: l’alunna piú dotta, l’amica piú cara a Speranza».
«Ma bene… ma bene… ma bene…» diceva gesuitico e tardo
lo Zio di molto riguardo. «Ma bene… ma bene… ma bene…
Capenna? Conobbi un Arturo Capenna… Capenna… Capenna…
Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro… sicuro… sicuro…».
«Gradiscono un po’ di moscato?» «Signora sorella magari…»
E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari.
[…]
IV.
S’inchinano sui balaustri le amiche e guardano il lago
sognando l’amore presago nei loro bei sogni trilustri.
«Ah! Se tu vedessi che bei denti!» «Quant’anni?…» «Vent’otto».
«Poeta?» «Frequenta il salotto della Contessa Maffei!»
[…]
«…mah! Sogni di là da venire!» «Il lago s’è fatto piú denso
di stelle» «…che pensi?» «Non penso» «…Ti piacerebbe morire?»
«Sí!» «Pare che il cielo riveli piú stelle nell’acqua e piú lustri.
Inchinati sui balaustri: sognamo cosí, tra due cieli…»
«Son come sospesa! Mi libro nell’alto…» «Conosce Mazzini…»
«E l’ami?…» «Che versi divini» «Fu lui a donarmi quel libro,
ricordi? Che narra siccome, amando senza fortuna,
un tale si uccida per una, per una che aveva il mio nome».
V.
Carlotta! Nome non fine, ma dolce, che come l’essenze
risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline…
Amica di Nonna, conosco le aiuole per ove leggesti
i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.
Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno
la data: vent’otto di giugno del mille ottocento cinquanta.
Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo
E l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico.
Quel giorno – malinconia – vestivi un abito rosa,
per farti – novissima cosa! – ritrarre in fotografia…
Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei
o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?
Da I colloqui (1911)
L’ASSENZA
Un bacio. Ed è lungi. Dispare
giú in fondo, là dove si perde
la strada boschiva, che pare
un gran corridoio nel verde.
Risalgo qui dove dianzi
vestiva il bell’abito grigio:
rivedo l’uncino, i romanzi
ed ogni sottile vestigio…
Mi piego al balcone. Abbandono
la gota sopra la ringhiera.
E non sono triste. Non sono
piú triste. Ritorna stasera.
E intorno declina l’estate.
E sopra un geranio vermiglio,
fremendo le ali caudate
si libra un enorme Papilio…
L’azzurro infinito del giorno
è come seta ben tesa;
ma sulla serena distesa
la luna già pensa al ritorno.
Lo stagno risplende. Si tace
la rana. Ma guizza un bagliore
d’acceso smeraldo, di brace
azzurra: il martin pescatore…
E non son triste. Ma sono
stupito se guardo il giardino…
stupito di che? Non mi sono
sentito mai tanto bambino…
Stupito di che? Delle cose.
I fiori mi paiono strani:
ci sono pur sempre le rose,
ci sono pur sempre i gerani…
Da La Via del Rifugio (1907)
LA VIA DEL RIFUGIO
Trenta quaranta,
tutto il mondo canta
canta lo gallo
risponde la gallina…
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
Madama Colombina
s’affaccia alla finestra
con tre colombe in testa:
passan tre fanti…
Belle come la bella
vostra mammina, come
il vostro caro nome,
bimbe di mia sorella!
…su tre cavalli bianchi:
bianca la stella
bianca la donzella
bianco il palafreno…
Nel fare il giro a tondo
estraggono le sorti
(i bei capelli corti
come caschetto biondo
rifulgono nel sole).
Estraggono a chi tocca
la sorte, in filastrocca
segnando le parole.
Socchiudo gli occhi estranio
ai casi della vita.
Sento fra le mie dita
la forma del mio cranio…
Ma dunque esisto! O strano!
Vive tra il Tutto e il Niente
questa cosa vivente
detta guidogozzano!
<Trenta quaranta,
tutto il mondo canta
canta lo gallo
risponde la gallina…>
[…]
A quanti bimbi morti
passò di bocca in bocca
la bella filastrocca
signora delle sorti?
Da trecent’anni, forse,
da quattrocento e piú
si canta questo canto
al gioco del cucú.
[…]
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
L’aruspice mi segue
con l’occhio d’una donna…
Ancora si prosegue
il canto che m’assonna.
Colomba colombita
Madama non resiste,
discende già seguita
da venti cameriste.
Fior d’aglio e fiordaliso
chi tocca e chi non tocca…
La bella filastrocca
si spezza all’improvviso.
«Una farfalla!» «Dai!
Dai!» Scendon pel sentiere
le tre bimbe leggere
come paggetti gai.
Una Vanessa Io
nera come il carbone
aleggia in larghe rote
sul prato solatio,
ed ebra par che vada.
Poi – ecco – si risolve
e ratta sulla polvere
si posa della strada.
Sandra, Simona, Pina
silenzïose a lato
mettonsile in agguato
lungh’essa la cortina.
[…]
Or la Vanessa aperta
indugia e abbassa l’ali
volgendo le sue frali
piccole antenne all’erta.
Ma prima la Simona
avanza, ed il cappello
toglie ed il braccio snello
protende e la persona.
Poi con pupille intente
il colpo che non falla
cala sulla farfalla
rapidissimamente.
«Presa!» Ecco lo squillo
della vittoria. «Aiuto!
È tutta di velluto.
Oh datemi uno spillo!»
«Che non ti sfugga, zitta!»
S’adempie la condanna
terribile: s’affanna
la vittima trafitta.
Bellissima. D’inchiostro
l’ali, senza ritocchi,
avvivate dagli occhi
d’un favoloso mostro.
«Non vuol morire!» «Lesta!
ché soffre ed ho rimorso!
Trapassale la testa!
Ripungila sul dorso!»
Non vuol morire! Oh strazio
d’insetto! Oh mole immensa
di dolore che addensa
il Tempo nello Spazio!
A che destino ignoto
si soffre? Va dispersa
la lacrima che versa
l’umanità nel vuoto?
Colomba colombita
Madama non resiste,
discende già seguita
da venti cameriste…
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della Vita:
sento fra le mie dita
la forma del mio cranio.
Verrà da sé la cosa
vera chiamata Morte:
che giova ansimar forte
per l’erta faticosa?
Trenta quaranta,
tutto il mondo canta
canta lo gallo
risponde la gallina…
La Vita? Un gioco affatto
degno di vituperio,
se si mantenga intatto
un qualche desiderio.
Un desiderio? sto
supino nel trifoglio
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
Amalia Guglielminetti
a Guido Gozzano
Varazze, 8 agosto 1907
Varazze, 8 agosto 1907.
Ho avuto la vostra lettera da Agliè sfuggita per fortuna alla sorveglianza moralissima della posta, e v’ho scritto già dalla Rotonda dei bagni Margherita una ventina di giorni fa. Adesso, sola nel giardinetto ombroso che fa la guardia al mio villino, mi trattengo con Voi, immaginandomi di avervi vicino sul sedile rustico a canto al mio. […]
V’ho fatto delle confidenze letterarie, che spero non tradirete, e ve ne farò anche di quelle piú gelose che m’avete chieste. In gran segreto, però. Ho iniziato due flirt… due per non perdere l’equilibrio da nessuna parte, ma non so ancora quale farà maggiormente pendere la bilancia. Uno con un giovane maestro musicista già ben avviato verso la celebrità, l’altro con un bellissimo ragazzo, non ancora ventenne… figuratevi! M’avvedo che invecchio. Una volta non potevo soffrire gli uomini al di sotto dei trentacinque, ora mi piacciono anche gli adolescenti, specialmente se hanno come questo una figura statuaria. Il musicista posa un poco, si tuffa dal trampolino ad ore insolite, arrischia un’allusione ai miei occhi enigmatici, ma guardandosi prima bene attorno se non appaia sulla soglia di qualche cabina una certa donna, attempatella, e prodiga di sue grazie mature, che gli fa un alacre servizio di vigilanza.
[…]
Il giovinetto è solo, bello, sentimentale, intelligentissimo e beniamino di tutte le signore. Figuratevi che preda per una vecchia zitella come me. Mi accorgo anche che – al contrario del maestro – mi piace piú quando è in costume da bagno che non in abito civile.
[…]
Ogni giorno piú mi convinco dell’aristocraticità della nostra arte, sentita da cosí poche e da cosí pochi gustata, fatta per l’ebbrezza malinconica e ardente di un solo piuttosto che per il gusto volgare di un pubblico di orecchianti che si illude di divertirsi. Sapeste come in generale s’ignora la poesia!
[…]
Vorrei vicino un’anima fraterna come voi per consolarmi ridendo un poco francamente sulle spalle di questa brava gente. Ridere soli è noioso e spesso si finisce per sogghignare.
Addio. State lieto e… muto.
Amalia Guglielminetti.
Amalia Guglielminetti
a Guido Gozzano
Torino, 2 ottobre 1907
Torino, 2 ottobre 1907.
[…]
Mi permettete di farvi una confidenza? […] Ebbene sentite e non spaventatevi. In uno di questi bei pomeriggi di primo autunno molto mi piacerebbe di venirvi a trovare, di farvi una piccola visita d’amica spirituale (so che questo aggettivo non vi piace, ma non importa).
Il viaggio per giungere a Voi dev’essere un poco complicato ma potreste compierne un pezzetto anche voi – se la vostra salute ve lo permette – e indicarmi un’ora e un paese qualunque di convegno.
Altrimenti scrivetemi come devo fare e ditemi sinceramente se vi farei o no cosa gradita.
Addio.
AG.
Guido Gozzano
ad Amalia Guglielminetti
Rivarolo, 4 ottobre 1907
Rivarolo, 4 ottobre 1907.
Amica,
Sono felicissimo! Vi aspetto dunque (dal Mercoledí in poi, dovendo fino a quel giorno trattenermi qui) e vi aspetta anche mia Madre che è lettrice vostra e grande ammiratrice. Anzi, da parte sua (e non da parte mia, che sarebbe «sconveniente») vi porgo vivissime preghiere di dedicare al vostro evangelico pellegrinaggio la giornata intiera. Approvo anch’io, per quanto una colazione fatta insieme renda terribilmente borghese l’inizio di un’amicizia come la nostra… Sarà un incontro molto savio e molto poco romantico: quale certo non avrebbero sognato due poeti del secolo addietro: ma Voi non siete George Sand ed io non sono Alfred de Musset.
Ma avremo piú agio a conoscerci e meno pericolo di deluderci; credete che un convegno a mezza via, rapido ed incerto, ci lascerebbe assai male, con l’inevitabile disagio delle prime parole inconcludenti.
Chissà che invece, trascorrendo insieme molte ore, ci riusciamo reciprocamente simpatici… Perché potrebbe darsi benissimo il contrario: anzi temo che questo pensiero mi farà quel giorno parecchio melenso agli occhi vostri: ma non importa. Vi aspetto. Peccato che non sia domani, né posdomani: fino a Mercoledí, vi ripeto, non sono reduce al Meleto. Quando, da Mercoledí in poi, potrete venire? Giovedí? Venerdí? Sabato? (non Domenica) Lunedí? Martedí? Fate che sia presto.
Qualunque sia il giorno vi consiglio la corsa che parte da Porta Susa alle 8 quasi precise e che arriva ad Ozegna verso le 10. Ad Ozegna sarò ad attendervi.
Scrivetemi intanto.
Ed abbiate le cordialità di mia Madre e da me una stretta di mano impazientissima.
Gozzano.
Amalia Guglielminetti
a Guido Gozzano
Torino,7 ottobre 1907
Torino, 7 ottobre 1907.
Cortese Amico,
troppo grande è la cordialità di vostra Madre e la vostra gentilezza, ma la posso accettare solo in parte. Assentarmi da casa mia una giornata intera mi sarebbe non dico impossibile, ma difficile, tanto piú che mi trovo ad averne un poco la direzione.
D’altra parte vi confesso che non mi saprei adattare all’idea di fare in casa vostra un’entrata cosí… conviviale.
Perciò ho consultato l’orario e trovo come piú conveniente la corsa delle 14,25 che mi sbarca a Ozegna alle 15,45 cosí che ripartendo con l’ultimo treno avrei quasi quattr’ore da passare in vostra compagnia, se l’orario non mente.
E se dovessi condividere le vostre malinconiche previsioni temerei che fossero anche troppe; ma io ho maggior coraggio, o maggior presunzione di Voi, altrimenti non verrei. Vi pare? Resta da decidere il giorno.
[…]
Non resta che venerdí, giorno in cui «non si sposa né si parte». Ma io non sono superstiziosa e neppure Voi suppongo, quindi resta convenuto che verrò venerdí all’ora che v’ho detto a compiere il mio poetico-evangelico pellegrinaggio. Spero di vedervi subito scendendo dal treno poiché mi troverei in paese ignoto e non saprei come cavarmela; e Voi non vi stupite se mi troverete ben poco seducente: non c’è niente che imbruttisca tanto una donna quanto un viaggio in ferrovia, anche breve.
Vedete a quali cimenti mi pongo per amicizia vostra; ma Voi non siete Alfred de Musset e io non sono George Sand. A ben rivederci dunque.
[…]
Cordialmente.
Amalia Guglielminetti.
Guido Gozzano
ad Amalia Guglielminetti
Il Meleto, 12 novembre 1907
Il Meleto, 12 novembre 1907.
Amalia, mia cara amica,
Non so perché sento che mi andate dimenticando […] In questi giorni dovete aver pensato poco a me: sento questo per quella telepatia psichica che si acutizza morbosamente nella solitudine. Perché sono solo, unico superstite del Meleto. Mio fratello è in collegio, mia Madre è via da piú settimane ed io sono qui con l’ultime foglie. Le voglio vedere cadere tutte prima d’«inurbarmi»: e ce ne sono ancora tante! sul frutteto, sul pergolato a zone di porpora e d’oro… D’innanzi a me, nel quadrato della finestra, c’è un tiglio che quest’anno non vuole ingiallire: è ancora intatto, tutto verde, come la Speranza; credo che la prima neve lo troverà con tutte le sue foglie. Io e quel tiglio ci somigliamo un poco.
[…]
Vi siete mai domandata ciò che succederebbe se io non dovessi esiliarmi? Io sí. Succederebbe piú o meno questo.
Un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra, nel vostro salotto, con Voi. Sarebbe un crepuscolo, un crepuscolo della prima primavera, in febbraio, mettiamo. Da molte ore io sarei con Voi; avremmo parlato molto, avremmo esaurito ogni pretesto non volgare di conversazione. Da qualche istante si tacerebbe. L’ombra si farebbe piú densa. Voi vi alzereste per accendere il lume. Io vi pregherei di no, vi tratterrei seduta col gesto. Si farebbe notte, piú notte; nel quadrato della finestra, rabescato dalle cortine, il vostro profilo apparirebbe appena…
Solo a tratti l’asta scintillante d’un carrozzone elettrico illuminerebbe la penombra per un secondo. E in quel secondo il vostro volto apparirebbe e scomparirebbe come una visione non sostenibile.
Allora io – che avrei le vostre mani nelle mie mani – crederei di sognare, e inconscio irresponsabile come in un sogno, mi chinerei sulle vostre dita, salirei lungo le falangi con le labbra, fino a mordervi le vene del polso. Voi mi sollevereste la fronte, dicendomi con rampogna indulgente: «Stiamo savi!» Ma, per un evento sciagurato, il mio volto sollevandosi si troverebbe all’altezza della vostra spalla; io, nell’ombra, non me ne accorgerei: e credendo di abbandonare la guancia contro la spalliera del divano, incontrerei invece la mollezza d’una trina o il gelo d’una catenella. Istintivamente, sempre come in sogno, la mia bocca si troverebbe dietro il vostro orecchio, alla radice dei capelli fini, e vi morderei alla nuca (il morso è il mio vizio preferito)…
Allora voi vi alzereste di scatto, accendereste il lume: e due cose potrebbero accadere. O mi fareste accomiatare dalla vostra donna, come nelle commedie, col tradizionale «accompagna il Signore». E resterei male. O mi perdonereste dopo lunghe condizioni. E resterei male, ugualmente. […]
Addio.
Guido vostro affezionatissimo.
Amalia Guglielminetti
a Guido Gozzano
Torino,14 novembre 1907
Torino, 14 novembre 1907.
Mio caro Guido,
la vostra telepatia che credete cosí fine s’inganna, io non ho forse mai pensato tanto a Voi come in questi giorni che per analogia di date mi facevano rivivere le ore del nostro primo incontro. […] Io piuttosto dubitavo di Voi cosí a lungo taciturno, sognante in solitudine e in oblio. Che buona cosa è la solitudine che godete voi fra la natura e il sogno. […] È triste invece la mia, la solitudine fra la gente cosí vicina e cosí lontana da me, e fra cui è necessario ch’io sia, sempre e dovunque, «quella che va sola».
[…]
Vedete, Guido? Io esito, non vorrei rispondere all’ultima parte della vostra lettera e pure sento che bisogna ch’io ne parli. E sia pure – come Voi dite – se questo dev’essere. Se mai avesse dovuto accadere quello che Voi mi avete descritto con una finezza di tinte da farmelo pensare già vissuto da Voi nel sogno o nella vita, se questo fosse accaduto, Guido, io non avrei avuto cuore di congedarvi e neppure di imporvi delle condizioni.
Avrei nascosto il volto fra le palme, perché Voi non mi sentiste piangere di rammarico, d’un rammarico triste e dolce insieme; o forse avrei pianto nelle vostre stesse mani per farmele ritornare fraterne. Non mi sfuggite, Guido, non abbiate paura di me, io non voglio farvi del male. Sarete qui il venticinque? Venite da me il ventisei, senza indugio, portandomi ancora un poco della pura grazia del vostro tiglio verde, e della sua viva freschezza dentro gli occhi e dentro il cuore. […]
E vogliatemi bene, cosí.
A.
Da La Via del Rifugio (1907)
L’IPOTESI
I.
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via…
E penso pur quale Signora m’avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt’altra Signora non già s’affacciasse alle soglie.
II.
Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa…
Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un’antichissima villa remota del Canavese…
Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, piú fresca
dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca,
ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:
un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone…
un nome cosí disadorno e bello che il cuore ne trema:
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,
il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felicita! Oh! Veramente Felicita!… Felicità…
III.
Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d’un giorno d’estate nel mille e… novecento… quaranta.
[…]
Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l’antico frutteto darebbe i suoi frutti).
Sopita quell’ansia dei venti anni, sopito l’orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).
Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).
Vivremmo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città…
la figlia: «… l’evento s’avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza…»;
il figlio: «… la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è piú dei soci quel tale ingegnere svedese».
Vivremmo, diremmo le cose piú semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d’eleganza forbita.
IV.
Da me converrebbero a cena il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.
Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei – sui sessanta – tornato alla gioventú clericale,
poi che la ragione, sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.
V.
Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d’adesso…
E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi…
Verreste, amici d’adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!
Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sartie intorno alla mensa fedele.
Però che compita la favola umana, la Vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.
Ma non è senza bellezza quest’ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!
La sala da pranzo degli avi piú casta d’un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.
La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,
di fumo di zigaro, a nimbi… La sala da pranzo, l’antica
amica dei bimbi, l’amica di quelli che tornano bimbi!
VI.
Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l’aria tranquilla
si cenerebbe all’aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.
Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio…
Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell’ora che trillano i grilli, che l’ago solare s’arresta
tra i primi guizzi selvaggi dei pipistrelli all’assalto
e l’ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.
E noi ci diremmo le cose piú semplici poi che la Vita
è fatta di semplici cose e non d’eleganza forbita.
«Il cielo si mette in corruccio… Si vede piú poco turchino…»
«In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino».
«Peccato!» «Che splendide sere!» «E pur che domani si possa…»
«Oh! Guarda!… Una Macroglossa caduta nel tuo bicchiere!»
Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.
«Ah! Sono cosí malaccorte le cuoche… Permesso un istante
per vigilare la sorte d’un dolce pericolante…».
Riapparirebbe ridendo tra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l’opera delle sue mani…
E forse dal folto il massaio verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l’omaggio appena raccolto.
Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!
Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!
[…]
E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!
Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le Sfingi librarsi sui cespi di gelsomini…).
Parlare d’amore, di belle d’un tempo… Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggerebbe alle stelle).
Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
«Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!»
[…] «Come son muti gli eroi piú cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!»
«E come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l’arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo…».
Or mentre il dialogo ferve, mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.
Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa:
«Che cosa vuol dire? Che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?»
Allora tra un riso confuso (con pace d’Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.
Il Re-di-Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge piú frequentate
dalle famose cocottes…
Già vecchio rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele…
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi…
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America…
«Non si può vivere senza
denari, molti denari…
Considerate, miei cari
compagni la vostra semenza!»
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo…
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l’alto mare
si videro innanzi levare
un’alta montagna selvaggia…
Non era quel porto illusorio
la California o il Perú
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all’ingiú.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora…
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via…
(in dissolvenza)
Io penso talvolta… < che vita, che vita sarebbe la mia
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via…>