LETTURE DA AUTORI DELL’EUROPA DELL’EST
(Scelte da Ezio Beccaria)
Il primo segnale dell’inizio della comprensione
si manifesta con il desiderio di morire.
Franz Kafka
(Praga 1883 – 1924)
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JAROSLAV SEIFERT
(Praga 1901 – 1986)
ALLORA MI PREPARAVO ALLA VITA
Allora mi preparavo alla vita
e puntavo là dove
il mondo è più denso.
Sule bancarelle della fiera ogni tanto
scrosciavano mazzi di rosari,
come quando piove su un tetto di lamiera,
e le ragazze che passeggiano per la fiera
col fazzoletto nella mano impacciata
prodighe offrivano per ogni dove
i loro occhi splendenti
e le loro labbra seminavano nel vuoto
voluttà di baci futuri.
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PETÖFI SÁNDOR
(Kiskõrös, Ungheria 1823 – 1849)
IO SARÒ ALBERO
Io sarò albero se ti farai
fiore d’un albero:
se rugiada sarai mi farò fiore.
Rugiada diverrò se tu sarai
raggio di sole:
così, mio amore, noi ci uniremo.
Se, mia fanciulla, tu sarai cielo
io diverrò, allora, una stella:
se, mia fanciulla, tu sarai inferno,
io, per amarti, mi dannerò.
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JAROSLAV HAŠEK
(Praga 1883 – 1923)
IL BUON SOLDATO SC’VÈIK
(Osudy dobrého vojáka Švejka)
Prefazione
Una grande epoca esige grandi uomini. Vi sono degli eroi ignorati ed oscuri, privi della fama e della gloria d’un Napoleone. L’esame della loro indole darebbe ombra perfino alla gloria di Alessandro Magno. Oggigiorno si può incontrare per le vie di Praga un uomo trasandato, che non sa affatto quanta importanza abbia avuto la propria opera nella storia d’un epoca grande e nuova come questa. Egli percorre tranquillamente la sua strada, senza che nessuno gli dia noia e senza dar noia a nessuno e senza essere assediato da giornalisti che gli chiedano un’intervista. Se gli domandaste come si chiama, vi risponderebbe con l’aria più semplice e più naturale del mondo: “Io son quello Sc’vèik…”
E quest’uomo cheto, semplice e trasandato è nientedimeno che il vecchio e buon soldato Sc’vèik, perseverante ed eroico, il cui nome al tempo dell’Austria era sulla bocca di tutti i cittadini del Regno di Boemia, e la cui gloria non tramonterà neppure sotto la Repubblica.
Io voglio molto bene al buon soldato Sc’vèik, e raccontandovi le sue avventure durante la guerra mondiale sono convinto che tutta la vostra simpatia si rivolgerà verso questo eroe umile e oscuro. Egli non ha mica incendiato il tempio della dea in Efeso, come fece quell’imbecille di Erostrato, allo scopo d’apparire sui giornali e nei libri di lettura.
E ciò mi pare che basti.
L’Autore
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BLAGA DIMITROVA
(Bjala Slatina, Bulgaria 1922 – 2003)
ESSERE DONNA
(1965)
Essere donna è dolore.
Soffri scoprendoti adulta.
Soffri di essere amante.
Soffri quando sei madre.
Ma insostenibile è in terra
il dolore di essere donna
senza aver conosciuto questi dolori
fino in fondo…
Da TEMPO INVERSO (1966)
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WISLAWA SZYMBORSKA
(Kórnik, Polonia 1923 – 2012)
ADDIO A UNA VISTA
Non ce l’ho con la primavera
perché è tornata.
Non la incolpo
perchè adempie come ogni anno ai suoi doveri.
Capisco che la mia tristezza
non fermerà il verde.
Il filo d’erba, se oscilla,
è solo al vento.
Non mi fa soffrire
che gli isolotti di ontàni sulle acque
abbiano di nuovo con che stormire.
Prendo atto
che la riva di un certo lago
è rimasta – come se tu vivessi ancora –
bella come era.
Non ho rancore
contro la vista per la vista
sulla baia abbacinata dal sole.
Riesco perfino ad immaginare
che degli altri, non noi
siedano in questo momento
su un tronco rovesciato di betulla.
Rispetto il loro diritto
a sussurrare, a ridere
e a tacere felici.
Suppongo perfino
che li unisca l’amore
e che lui la stringa
con il suo braccio vivo.
Qualche giovane ala
fruscia nei giuncheti.
Auguro loro sinceramente
di sentirla.
Non esigo alcun cambiamento
dalle onde vicine alla riva,
ora leste, ora pigre
e non a me obbedienti.
Non pretendo nulla
dalle acque fonde accanto al bosco,
ora color smeraldo,
ora color zaffiro,
ora nere.
Una cosa soltanto non accetto.
Il mio ritorno là.
Il privilegio della presenza –
Ci rinuncio.
Ti sono sopravvissuta solo
e soltanto quanto basta
per pensare da lontano.
Da LA FINE E L’INIZIO
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FRANZ KAFKA
IL CASTELLO
(Das Schloss 1926 Postumo)
Capitolo I
Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello. K. si fermò a lungo sul ponte di legno che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente.
Poi andò a cercarsi un tetto; nell’osteria erano ancora svegli, l’oste non aveva stanze da appigionare, ma, molto sorpreso e sconcertato da quel cliente tardivo, gli propose di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. accettò. Alcuni contadini erano ancora seduti davanti ai loro boccali di birra, ma egli non volle parlare con nessuno, andò lui stesso a prendersi il pagliericcio in solaio, e si coricò vicino alla stufa. Faceva caldo, i contadini erano silenziosi, K. li guardò ancora per qualche minuto con gli occhi stanchi, poi s’addormentò.
Ma poco dopo lo svegliarono. Un giovanotto in abito cittadino, con una faccia da attore, occhi sottili, sopracciglia folte, stava al suo capezzale, insieme con l’oste. I contadini erano ancora lì, alcuni avevano girato le loro seggiole per vedere e udire meglio. Il giovanotto si scusò molto cortesemente di averlo svegliato, si presentò come figlio del portinaio del Castello, poi disse: “Questo villaggio appartiene al Castello, chi vi abita o vi pernotta, abita e pernotta, in certo modo, al Castello. Nessuno ne ha il diritto senza il permesso del Conte. E lei questo permesso non ce l’ha, o almeno non l’ha mostrato”.
K. si era rizzato a sedere, si ravviò i capelli, guardò i due uomini di sotto in su, e disse: “In che villaggio mi sono smarrito? C’è un Castello qui?”.
“Ma certo” disse il giovanotto lentamente, mentre qualcuno dei contadini crollava il capo “il Castello del signor Conte Westwest.”
“E ci vuole un permesso per passare la notte?” chiese K., come per convincersi di non aver sognato le comunicazioni precedenti.
“Ci vuole un permesso” fu la risposta, e il giovanotto, come per farsi beffe di K., chiese all’oste e ai clienti, stendendo il braccio: “Se ne può fare a meno?”.
“Allora bisognerà che me lo procuri” disse K. sbadigliando. Spinse via la coperta e fece per alzarsi.
“To‘! e come?” chiese il giovanotto.
“Dal signor Conte” disse K. “non c’è altro da fare.”
“Adesso? A mezzanotte, andare a chiedere il permesso dal signor Conte?” esclamò il giovanotto facendo un passo indietro.
“Non si può?” domandò K. tranquillamente. “E allora perché mi ha svegliato?”
Il giovanotto questa volta uscì dai gangheri.
“Che modi da vagabondo!” esclamò. “Esigo rispetto per le autorità comitali! L’ho svegliata per comunicarle che deve uscire immediatamente dai territori del signor Conte.”
“Basta con questa commedia” disse K. con voce stranamente bassa, ricoricandosi e tirando su le coperte. “Lei, giovanotto, esagera un poco e domani ne riparleremo. L’oste e questi signori mi faranno da testimoni, se testimoni occorreranno. Frattanto sappia che io sono l’agrimensore fatto venire dal signor Conte. I miei aiutanti arriveranno domani in carrozza, con gli strumenti. Io non ho voluto privarmi di una passeggiata nella neve, ma disgraziatamente ho sbagliato strada parecchie volte, e perciò sono arrivato così tardi. Sapevo benissimo che non era più l’ora di presentarsi al Castello, senza che lei me lo insegnasse. Ecco perché mi sono accontentato di questo asilo, dove lei ha avuto la scortesia – per non dire peggio – di venire a disturbare. Non ho altro da dirle. Buona notte, signori.” E K. si voltò verso la stufa.
…
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VÁCLAV HAVEL
(Praga, Cecoslovacchia 1936 – 2011)
ERA UNA SPLENDIDA DOMENICA
Era una splendida domenica
di settembre nel parco, io e un amico
notammo uno sconosciuto a terra,
che lottava tra la vita e la morte.
Lo portammo dal medico più vicino,
un vecchio austero.
Lo visitò per un’ora
gli fece varie iniezioni
lo rifocillò e gli diede da bere
(l’ultimo caffè che aveva in casa).
Io e il mio amico cominciammo
a temere
di dover sborsare una bella somma
e ci chiedevamo dove avremmo trovato
i soldi per pagare.
E quando poi ci diede la ricetta
per farlo ricoverare in ospedale
ci infilò un biglietto da 25 corone:
per il taxi… balbettò
e arrossì persino.
Dopo alcuni mesi leggemmo
che quel medico
era stato condannato a morte
per tradimento e attività sovversiva.
Allora penso di aver capito
per la prima volta
cosa sia pena di morte.
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ADAM MICKIEWICZ
(Nowogródek, Polonia 1798 – 1855)
LE MIE LACRIME…
(Traduzione di Salvatore Quasimodo)
Le mie lacrime, pure, fitte, scesero
sulla mia infanzia idillica e angelica,
sulla sciocca e superba giovinezza,
sulla mia età d’uomo, età di sconfitte,
le mie lacrime, pure, fitte, scesero.
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ELIE WIESEL
(Sighetu Marmatiei, Romania 1928 – )
LA NOTTE
(La nuit 1958)
MAI DIMENTICHERÒ QUELLA NOTTE
Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo che ha fatto della mia vita una notte lunga e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.
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ADY ENDRE
(Érmindszent, Ungheria 1877 – 1919)
NOZZE DI SPARVIERI SUL FOGLIAME SECCO
Ci avviamo verso l’Autunno,
rincorrendoci, squittendo, piangendo,
due sparvieri dalle ali stanche.
L’Estate ormai ha nuovi padroni
sbattono le ali i giovani astóri,
e combattono battaglie di baci.
Voliamo via dall’Estate, cacciati,
ci fermiamo nell’Autunno, da qualche parte,
con piume alzate, innamorati.
Sono le nostre ultime nozze:
ci scaviamo nella carne,
e cadiamo morti sul secco fogliame.
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WISLAWA SZYMBORSKA
LA STAZIONE
Il mio arrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.
Eri stato avvertito
con una lettera non spedita.
Hai fatto in tempo a non venire
all’ora prevista.
Il treno è arrivato sul terzo binario.
È scesa molta gente.
L’assenza della mia persona
si avviava verso l’uscita tra la folla.
Alcune donne mi hanno sostituito
frettolosamente
in quella fretta.
A una è corso incontro
qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.
Si sono scambiati
un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.
La stazione della città di N.
ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.
L’insieme restava al suo posto.
I particolari si muovevano
sui binari designati.
È avvenuto perfino
l’incontro fissato.
Fuori dalla portata
della nostra presenza.
Nel paradiso perduto
della probabilità.
Altrove.
Altrove.
Come risuonano queste piccole parole.
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FRANZ KAFKA
UN MEDICO DI CAMPAGNA
Racconti Brevi
(Ein Landartz 1919)
UN MESSAGGIO IMPERIALE
L’imperatore, dicono, ha mandato a te, a te singolarmente, miserabile suddito, piccola ombra fuggita davanti al sole imperiale nella lontananza più remota, proprio a te l’imperatore, dal suo letto di morte, ha mandato un messaggio. Fece inginocchiare il messaggero accanto al letto e gli sussurrò il messaggio nell’orecchio: tanto gli stava a cuore il contenuto, che se lo fece ripetere, a sua volta, nell’orecchio. Confermò con cenno del capo l’esattezza delle parole. E davanti a quelli che assistevano alla sua morte – tutti i muri che sono d’impedimento vengono abbattuti; su ampie, vertiginose gradinate, stanno, tutt’intorno, i grandi dell’Impero – davanti a tutti ha congedato il messaggero. Il messaggero s’è messo subito in cammino: un uomo vigoroso, instancabile. Avanzando ora un braccio, ora un altro, s’apre la strada traverso la folla, se incontra resistenza accenna al petto, che reca il segno del sole: e così avanza leggero come nessuno. Ma la folla è immensa, le sue dimore sterminate. Come volerebbe, se avesse via libera! Udiresti subito la stupenda risonanza dei suoi pugni contro la tua porta. Invece si affatica invano; ancora continua ad affannarsi traverso le stanze del palazzo interno, dalle quali non uscirà mai. E se anche questo gli riuscisse, non vorrebbe dire nulla: dovrebbe lottare scendendo le scale. E se anche questo gli riuscisse, non sarebbe nulla: dovrebbe traversare i cortili; e dopo i cortili, la seconda cerchia di palazzi; ancora scale e cortili, ancora un palazzo e così di seguito, per millenni. Gli riuscisse di precipitarsi, una volta, fuori dell’ultima porta – ma questo non potrà mai, mai accadere, – ecco dinanzi a lui la città imperiale, il centro del mondo, ove sono ammucchiate montagne dei suoi detriti. Nessuno riesce ad avanzare lì in mezzo, neppure con il messaggio d’un morto. Ma tu siedi alla tua finestra e lo sogni, quando viene la sera.
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BLAGA DIMITROVA
PERDITA
(1958)
Non so se mi ero innamorata di te.
Mi innamorai però di altre cose, lo so:
di una stanza scomoda, rivolta a nord,
di una teiera che crepitava di sera.
Degli alberi mi innamorai che toglievano spazio,
di solitari e soffocanti cìnema di quartiere,
di dolorosi ricordi di prigione,
di un muro ferito dalle bombe.
Delle fermate del tram, delle foglie ricoperte di brina,
di una calda tasca con castagne bruciate,
della pioggia scrosciante, del suono del telefono,
perfino della nebbia fonda color cenere.
Di tutto il mondo mi ero innamorata, non di te.
Lo scoprivo nuovo, interessante, ricco.
Per questo soffro… Non per averti perso.
Altro ho perduto – il mondo intero.
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RADNÓTI MIKLÓS
(Budapest 1909 – 1944)
NON POSSO SAPERLO
(Nem tudhatom… 1944)
Per gli altri questo posto che significa,
non posso saperlo,
per me è la patria, questo piccolo paese,
li luogo della mia infanzia lontana e felice.
Come un ramo debole dal tronco dell’albero,
da esso sono cresciuto e spero che qua sarò anche sepolto.
Sono a casa. E se un cespuglio si china davanti a me,
conosco il suo nome, il suo fiore,
so chi cammina per la strada e dove va,
e so cosa potrebbe significare il dolore
di un tramonto rosso sulle mura delle case.
Per chi vola su un aereo, è solo una mappa,
e non sa dove abitava Vörösmarty Mihály;
per lui cosa significa? Fabbrica e caserma,
ma per me: cavalletta, bue, campanile e mite casale;
nel binocolo egli vede campi e fabbriche,
ma io anche il lavoratore zelante,
bosco, frutteto, uva e tombe,
tra le tombe una vecchietta, che pian piano piange,
e quello che da sopra è una fabbrica o ferrovia
che si deve distruggere, per me è la stazione
e davanti il ferroviere, una bandiera rossa in mano,
circondato da tanti bambini, egli invia il segnale,
e nel cortile della fabbrica ci gioca un cane.
E poi il parco: di vecchi amori conserva le tracce,
la mia bocca ricorda i baci al gusto di miele o fragola.
Sul marciapiede un giorno andando a scuola
per non essere interrogato salivo su una pietra.
Eccola qua, ma di sopra neppure essa si vede,
non esiste apparecchio che la possa rilevare.
È vero, siamo peccatori, noi come gli altri popoli,
e riconosciamo la nostra colpa, quando, come, dove,
ma ci sono anche innocenti, lavoratori o poeti,
e lattanti, in chi crescerà la ragione,
la conserveranno, nascosti in buie cantine,
finché non arrivi la pace nel nostro paese,
risponderanno freschi loro alla nostra soppressa voce.
Coprici con le tue grosse ali, nuvola della notte.
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JAROSLAV HAŠEK
IL BUON SOLDATO SC’VÈIK
(Osudy dobrého vojáka Švejka)
Parte prima
Nelle retrovie
13
Sc’vèik somministra l’estrema unzione
…
Dopo la circolare il cappellano militare lesse ancora un allegato, dove gli si comunicava che il giorno seguente doveva recarsi in Piazza Carlo all’ospedale presidiario per somministrare l’estrema unzione ai feriti gravi.
“Dite un po‘, Sc’vèik,” gemé il cappellano, “non è una porcheria? Come se in tutta Praga non ci fossero altri cappellani che il sottoscritto! Perché non ci mandano quel pio curato che l’altro giorno passò la notte da noi? Dunque bisogna andarsene a somministrare i sacramenti in Piazza Carlo. Io non mi ricordo nemmeno come si fa.”
“Compreremo subito un catechismo, signor cappellano: là ci dev’essere,” disse Sc’vèik; “si tratta d’una specie di Baedeker per pastori spirituali. Nel monastero d’Emmaus lavorava un aiuto giardiniere, e siccome costui voleva raggiungere il grado di frate laico ed ottenere una tonaca allo scopo di non consumare i suoi abiti borghesi, così dové comprarsi un catechismo e imparare in che modo si fa il segno della croce, chi è l’unica creatura scampata dal peccato originale, che cosa vuol dire avere la coscienza pulita ed altre bagattelle di questa fatta, (…).”
…
Quando Sc’vèik ebbe fatto ritorno col suo catechismo acquistato di fresco, il cappellano lo sfogliò un poco e poi disse: “Guarda un po‘: l’estrema unzione non può esser somministrata che da un sacerdote e soltanto con olio consacrato dall’arcivescovo. Voi, Sc’vèik, per esempio, non potete mai somministrare questo sacramento. Leggetemi un po‘ come si deve fare per somministrarlo.”
Sc’vèik lesse: “Si somministra così: il sacerdote unge l’infermo sui singoli sensi mentre prega nel modo seguente: – Che per mezzo di questa santissima unzione e della sua clementissima misericordia Iddio ti perdoni tutti i peccati che tu hai commesso con la vista, con l’udito, col gusto, con l’odorato, con la favella, il tatto e la locomozione. -”
…
“Dunque ci occorre l’olio benedetto dall’arcivescovo. Eccovi dieci corone: compratene una bottiglietta. Al commissariato militare non ce ne dev’esser punto in deposito.”
Sc’vèik si mise subito in cammino alla ricerca dell’olio benedetto dall’arcivescovo.
…
Si recò nelle più svariate drogherie, ma non finiva di dire: “Vorrei una bottiglietta di olio benedetto dall’arcivescovo,” che i commessi ridevano a crepapelle oppure si nascondevano subito sotto il banco. Eppure Sc’vèik faceva sempre la faccia più compunta possibile.
Alla fine si decise a tentare la sorte nelle farmacie. Nella prima lo fecero cacciare fuori dall’inserviente. Nella seconda furon sul punto di telefonare a un posto di pronto soccorso e il direttore della terza gli disse che non c’era altro che la ditta Pólak di Via Lunga, grande rivendita di colori e di vernici, capace d’avere sicuramente in deposito l’olio desiderato.
La ditta Pólak di Via Lunga era davvero una ditta ben organizzata. Non c’era acquirente ch’essa lasciasse andar via senz’averne accontentato i desideri. A chi desiderava un balsamo di copàiva davano una bottiglia di trementina, e tutto andava per il meglio.
Quando Sc’vèik fu entrato ed ebbe ordinato le sue dieci corone d’olio benedetto dall’arcivescovo, il direttore disse al commesso: “Signor Tauchen, versategli un decilitro d’olio di ricino, n. 3.”
E il commesso, incartandogli la bottiglietta, disse a Sc’vèik con la dovuta cortesia commerciale: “È una merce di primissima qualità, e se avrete bisogno di pennelli, colori e vernici, favorite rivolgervi qui. Vi serviremo col massimo di convenienza.”
…
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ILSE WEBER
(Witkowitz, Cecoslovacchia 1903 – Auschwitz 1944)
LE PECORE DI LIDICE
Le pecore lanute bianche e gialle trottano lungo la strada.
Due pastorelle seguono il gregge, nel crepuscolo suona il loro canto.
È un’immagine colma di pace, ma tu che vai di fretta,
ti fermi come sentissi passare vicino un orrendo soffio di morte.
Le pecore lanute bianche e gialle, tanto lontane da casa,
bruciate le stalle, assassinati i padroni.
Oh, tutti gli uomini del villaggio, tutti sono morti
della stessa morte.
Un piccolo villaggio boemo, tanta sventura e sofferenza.
Deportate le donne laboriose che curavano il gregge,
scomparsi i bambini gioiosi che si rallegravano degli agnelli,
distrutte le piccole case dove albergava la pace,
un villaggio intero annientato, soltanto gli animali graziati.
Queste sono le pecore di Lidice, adatte proprio qui,
nella città dei senza patria, animali senza casa.
Chiusi da un muro, accomunati dal crudele destino,
il popolo più tormentato della terra
e il gregge più triste del mondo.
Il sole è tramontato, scomparso l’ultimo raggio,
da qualche parte delle caserme si alza un canto ebraico.
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WISLAWA SZYMBORSKA
IL GATTO IN UN APPARTAMENTO VUOTO
Morire – questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare un gatto
in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.
E la sera la lampada non brilla più.
Si sentono passi sulle scale,
ma non sono quelli.
Anche la mano che mette il pesce nel piattino
non è quella di prima.
Qualcosa qui non comincia
alla solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qui c’era qualcuno, c’era
poi d’un tratto è scomparso
e si ostina a non esserci.
In ogni armadio si è guardato.
Sui ripiani si è corso.
Sotto il tappeto si è controllato.
Si è perfino infranto il divieto
di sparpagliare le carte.
Che altro si può fare.
Aspettare e dormire.
Che lui provi solo a tornare,
che si faccia vedere.
Imparerà allora
che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro
come se proprio non se ne avesse voglia,
pian pianino,
su zampe molto offese.
E all’inizio niente salti né squittii.
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FRANZ KAFKA
IL PROCESSO
(Der Prozess 1925 Postumo)
Capitolo Primo
Arresto. Conversazione con la signora Grubach. Poi la signorina Bürstner
Qualcuno doveva aver diffamato Joseph K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua padrona di casa, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Ciò non era mai accaduto. K. aspettò ancora un po’, guardò dal suo cuscino la vecchia signora che abitava di fronte e che lo osservava con una curiosità del tutto insolita in lei, poi però, meravigliato e affamato a un tempo, suonò. Subito qualcuno bussò e entrò un uomo, che egli non aveva mai visto prima in quella casa. Era snello eppure ben piantato, indossava un vestito nero attillato che, come gli abiti da viaggio, era dotato di diverse pieghe, tasche, fibbie, bottoni e di una chiusura e che di conseguenza, benché non fosse chiaro a cosa dovesse servire, sembrava particolarmente pratico. “Chi è lei?”, chiese K. sollevandosi a metà sul letto. L’uomo però sorvolò su quella domanda come se si dovesse accettare la sua apparizione e a sua volta disse soltanto: “Ha suonato?”. “Anna mi deve portare la colazione”, disse K. cercando sulle prime in silenzio, mediante l’attenzione e la riflessione, di stabilire chi mai fosse quell’uomo. Ma questi non si espose per molto al suo sguardo, si volse invece in direzione della porta che aveva lasciato socchiusa, per dire a qualcuno che evidentemente stava appena dietro la porta: “Vuole che Anna gli porti la colazione”. Seguì un breve ridacchiare dalla camera accanto, non era chiaro dal suono se non scaturisse da più persone. Sebbene l’estraneo in questo modo non potesse aver appreso nulla che già non conoscesse prima, tuttavia disse a K. col tono di una comunicazione: “È impossibile”.
…
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PAVEL FRIEDMAN(N)
(Praga 1921 – Auschwitz 1944)
LA FARFALLA
L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
– così gialla, così gialla! –
l’ultima,
volava in alto leggera
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà la mia settima settimana
di ghetto
…
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.
(4 Giugno 1942)
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PETJA DUBAROVA
(Bourgas, Bulgaria 1962 – 1979)
STATO D’ANIMO
Contro una nuvola inciampò il cielo,
poi cadde come la cupola di un tempio,
strillando qualcosa con rombo aereo.
E io vedo come, muta e irata,
la pioggia notturna si inchina e inchioda
l’orlo reciso di quella nuvola.
E una gioia celeste ramifica in me
la sua corona, potente come una quercia,
perché, come un minuto di pazzia,
colto improvviso in un lungo giorno,
io vivo da tutti non ascoltata,
e il cielo intero vive in me.
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ELIE WIESEL
LA NOTTE
(La nuit 1958)
UN CONCERTO PER I MORTI
(…) sentii il suono di un violino. Il suono di un violino nell’oscura baracca dove i morti si ammucchiavano sui vivi. Chi era quel pazzo che suonava il violino qui, sull’orlo della propria tomba? O era solo un’allucinazione?
Doveva essere Juliek.
Suonava un frammento di concerto di Beethoven. Non avevo mai ascoltato suoni così puri. In un tale silenzio.
Com’era riuscito a svincolarsi, a estrarsi di sotto al mio corpo senza che io lo sentissi?
L’oscurità era totale. Sentivo soltanto quel violino ed era come se l’anima di Juliek gli servisse da archetto. Suonava la sua vita. Tutta la sua vita scivolava sulle corde. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Suonava quello che non avrebbe mai più suonato.
Non potrò mai scordare Juliek. Come potrei scordare quel concerto dato per un pubblico di agonizzanti, e di morti! Ancora oggi, quando sento suonare Beethoven, i miei occhi si chiudono e, dall’oscurità, sorge il volto pallido e triste del mio compagno polacco che dava l’addio col suo violino a un uditorio di moribondi.
Non so per quanto suonò. Il sonno mi vinse, e quando mi svegliai, sul fare del giorno, vidi Juliek di fronte a me ripiegato su se stesso, morto. Accanto a lui giaceva il violino, pestato, schiacciato, piccolo cadavere insolito e sconvolgente.
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BLAGA DIMITROVA
FINO A QUANDO STARAI IN PIEDI
(1994)
Non scordarti di gioire!
Gli alberi saggi sussurrano
e con le ginocchia falciate
con fragore cadono sotto la scure.
Non scordarti di gioire!
Fino a quando starai in piedi
fino a quando andrai incontro al vento
fino a quando respirerai l’altezza.
Fino a quando la scure resterà assopita.
Da SULL’ORLO (1996)
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WISLAWA SZYMBORSKA
PROSPETTIVA
Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.
Forse smarriti
o distratti
o immemori
di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.
D’altronde nessuna garanzia
che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino niente affatto.
Li ho visti dalla finestra
e chi guarda dall’alto
sbaglia più facilmente.
Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.
E io, solo per un istante
certa di quel che ho visto,
cerco di persuadére Voi, lettori,
con brevi versi occasionali
quanto triste è stato.
Da DUE PUNTI
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FRANZ KAFKA
UN MEDICO DI CAMPAGNA
Racconti Brevi
(Ein Landartz 1919)
IL PENSIERO DEL PADRE DI FAMIGLIA
Dicono alcuni che la parola “Odradek” derivi dallo slavo e su tale fondamento cercano di spiegare la sua formazione. Altri sono d’avviso che derivi dal tedesco, pur riconoscendo un influsso slavo. L’incertezza delle due interpretazioni lascia a buon diritto inferire che nessuna delle due risponde al vero, e neppure consente di trovare un senso alla parola.
Nessuno, è naturale, s’occuperebbe di tali indagini, se non esistesse realmente un essere che si chiama Odradek. A tutta prima esso si presenta come un rocchetto piatto, a forma di stella, e sembra avere intorno del filo; ma può trattarsi solo di pezzi di filo diversi per qualità e colore, consunti, vecchi, annodati e ingarbugliati. Tuttavia non si tratta d’un semplice rocchetto: dal centro della stella sporge un minuscolo perno inclinato e su questo perno se ne dispone un secondo ad angolo retto. Grazie a quest’ultimo elemento e a una punta della stella, il tutto può stare dritto come su due gambe.
Si sarebbe tentati di credere che l’insieme ebbe un tempo una forma razionale e che ora s’è rotto. Ma la cosa non sembra probabile, non esistono indizi a riprova, non si vedono giunte o rotture capaci di giustificare l’ipotesi: l’insieme sembra privo di senso ma, nel suo genere, completo. Di più, del resto, è impossibile dire, perché Odradek è straordinariamente mobile e impossibile da agguantare.
Può stare, a seconda dei casi, in soffitta, per le scale, nei corridoi, nell’andito. A volte si rende invisibile per mesi, forse è passato in altre case; ma invariabilmente torna da noi. Spesso, quando ci si fa sull’uscio e lo si vede, in basso, appoggiato alla ringhiera della scala, viene voglia di rivolgergli la parola. Non gli si fanno, si capisce, domande difficili, lo si tratta, a motivo della sua piccolezza, come un bambino. “Come ti chiami?” gli si chiede. “Odradek,” dice lui. “E dove abiti?” “Senza fissa dimora,” dice ridendo; ma è come una risata emessa senza polmoni, come, a un dipresso, il fruscio di foglie secche. Con ciò la conversazione, il più delle volte, è finita. Non sempre uno può ottenere risposta: quello, spesso, rimane muto, come il legno di cui sembra fatto.
Invano mi domando cosa sarà di lui. Può morire? Tutto quello che muore ha avuto uno scopo, un’attività che l’hanno logorato; ma non è il caso di Odradek. O non dovrà, per caso, un giorno rotolare ancora dalla scala, davanti ai piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli, trascinando un pezzetto di filo? È evidente che non nuoce a nessuno: eppure quasi mi fa male l’idea che mi debba sopravvivere.
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JAROSLAV SEIFERT
HO VEDUTO UNA SOLA VOLTA
Ho veduto una sola volta
un sole così insanguinato.
E poi mai più.
Scendeva funesto sull’orizzonte
e sembrava
che qualcuno avesse sfondato la porta dell’inferno.
Ho domandato alla specola
e ora so il perché.
L’inferno lo conosciamo, è dappertutto
e cammina su due gambe.
Ma il paradiso?
Può darsi che il paradiso non sia null’altro
che un sorriso
atteso per lungo tempo,
e labbra
che bisbigliano il nostro nome.
E poi quel breve vertiginoso momento
quando ci è concesso di dimenticare velocemente
quell’inferno.
Da LA COLATA DELLE CAMPANE (1967)
23 Ottobre 2013