LETTURE DA AUTORI GIAPPONESI
(Scelte da Ezio Beccaria)
Pulisco la lente
degli occhiali – anche dalla parte
dell’occhio cieco.
Hino Sojo
(Ueno, Tokyo, Giappone, 1901 – 1956)
BANANA YOSHIMOTO
(Tokyo 1964 – )
AMRITA
(1994)
17.
…
“(…) Forse un giorno ritornerò di nuovo a vivere, ma questa volta non avrò fretta. Non ho fatto altro che correre. Non è colpa di nessuno. Io credo così. Anche tu, Yoshio, sei precoce, perciò devi stare attento. Non avere fretta come me. Guarda bene la cena preparata dalla mamma, il maglione che ti ha regalato. Guarda bene le facce dei tuoi compagni di classe, le case nel quartiere che buttano giù per costruirne di nuove. Quando si vive realmente non si nota più niente, ma a stare nel camerino di un teatro si capisce bene. Che il cielo è azzurro, che la mano ha cinque dita, che ci sono il babbo e la mamma, e persone sconosciute che saluti lungo la strada, e tutto questo è come bere un’acqua freschissima. Se non si beve, se l’acqua è lì e non la bevi a grandi sorsi, la gola si secca e si muore. Non sono brava a spiegarlo, ma è così. Di’ che non ho rimpianti. Dillo a tutti. Io ho sempre finito i compiti delle vacanze nella prima settimana, perfino il diario, e invidiavo gli altri, che li facevano tutti nell’ultima settimana in fretta e furia. Ma per paura dovevo farli subito. Ero una bambina così. Ma la prossima volta che terrò un diario non rifarò lo stesso errore, il caldo dell’estate, i raggi del sole, giorno per giorno, così come l’ho sentita. Ho avuto fretta. Questo è tutto”.
…
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RYOKAN DAIGU
(Izumozaki, Giappone 1758 – 1831)
Come ricordo
voglio lasciare
i fiori della primavera,
il canto del cùculo d’estate,
i colori dell’autunno.
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HARUMI SETOUCHI
(Tokushima, Giappone 1922 – )
IL MONTE HIEI
(Hiei 1979)
1.
Da qualche parte risuonò il verso straziante di un animale.
Era il latrato di una volpe quello che le giungeva da lontano, attraverso la fitta nevicata, o l’eco di un tamburo? Tenebre bianche velavano la visuale. Oppressa dalla neve fredda e soffice che le calava incessantemente sulla fronte, sulle palpebre, sul naso, sulle labbra, la monaca Shun-ei sentì che il respiro le mancava e lottò disperatamente per non soffocare. Poi emerse di colpo, come liberata, dalla sottile coltre di neve.
Senza sollevare la testa dal cuscino, tese l’orecchio. Non si udiva più nulla. Soltanto la calma greve e assoluta della notte riempiva la stanza, la casa, lo spazio esterno, dandole l’impressione di essere chiusa in una sfera di vetro. In fondo a quel silenzio, a quel vuoto, Shun-ei cominciò piano piano ad avvertire una presenza. Non la sentiva con le orecchie o con il naso. E neppure sulla pelle. Era qualcosa che aveva la tenue consistenza del fumo. Shun-ei si immobilizzò, trattenendo il respiro. Il candore della neve che cadeva fitta l’abbagliava.
Di nuovo il verso triste di un animale ruppe il silenzio. No, era il rumore di uno scacciadaini nel giardino di una casa lungo la strada del borgo, al di là del cimitero contiguo al cortile del vecchio tempio. Durante il giorno non lo si sentiva, altri rumori lo coprivano, ma la notte era perfettamente udibile. (…).
Il breve suono del bambù che colpiva la pietra – tac – era più acuto del verso di un animale, e anche più malinconico.
Una vecchia, una sconosciuta della campagna del Tōhoku, era venuta quella mattina a consegnarle una lettera in cui chiedeva di non dire a nessuno chi era e dove abitava. Una lettera piena di rancore… adesso nel sogno la vecchia era un’ombra nera, sola nella notte profonda, (…).
…
Il freddo che riempiva il silenzio della camera stagnava congelato e le si propagava in fitte dolorose e crudeli dalla testa alle spalle.
Accadeva spesso, prima, quando i capelli ben curati le arrivavano ai piedi, che durante la notte le si avvolgessero intorno alle spalle e alla schiena restando impigliati. Infastidita da quel dolore, inconsciamente lei protendeva un braccio per estrarli da sotto la spalla, li spargeva come alghe bagnate fuori dal cuscino, sui tatami, e si rimetteva a dormire.
Scambiando il dolore pungente del freddo con quello dei capelli tirati, Shun-ei tese una mano nel sonno e nell’attimo in cui le sue dita toccarono la testa rasata provò uno stupore che le mozzò il fiato. Erano già sei mesi che non aveva più i capelli, ma non era ancora riuscita ad abituarsi a quella sensazione. All’inizio, per accettare la nuova realtà, aveva preso l’abitudine di strofinarsi la testa appena apriva gli occhi, così le era rimasto il gesto inconscio di portarvi la mano ogni volta che si destava da un sogno, per assicurarsi di essere sveglia.
…
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TAKANO KIKUO
(Isola di Sado, Giappone 1927 – 2006)
LA NESPOLA DEL GIAPPONE
Per quanto si vogliano uniti,
non potranno diventare uno
i suoi noccioli tristi che non ce l’hanno fatta
a restare divisi, che si sono abbracciati
con passione sognando
lo stesso sogno che forma la polpa.
Gente, gente, non rimproveratela
per la polpa sottile, e non mangiate,
non mangiate questa nespola del Giappone.
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KIRINO NATSUO
(Kanazawa, Giappone 1951 – )
L’ISOLA DEI NAUFRAGHI
(2008)
Capitolo terzo
1. Le cronache dell’isola-madre
Il motivo per cui considerava ridicole quelle frasi altisonanti del tipo: “La donna è portatrice di vita” risiedeva unicamente nella sua consapevolezza di non potere avere figli. Con sua somma felicità, tra i venti e i trent’anni era rimasta incinta tre volte, ma in tutte e tre le occasioni aveva abortito, e quella felicità era stata perciò solo effimera. Alla fine, e come darle torto?, aveva perduto ogni speranza. Eppure, a quarantasei anni, ecco compiersi l’inimmaginabile, per la quarta volta e a notevole distanza di tempo. Com’era possibile che Kiyoko fosse di nuovo in dolce attesa?
Da un momento all’altro si persuase che quell’evento non andava imputato alle cosiddette stranezze della vita, quanto piuttosto alla precisa volontà di Tokyojima. Un’isola con una sua propria volontà? Certo è strano a dirsi, però… Scappare contando solo sulla forza umana, con quelle correnti e quelle onde mostruose tutt’intorno, era assolutamente impensabile. Nessuno sarebbe stato in grado di abbandonare l’isola, a meno che non fosse arrivato qualcuno in aiuto. E se dunque era l’isola stessa a impedire che anche una sola persona andasse via, poteva tranquillamente essere l’isola a volere la gravidanza dell’unica donna presente sul proprio suolo. Era suppergiù questo il ragionamento di Kiyoko, la quale, in quel momento più che mai, aveva la netta sensazione che Tokyojima mostrasse al contempo un lato buono, nel permetterle di dare maggiore valore alla sua vita attraverso una possibile maternità, e uno cattivo, nel precludere la fuga dalle sue rive.
…
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YASUSADA ARAKI
(Kyoto, Giappone 1907 – 1972)
SOGNO E CARBONELLA
E poi ella disse: sono andata verso la luce e sono diventata splendida.
E poi ella disse: ho preso una coppia d’ali e le ho attaccate alle diverse parti dietro il mio corpo.
E poi ella disse: tutti gli ospiti stanno tornando dov’erano e poi stanno parlando.
A loro ella disse: senza la maniglia per afferrarvi, come potrete riconoscere la mia nudità?
A loro rispose: senza niente è quando tutto muore.
Che è quando ebbe una selvaggia contesa con i ramoscelli.
Che è quando la carbonella passò dal suo corpo al mio.
Che fu come la rosa nei cieli che accecava i pedoni.
Che fu come la nostra unione fosse trasportata in un buio scarabocchio.
Che diventò la figlia che chiamava, che chiamava il mio nome per risvegliarmi.
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MURAKAMI HARUKI
(Kobe, Giappone 1949 – )
A SUD DEL CONFINE, A OVEST DEL SOLE
(South of the border, west of the sun 1992)
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Io (…), ero figlio unico. Fin da bambino avevo avvertito per questo un certo senso di inferiorità. Sentivo che la mia esistenza nel mondo era, per così dire, un fatto particolare: tutto quello che gli altri avevano e davano per scontato a me non era concesso.
…
Nella scuola che frequentavo c’erano pochissimi figli unici. Sembra incredibile, ma nei sei anni delle elementari ne avevo conosciuto uno solo. Mi ricordo benissimo di lei (era una bambina), proprio perché era la sola figlia unica che avessi mai incontrato. Diventammo intimi amici e parlavamo di ogni genere di cose. La nostra era davvero una “perfetta intesa reciproca” e si potrebbe persino dire che l’amassi.
Si chiamava Shimamoto. A causa di una poliomielite contratta subito dopo la nascita, zoppicava leggermente alla gamba sinistra. Veniva da un’altra scuola ed era arrivata nella nostra classe verso la fine della quinta elementare e questo costituiva per lei un peso psicologico non indifferente, senza dubbio maggiore del mio. Solo per il fatto di dover sostenere questo carico così gravoso, dimostrava di essere una “figlia unica” molto più forte e più indipendente di me. Non si lamentava mai con nessuno, né a parole né lasciando trasparire alcunché dall’espressione del volto. Qualsiasi cosa succedesse, riusciva sempre a sorridere; anzi, più una situazione era spiacevole, più il suo sorriso si faceva grande. Era un sorriso meraviglioso, che aveva il potere di consolarmi o di incoraggiarmi a seconda dei casi. Sembrava volermi dire: “Non preoccuparti. Vedrai che con un piccolo sforzo ce la farai!”. Ogni volta che mi ricordo di lei, mi torna in mente quel sorriso.
A scuola Shimamoto aveva voti alti, era sempre corretta e gentile con tutti ed era tenuta in alta considerazione dalla classe. Per me, invece, pur essendo figlio unico come lei, non era così. Dubito, però, che Shimamoto fosse amata da tutti i compagni. (…), a parte me, non aveva nessun vero amico.
Forse era troppo controllata e sicura di sé per i gusti dei miei compagni che, probabilmente, scambiavano quel suo atteggiamento per freddezza e arroganza. Io, invece, riuscivo a percepire l’umanità e la fragilità che si nascondevano dietro quel suo comportamento esteriore. Era come un bimbo piccolo che giochi a nascondino: andava sempre a rintanarsi negli angoli più appartati, con la speranza, però, che qualcuno prima o poi la trovasse. C’erano momenti in cui, all’improvviso, scoprivo nelle sue parole e nel suo sguardo il riflesso di questa sua parte nascosta.
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MATSUO BASHŌ
(Ueno, Giappone 1644 – 1694)
Vieni, andiamo,
guardiamo la neve
fino a restarne sepolti.
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TANIZAKI JUNICHIRO
(Tokyo, Giappone 1886 – 1965)
NEVE SOTTILE
(Sasame Yuki 1948)
7
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La gente le guardava passare con curiosità e i negozianti facevano qualche commento: ma erano pochi quelli che riuscivano ad indovinare la loro età. Sachiko non dimostrava più di venticinque o ventisei anni, Yukiko sembrava ne avesse ventidue al massimo e Koi-San [Taeko], a volte, veniva scambiata per una ragazzina diciassettenne. Sebbene avesse superato il tempo in cui le fanciulle generalmente prendono marito, Yukiko si sentiva spesso chiamare “la giovane signorina”, senza che ciò destasse stupore in chi udiva. Inoltre, tutte e tre avevano un aspetto migliore quando indossavano abiti giovanili: non che i colori vivaci dovessero aiutarle a nascondere l’età; al contrario, erano i vestiti adatti alla loro età che sembravano troppo seri per loro.
…
Ciascuna di esse era dissimile dalle altre e possedeva una sua particolare bellezza; eppure, nel vederle vicine, la gente era subito portata a pensare “Che graziose sorelle!” Sachiko era più alta: le altre due, identiche in fatto di statura, le camminavano ai lati e ciò bastava a rendere armonioso il quadro da esse composto quando procedevano nelle vie. Taeko era quella che più si avvicinava alle donne occidentali per modi e figura, Yukiko amava muoversi e vestirsi come una perfetta giapponese e Sachiko stava nel giusto mezzo. Così pure, quasi adunando in sé tutti gli elementi di bellezza delle sorelle, ella non aveva né il viso e le forme rotondette di Taeko né l’ovale allungato e la snellezza filiforme di Yukiko. Inoltre, durante l’estate, la maggiore delle tre sorelle usava abiti europei, ma durante il rimanente dell’anno restava fedele all’antico costume nipponico; Taeko, invece, non abbandonava quasi mai i vestiti occidentali, mentre Yukiko si lasciava indurre a indossarli soltanto raramente e anche il suo viso, nonostante le stessero bene le tinte vivaci, aveva sempre qualcosa di patetico, di triste. Non somigliava al padre, come gli somigliavano le sorelle, e indosso a lei i chimono scuri, che a Tokyo venivano considerati l’apice dell’eleganza, apparivano fuori posto.
Per andare ai concerti, era sempre indispensabile vestirsi con cura; quel giorno, poi, trattandosi di un concerto per inviti, le tre sorelle avevano fatto il possibile per essere impeccabili. Quando scesero in fretta dal tassì e si precipitarono verso la stazione, nella limpida luce del pomeriggio autunnale, tutti si voltarono a guardarle. Era domenica e in treno non c’erano quasi altri viaggiatori. Ma Yukiko si accorse che lo studente seduto di fronte a lei, dopo averle guardate per un istante, si era fatto rosso in viso e aveva abbassato gli occhi al suolo.
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YOSANO AKIKO
(Sakay, Osaka, Giappone 1878 – 1942)
Colombe
dal tetto della pagoda
i petali dei ciliegi cadono
nel vento di primavera –
scriverò la mia canzone sulle loro ali.
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MISHIMA YUKIO
(Shinjuku, Tokyo 1925 – 1970)
CONFESSIONI DI UNA MASCHERA
(Kamen no kokuhaku)
Capitolo Primo
Per molti anni continuai a sostenere ch’ero capace di ricordare cose viste all’epoca della mia nascita. Da principio, ogni volta che lo dicevo, i grandi si mettevano a ridere, ma poi, sospettando la velleità di raggirarli, guardavano con astio la faccia pallida di quel fanciullino senza fanciullezza. Di quando in quando mi capitava di dirlo in presenza di visitatori che non erano intimi amici di famiglia; allora la mia nonna, per paura che mi giudicassero un idiota, mi dava seccamente sulla voce ordinandomi di andar a giocare altrove.
Di solito, mentre ancora la loro ilarità si smorzava nel sorriso, i grandi passavano a cercare di contraddirmi con qualche spiegazione più o meno scientifica. Nel tentativo di escogitare argomenti adatti a far presa sulla mente d’un bimbo, intonavano sempre uno sproloquio improntato di notevole zelo drammatico, affermando che gli occhi dei piccoli non sono aperti alla nascita, e che, se anche fossero ben spalancati, sarebbe impossibile che il neonato possa scorgere le cose con chiarezza sufficiente a ricordarle.
“Non ti par giusto?” dicevano, scrollando l’esile spalla del bambino tuttora incredulo. Ma proprio in quel punto sembrava li colpisse l’idea che stavano per lasciarsi accalappiare dai suoi trucchi: anche se per noi non è che un bimbo, sarà meglio stare in guardia contro di lui. Questa canaglietta s’ingegna certamente di prenderci in castagna, di costringerci a parlargli di “quella tal cosa che fanno i grandi”, e nulla gli impedirà di chiedere, con innocenza ancora più disarmante: “Da dove sono venuto, io? Come son nato?” E alla fine mi squadravano di nuovo, in silenzio, con uno scialbo sorriso gelato sulle labbra, a dimostrare che, per qualche ragione di cui non sarei mai venuto a capo, il loro amor proprio era stato profondamente offeso.
…
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KOBAYASHI ISSA
(Kashiwabara, Shinano, Giappone 1763 – 1828)
Non scordare,
noi camminiamo sopra l’inferno,
guardando i fiori.
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SŌSEKI NATSUME
(Tokyo, Giappone 1867 – 1916)
E POI
(Sore kara 1910)
14
…
Michiyo entrò, (…). Nel suo kimono di seta blu a macchie bianche, stretto da un obi arabescato, appariva così diversa dall’ultima volta che a Daisuke fece un’impressione nuova. Come sempre era piuttosto pallida, e quando sulla soglia si trovò di fronte a lui, gli occhi, le sopracciglia e la bocca le s’irrigidirono, come privati di vita. Entrata nella stanza, le sue gambe parvero immobilizzarsi. Nel leggere la lettera, aveva naturalmente avuto il presentimento di qualcosa. Un presentimento in cui confluivano paura, gioia, e ansia. Dal momento in cui era scesa dalla vettura fino a quello in cui era entrata nella stanza, tutti questi sentimenti si erano affollati sul suo viso. Poi, di colpo, la sua espressione si era pietrificata. Perché sul volto di Daisuke aveva visto un’intensità tale da rimanere sconvolta.
Daisuke le indicò una sedia. Michiyo prese posto docilmente. Lui le si sedette di fronte. Era la prima volta che si trovavano così, faccia a faccia, uno davanti all’altra. Per qualche istante nessuno dei due disse nulla.
“Volevate parlarmi di qualcosa?” chiese alla fine Michiyo
“Si…” fece Daisuke. Poi di nuovo tacquero entrambi, ascoltando il rumore della pioggia.
“È qualcosa di urgente?” domandò ancora Michiyo.
“Si…” ripeté Daisuke.
Non riuscivano a conversare con la consueta disinvoltura. Daisuke si vergognava di aver bisogno dell’aiuto dell’alcol per dichiararle il proprio amore. Aveva deciso che per aprirle il suo cuore doveva assolutamente essere nelle condizioni di spirito normali, ma ora che si trovava di fronte a lei, per la prima volta anelava a un goccio d’alcol. Pensò di andare nell’altra stanza e bere di nascosto un bicchiere del suo whisky, ma scartò l’idea con repulsione: doveva riuscire a confidarsi con Michiyo a mente lucida, altrimenti non sarebbe stato se stesso. Non poteva fare a meno di sentire che erigendo una barriera di ebbrezza e facendosene riparo per mostrarsi audace, si sarebbe comportato in modo pusillanime, crudele e offensivo nei confronti di lei. Se non era più in grado di adottare un atteggiamento morale agli occhi della società, almeno verso Michiyo intendeva agire senza ombra d’immoralità. L’amore che aveva per lei era così profondo da non permettergli di abbassarsi ad azioni vili e volgari. Eppure, ora che lei gli chiedeva se dovesse dirle qualcosa, non sapeva risponderle sinceramente, esitava… Quando Michiyo gli pose la domanda per la terza volta, dovette risolversi.
“Be’ non c’è fretta, parliamo con calma” fece accendendosi una sigaretta. A ogni rinvio, il volto di lei impallidiva un po’ di più.
La pioggia scrosciante continuava a cadere con fragore su ogni cosa. Grazie a quel rumore, Daisuke e Michiyo erano tagliati fuori dal mondo, (…). Isolati da tutto, e avvolti dal profumo dei fiori.
“Poco fa sono uscito, e ho comprato questi gigli” disse Daisuke indicando intorno a sé. Seguendo lo sguardo di lui, Michiyo percorse la stanza con gli occhi. Poi inspirò a fondo l’aria.
“Volevo ricordarvi i tempi in cui vivevate con vostro fratello a Shimizuchō, per questo ne ho comprati quanti più possibile” continuò Daisuke.
“Hanno un buon profumo” disse Michiyo osservando le grandi corolle dischiuse che sembravano galleggiare sull’acqua; poi spostò di nuovo lo sguardo su Daisuke, arrossendo leggermente.
“Quando ripenso a quell’epoca…” iniziò a dire, ma s’interruppe.
“Ricordate?”
“Certo che ricordo”.
“Mettevate sempre dei bellissimi mezzi colletti, e portavate i capelli a foglia di gingko.”
“Eh sì, ero appena arrivata dalla provincia! Poi ho cambiato acconciatura.”
“Ma l’altro giorno, quando mi avete portato dei gigli, non vi eravate forse pettinata a foglia di gingko?”
“Oh, l’avete notato? Era la prima volta che lo facevo, da allora.”
“Vi era venuta voglia di pettinarvi così?”
“Sì, un capriccio improvviso…”
“Vedendovi, mi è tornato in mente il passato.”
“Ah…” disse Michiyo con un certo imbarazzo.
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MIURA CHORA
(Ise, Mie, Giappone 1729 – 1780)
In questo giorno
che tramonta
sono caduti i fiori di ciliegio.
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BANANA YOSHIMOTO
KITCHEN
(Kitchin 1988)
Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina.
Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puliti e le piastrelle bianche che scintillano.
Anche le cucine incredibilmente sporche mi piacciono da morire.
Mi piacciono col pavimento disseminato di pezzettini di verdura, così sporche che la suola delle pantofole diventa subito nera, e grandi, di una grandezza esagerata. Con un frigo enorme pieno di provviste che basterebbero tranquillamente per un intero inverno, un frigo imponente, al cui grande sportello metallico potermi appoggiare. E se per caso alzo gli occhi dal fornello schizzato di grasso o dai coltelli un po‘ arrugginiti, fuori le stelle che splendono tristi.
Siamo rimaste solo io e la cucina. Mi sembra un po‘ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola.
Nei momenti in cui sono molto stanca, mi succede spesso di fantasticare. Penso che quando verrà il momento di morire, vorrei che fosse in cucina. Che io mi trovi da sola in un posto freddo, o al caldo insieme a qualcuno, mi piacerebbe poterlo affrontare senza paura. Magari fosse in cucina!
…
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YOSA BUSON
(Kema, Settsu, Giappone 1716 – 1784)
Si oscura la montagna,
e ruba il rosso
alle foglie d’autunno.
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KŌBŌ ABE
(KIMIFUSA ABE)
(Tokyo, Giappone 1924 – 1993)
LA DONNA DI SABBIA
(Suna no onna 1962)
Capitolo VI
…
Il sonno tardava a venire. Gli arrivava di continuo il fruscio prodotto dai movimenti concitati della donna che non si fermava un attimo.
…
Cercò di pensare ad altro. Chiudendo gli occhi, vide apparire numerose strisce slanciate che continuavano a fluire come creature viventi che respiravano. Erano i disegni lasciati dal vento sulla sabbia, che si spostavano lentamente lungo i versanti delle dune: li aveva inseguiti per mezza giornata ed erano rimasti stampati nel fondo degli occhi. Fu lo stesso fluire della sabbia a distruggere, divorando, città e perfino imperi che avevano prosperato una volta. Si chiamava forse Sabrata, quella città dell’Impero romano? Poi la città cantata da Omar Kayam…
…
Città antiche di cui nessuno osava nemmeno sospettare la loro immobilità. Ma neppure esse riuscirono a vincere la legge della sabbia cui l’unica definizione precisa era quella del diametro di 1/8 mm.
La sabbia…
Visto con gli occhi della sabbia, tutto ciò che possedeva una forma era vano. L’unica cosa certa per essa era il suo movimento che negava ogni forma fissa. Intanto, oltre la sottile parete di legno, la donna continuava a spalare la sabbia senza mai fermarsi. Cosa sperava di fare con quelle esili braccia di donna? Non era forse come costruire una casa ai margini d’un fiume? Quando si ha da fare con l’acqua, è necessario pensare alle barche, perché è inutile contrapporsi al carattere dell’acqua.
Questo pensiero dette un’improvvisa sensazione di liberazione all’uomo, finora tormentato da quel senso di strana oppressione suscitato dal rumore della donna che spalava la sabbia. Se è la barca che si addice all’acqua, perché non accostare la barca anche alla sabbia? Bastava liberarsi dall’idea fissa di una casa, per non sprecarsi inutilmente nello sforzo di lottare contro la sabbia. Una barca che galleggia in tutta libertà sulla sabbia… Una casa mobile… Villaggi e città senza una forma fissa…
Naturalmente la sabbia non è un materiale fluido. Perciò non ci si può aspettare da essa la capacità di far galleggiare la barca. Perfino una sostanza col peso specifico minore di quello della sabbia, come per esempio un turacciolo di sughero, verrebbe travolta e sommersa nella sabbia se fosse lasciata per suo conto. Una barca che dovrà galleggiare sulla sabbia dev’essere munita d’una capacità completamente nuova. Una casa, per esempio, con la forma d’una botte oscillante. Basterebbe girarla un poco per sbattere via la sabbia che vi si accumula; e la casa si troverebbe di nuovo a galla. Tuttavia se la casa dovesse girare su se stessa di continuo, la gente che ci abita avrebbe un’enorme difficoltà a ritrovare l’equilibrio; sarebbe insopportabile per i suoi abitanti. Si potrà inventare allora un trucco, cioè costruire una botte a doppio strato di pareti: la camera interna fatta in modo che il pavimento si trovi sempre in conformità al senso della gravità. Mentre la botte esterna continua a girare. Una casa oscillante come il pendolo d’un immenso orologio. Una casa simile a una culla. La barca che naviga attraverso il deserto di sabbia…
Villaggi e città fatti da agglomerati di queste barche che continuano ad oscillare…
Senza rendersene conto, l’uomo si era addormentato.
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MASAOKA SHIKI
(Matsuyama, Giappone 1867 – 1902)
Desolazione invernale
mentre attraverso un caseggiato
un cane abbaia
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MURAKAMI RYŪ
(Sasebo, Giappone 1952 – )
BLU QUASI TRASPARENTE
(Kagirinaku Tōmei ni chikai burū 1976)
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“(…), ti sarà capitato di fare gite in macchina, no? Andare al mare o su un vulcano viaggiando per qualche ora, partendo la mattina quando ti bruciano ancora gli occhi, fermarsi strada facendo dove c’è un bel panorama e bere tè dalla borraccia, e poi a mezzogiorno fare picnic in un prato, insomma, una di quelle classiche gite!
Dentro la macchina, mentre si corre, si pensa a tante cose, vero? Che oggi al momento di partire non trovavi il filtro della macchina fotografica e chissà dove l’hai messo, come si chiamava quell’attrice che c’era in televisione ieri pomeriggio, e così via. Che ti si stanno consumando i tacchi delle scarpe, che avresti paura se ti capitasse un incidente, che ormai non crescerai più in altezza, insomma, pensi a tante cose, no? E allora quei tuoi pensieri vanno sovrapponendosi al paesaggio che vedi dalla macchina e che scorre via.
Le case, i campi, si avvicinano man mano e poi si allontanano di nuovo alle tue spalle, giusto? Così il paesaggio e quello che hai dentro la testa si mescolano assieme. Le persone che aspettano l’autobus a una fermata lungo la strada, un ubriaco in tight che cammina barcollando, una donna col carretto carico di arance, i campi di fiori, un porto, una centrale termica; ti entrano negli occhi e poi scompaiono subito di nuovo, di modo che vanno a confondersi con le cose che ti venivano in mente prima, capisci? Il filtro della macchina fotografica, i campi di fiori e la centrale termica diventano un tutt’uno. Così io rimescolo lentamente dentro la testa le cose che vedo e quelle che stavo pensando a mio piacimento, cercando tra i ricordi di sogni o di libri letti, e dedicandoci molto tempo; è quasi, come dire, una fotografia… ecco, sì, ricostruisco una scena tipo quella di una foto ricordo.
Vado via via aggiungendo a quella foto i paesaggi nuovi che mi saltano agli occhi, poi alla fine faccio in modo che le persone dentro alla fotografia si muovano, parlino e cantino, insomma che si muovano, capisci?
E allora, immancabilmente… Immancabilmente tutto diventa una specie di gigantesco palazzo, mi si crea dentro alla testa questa specie di palazzo dove si riunisce tantissima gente che fa un mucchio di cose diverse.
Quando il palazzo è finito e ci guardo dentro è davvero divertente, sembra proprio di guardare la terra dall’alto di un nuvola, perché c’è di tutto, ci sono tutte le cose di questo mondo. C’è gente di ogni tipo, si parlano lingue diverse, le colonne del palazzo sono costruite in stili differenti, ci sono piatti della cucina di qualsiasi Paese.
È sicuramente più imponente di un set cinematografico, e più dettagliato. C’è tanta gente diversa, davvero tanta! Ciechi, mendicanti, storpi, saltimbanchi, nani, generali pieni di decorazioni d’oro e soldati coperti di sangue, cannibali, travestiti neri, primedonne, toreri e culturisti, nomadi che pregano nel deserto, insomma ci sono tutti lì, e tutti stanno facendo qualche cosa. E io li guardo.”
…
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KAKIMOTO NO HITOMARO
(Giappone 662 – 710)
Nessuno potrà vedermi
né chiedermi qualcosa.
In sogno verrò da te stanotte;
non chiudere la porta al sogno.
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MURAKAMI HARUKI
L’UCCELLO CHE GIRAVA LE VITI DEL MONDO
(Neji makidori Kuronikuru 1994)
Parte prima
LA GAZZA LADRA
1
Dove si parla dell’uccello-giraviti del martedì e di creature con sei dita e quattro seni
Avevo la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono. Alla radio davano la Gazza ladra di Rossini, il sottofondo musicale ideale per prepararsi un piatto di spaghetti, e io l’accompagnavo fischiando. Fui tentato di non rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti, e Claudio Abbado stava giusto per portare l’orchestra filarmonica di Londra all’apice dell’intensità drammatica. Pazienza, mi rassegnai ad abbassare il fuoco, andai nel soggiorno e sollevai il ricevitore. Poteva anche essere un conoscente con qualche nuova proposta di lavoro.
“Vorrei dieci minuti del tuo tempo”, disse senza preamboli una voce di donna.
Io sono piuttosto bravo a riconoscere le persone dalla voce, quella lì però non l’avevo mai sentita.
“Scusi, con chi desidera parlare?” chiesi educatamente.
“Proprio con te. Dieci minuti, dammi solo dieci minuti del tuo tempo. Vedrai che riusciremo a intenderci perfettamente.” La donna aveva una voce bassa, morbida, elusiva.
“Intenderci?”
“Parlo di feeling.”
Sporsi la testa oltre la porta a guardare in cucina: dalla pentola si alzava bianco vapore, Abbado continuava a dirigere la Gazza ladra.
“Scusi, ma ho gli spaghetti sul fuoco, non potrebbe chiamare più tardi?”
“Spaghetti?” fece lei in tono sconcertato. “Spaghetti alle dieci e mezzo del mattino?”
“Questo non la riguarda. Ho il diritto di mangiare quello che mi pare all’ora che mi pare”, risposi un po’ irritato.
“In effetti”, disse la donna in tono secco e impersonale, molto diverso da prima. L’umore sembrava leggermente cambiato. “Vabbè, non importa, richiamo più tardi.”
“Aspetti un momento”, risposi in fretta. “Se è per vendermi qualcosa, guardi che perde il suo tempo, mi telefonasse anche cento volte. In questo momento non posso permettermi di comprare niente, sono disoccupato, non ho soldi da buttare via.”
“Lo so, non ti preoccupare.”
“Come sarebbe a dire, lo sa?”
“Significa che so benissimo che sei disoccupato. Per cui vai pure a prepararti i tuoi preziosi spaghetti.”
“Ma lei, cosa diavolo…” Non feci in tempo a terminare, dall’altra parte avevano sbattuto giù il telefono.
Non sapendo dove sfogare il mio malumore, rimasi per un momento a guardare il ricevitore che tenevo in mano. Poi mi venne in mente la pentola sul fuoco, tornai, spensi il gas e scolai gli spaghetti. Per colpa della telefonata erano un po’ scotti, non si potevano certo dire al dente. Non erano neanche un disastro, però.
Intendersi? pensavo mangiando. In dieci minuti tra di noi si sarebbe dovuto creare un feeling? Ma cosa aveva voluto dire, quella lì? Magari era solo uno scherzo. Oppure una nuova strategia di vendita. Nell’uno e nell’altro caso, non era cosa che mi riguardasse.
Tornai sul divano del soggiorno e mi misi a leggere un romanzo che avevo preso in prestito in biblioteca. Intanto continuavo a gettare occhiate al telefono, domandandomi con un senso di disagio cosa potevano significare le parole di quella donna: “in dieci minuti possiamo intenderci.” Cosa potevamo mai capire l’uno dell’altra in dieci minuti? A pensarci bene, lei aveva fissato quel preciso limite di tempo fin dall’inizio. E con grande sicurezza, anche. Poteva darsi che nove minuti fossero troppo pochi e undici troppi. Come il tempo di cottura degli spaghetti.
…
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YOSANO AKIKO
Amore o sangue?
Tutta la primavera
è in questa peonia che mi ossessiona,
scende la notte, sono sola,
sola e senza una poesia.
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YASUNARI KAWABATA
(Osaka, Giappone 1899 – 1972)
KOTO
(Koto 1962)
Fiori di primavera
Chieko scoprì le violette fiorite sul tronco antico dell’acero.
“Sono fiorite anche quest’anno.” Con queste parole andò incontro alle dolce primavera.
Nel piccolo giardino di città, quell’acero era davvero grande, più grande dei fianchi di Chieko. La sua corteccia vecchia, rugosa, cosparsa di muschio, non era tuttavia da paragonare al corpo giovane e fresco di lei.
Incurvato verso destra, all’altezza dei fianchi di Chieko, l’albero accentuava quella piega là dove raggiungeva la testa della ragazza: di lì si dipartivano i rami, folti, da riempire quasi il giardino. I più lunghi ripiegavano leggermente verso il basso. Poco sotto il punto in cui più ampiamente piegava sulla destra, si intravedevano due piccole cavità; da queste spuntavano, distanti, due violette. Le due piante di violette fiorivano a ogni primavera. Per quanto ricordava Chieko, c’erano sempre state, su quell’albero.
Tra la violetta di sopra e quella di sotto c’era una distanza di trenta centimetri. Ora, nel pieno della giovinezza, Chieko le stava guardando. Quella di sopra si incontrerà mai con quella di sotto? Si conoscono forse? Cosa vuol dire, d’altra parte, incontrarsi o conoscersi, per le violette?
Ogni primavera facevano tre, cinque fiori al massimo. Comunque, su quell’albero, in quelle piccole cavità, ogni primavera mettevano le gemme e poi i fiori. Chieko le guardava a volte dalla veranda, a volte stando ai piedi dell’albero; rimaneva colpita dalla vita delle piantine: talvolta si sentiva perfino invasa dalla solitudine in cui esse crescevano.
“Nascere in un posto così, continuare a viverci…” I clienti che si recavano nella bottega esprimevano la loro ammirazione per l’acero, tuttavia quasi nessuno notava le violette fiorite. Vecchio, nodoso, ricoperto fino in cima di muschio, e perciò tanto più dignitoso e attraente l’acero; meschine, al contrario, le violette che ospitava.
Ma le farfalle le conoscevano. Quando Chieko le aveva scoperte fiorite, un piccolo sciame bianco, librandosi in basso nel giardino, volò dal tronco dell’acero fino a esse. Sul rosso delicato delle piccole gemme che stavano per schiudersi, quel bianco volo di farfalle era vivido e pieno di grazia. Sul verde fresco del muschio dell’acero, le foglie e i fiori delle due piante di violette gettavano un’ombra assai tenue. Era una dolce giornata di primavera leggermente suffusa di foschia.
Seduta sulla veranda, Chieko rimase a guardare le violette anche dopo che le bianche farfalle se ne erano allontanate.
“Anche quest’anno siete fiorite” pareva sussurrasse.
…
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MISHIMA YUKIO
LE STELLE
Quando gli uomini guarderanno le stelle,
nel loro cuore si leverà, carico di essenze,
il vento della notte.
Sulla foresta, sul lago, sulla città,
le nuvole fluttueranno tranquille.
Allora le stelle inizieranno a cadere copiose
e come la rugiada copriranno ogni cosa.
Nel disegno tracciato dall’invisibile nastro divino,
tutte le costellazioni crolleranno a una a una
con estrema eleganza.
D’allora in poi le stelle dimoreranno
nella nostra anima, e forse torneranno ancora
quei giorni in cui gli uomini
erano dolci e meravigliosi come gli Dei.
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BANANA YOSHIMOTO
LA PICCOLA OMBRA
(Furin to Nanbei 2000)
OLTRE LA FINESTRA
…
Eh sì, la mia vita era molto tranquilla e non succedeva mai niente di speciale, eppure nell’infanzia mi era capitata una cosa molto strana. Una volta soltanto.
All’epoca avevo sette anni. La nonna era in fin di vita e i miei genitori, cugini tra loro, avevano messo a letto me, la loro unica figlia, ed erano andati in ospedale per starle vicini.
Ero una bambina molto brava e non mi spaventava per niente il fatto di restare a casa da sola. Ricordo ancora di averli salutati prima che uscissero. Dormivo sempre insieme a un orsacchiotto dal pelo morbido che mi aveva comprato la nonna e lo feci anche quella notte. Avevo capito che le era successo qualcosa di brutto, ma di certo non potevo dire di sapere che cosa significasse morire. Mi addormentai con la semplice preghiera, innocente e superficiale al tempo stesso, di poterla vedere ancora.
In casa non c’era nessuno e io mi sentivo come la frutta che sta al fresco nel frigo. Senza nessun rumore, senza che nessuno facesse piano per non farsi sentire, il tempo scorreva alla chetichella, mentre l’ambiente si rinfrescava piano piano… Dopo un sonno leggero, mi svegliai. Era l’alba. Nell’alto del cielo echeggiava nitido il cinguettio degli uccelli. Inconsciamente cercai di prendere l’ orsacchiotto che dormiva al mio fianco. Per quanto allungassi la mano, non riuscivo nemmeno a toccarlo, così decisi di girarmi per guardare dov’era. Sobbalzai per lo spavento, l’ orsacchiotto non c’era più.
Ancora intontita dal sonno, mi sedetti nel letto e con lo sguardo lo cercai per tutta la stanza. Lo vidi seduto di spalle intento a guardare fuori dalla finestra, con il muso appoggiato alla grande finestra che dava sul balcone. Ma se non c’era nessuno in casa! Chi aveva fatto una cosa del genere? Rabbrividii. Tuttavia sentivo che stando lì immobile a tremare, la paura sarebbe aumentata, per cui andai verso la finestra e al suo fianco guardai fuori. Era un’alba bellissima. L’azzurro chiaro e il rosa si riflettevano sulle nubi, e in quel mondo, protetto da una formula magica, sembrava non ci fosse più niente di brutto. Nell’arco della notte gli dei avevano spazzato via con una scopa dai mille colori trasparenti tutta la sporcizia che si era accumulata il giorno precedente.
Per un istante fui seriamente indecisa se rispettare la volontà dell’ orsacchiotto e lasciarlo guardare fuori, oppure se prenderlo in braccio e continuare a dormirci insieme. La sua immagine di spalle, però, aveva un che di triste e melanconico, cosicché optai per la seconda scelta.
La nonna morì durante la notte.
…
19 Ottobre 2013