LETTURE SULLA GUERRA
(Scelte da Ezio Beccaria)
E domani si va all’assalto,
soldatino non farti ammazzar.
Ta pum! Ta pum! Ta pum!
Ta pum! Ta pum! Ta pum!
(Anonimo)
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DINO BUZZATI
(San Pellegrino di Belluno 1906 – 1972)
IL DESERTO DEI TARTARI
(1940)
I
Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione.
Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente. Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò nello specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato. Nella casa c’era un grande silenzio, si udivano solo piccoli rumori da una stanza vicina; sua mamma stava alzandosi per salutarlo.
Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all’Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice; delle sveglie invernali nei cameroni gelati, dove ristagnava l’incubo delle punizioni. Ricordò la pena di contare i giorni ad uno ad uno, che sembrava non finissero mai.
Adesso era finalmente ufficiale, non aveva più da consumarsi sui libri né da tremare alla voce del sergente, eppure tutto questo era passato. Tutti quei giorni, che gli erano sembrati odiosi, si erano oramai consumati per sempre, formando mesi ed anni che non si sarebbero ripetuti mai. Sì, adesso egli era ufficiale, avrebbe avuto soldi, le belle donne lo avrebbero forse guardato, ma in fondo – si accorse Giovanni Drogo – il tempo migliore, la prima giovinezza, era probabilmente finito. Così Drogo fissava lo specchio, vedeva uno stentato sorriso sul proprio volto, che invano aveva cercato di amare.
Che cosa senza senso: perché non riusciva a sorridere con la doverosa spensieratezza mentre salutava la madre? Perché non badava neppure alle sue ultime raccomandazioni e arrivava soltanto a percepire il suono di quella voce, così familiare ed umano? Perché girava per la camera con inconcludente nervosismo, senza riuscire a trovare l’orologio, il frustino, il berretto, che pure si trovavano al loro giusto posto? Non partiva certo per la guerra! Decine di tenenti come lui, i suoi vecchi compagni, lasciavano a quella stessa ora la casa paterna fra allegre risate, come se andassero a una festa. Perché non gli uscivano dalla bocca, per la madre, che frasi generiche vuote di senso invece che affettuose e tranquillanti parole? L’amarezza di lasciare per la prima volta la vecchia casa, dove era nato alle speranze, i timori che porta con sé ogni mutamento, la commozione di salutare la mamma, gli riempivano sì l’animo, ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno.
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GIUSEPPE UNGARETTI
(Alessandria d’Egitto 1888 – 1970)
SAN MARTINO DEL CARSO
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro.
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
nessuna croce manca.
È il mio cuore
il paese più straziato.
Valloncello dell’albero isolato
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ERICH MARIA REMARQUE
(Osnabrük, Germania 1898 – 1970)
NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE
(Im Westen nichts Neues 1929)
II
Mi fa un effetto curioso pensare che a casa, in un cassetto del mio scrittoio, giace l’abbozzo d’un dramma: “Saul”, e un mazzo di poesie. Ci ho passato sopra molte serate. Quasi tutti abbiamo commesso alcunché di simile, ma a me la cosa sembra oggi così irreale che non so nemmeno più farmene un’idea.
Dacché siamo qui, la nostra vita di prima è tagliata fuori, senza che noi si sia fatto nulla per ottenere questo risultato. Talvolta cerchiamo di formarci un concetto, di darci una spiegazione del fenomeno, ma senza riuscirci. Proprio per noi ventenni tutto è tremendamente confuso – per esempio per Kropp, per Müller, per Leer, per me – insomma per quelli che Kantorek chiama la gioventù di ferro. Gli anziani sono tutti fortemente legati al passato: ne hanno motivo, perché hanno mogli, figli, professioni, interessi già tanto forti, che la guerra non è riuscita a distruggerli. Noi ventenni abbiamo soltanto i nostri genitori; qualcuno una ragazza. Non è molto, perché alla nostra età l’influenza dei genitori è ridotta al minimo, mentre la donna non è ancora dominante. All’infuori di questi sentimenti non v’era gran cosa in noi: un po’ d’entusiasmo, qualche mania da dilettanti e la scuola; la nostra vita non andava più in là, e di tutto ciò nulla è rimasto.
Kantorek direbbe che eravamo sulla soglia dell’esistenza; e in fondo è vero. Non avevamo ancora messo radici; la guerra, come un’inondazione ci ha spazzati via. Per gli altri, per gli anziani, essa non è che un’interruzione, al di là della quale possono ancora figurarsi qualche cosa. Invece noi ne siamo stati ghermiti e non abbiamo idea di come possa andare a finire. Sappiamo soltanto che ci siamo induriti, in una forma strana e dolorosa, quantunque non ci si senta neppure più capaci di tristezza.
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ERNEST HEMINGWAY
(Oak Park, Illinois, U.S.A. 1899 – 1961)
ADDIO ALLE ARMI
(A farewell to arms 1929)
IX
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“Tenente” disse Passini, “già che con lei si può parlare, senta: non c’è niente di peggio che la guerra. Noi delle ambulanze non possiamo immaginarcelo cos’è di brutto la guerra. Quando la gente vede fin a che punto è cattiva, non riesce più a fermarla perché è diventata scema. Ma c’è qualcuno che non lo vede mai.
E agli altri, fanno paura gli ufficiali. È così che va avanti la guerra.”
“Lo so anch’io che è orrenda, la guerra, ma bisogna venirne fuori.”
“Non se ne viene mai fuori. Non c’è modo di finire la guerra.”
“Sì che c’è.”
Scosse la testa.
“Non la si vince mai la guerra con le vittorie. Cosa significa se prenderemo il San Gabriele? E poi il Carso, e Monfalcone e Trieste? A che punto saremo? Ha visto oggi tutte quelle montagne? Crede che possiamo prenderle tutte? Bisogna che gli austriaci smettano di combattere. O da una parte o dall’altra bisogna smettere di combattere. E perché allora non smettere noi? Lasci che vengano in Italia. Poi si stancano e se ne vanno. Hanno un paese anche loro. Ma no, ecco che invece bisogna continuare la guerra!”
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ERICH MARIA REMARQUE
NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE
(Im Westen nichts Neues 1929)
VII
…
Che cos’è la licenza? Un momento di sosta, che rende poi tutto più penoso. Già ora vi si mescola l’amaro della partenza. Mia madre mi guarda in silenzio – conta i giorni, lo so – ogni mattina è più triste. Un altro giorno di meno. Ha nascosto il mio zaino, perché non le ricordi…
…
Devo andare a trovare la madre di Kemmerich.
Non è possibile descrivere la scena. Questa donna convulsa, singhiozzante, che mi grida in faccia: “Ma perché tu sei vivo, se lui è morto?”, che m’inonda delle sue lagrime esclamando: “Ma perché siete nati, ragazzi come voi?…” e si abbandona su una sedia e piange: “L’hai visto? L’hai visto ancora? Come è morto?”
Io le racconto che è stato colpito al cuore, ed è morto subito. Mi guarda negli occhi, diffidente: “Tu dici una bugia: lo so. Ho sentito quanto ha dovuto soffrire. Ho udito la sua voce, ho provato, di notte, la sua angoscia… di’ la verità, voglio saperla, devo saperla…”
“No” insisto io “ero accanto a lui. È morto subito.”
Allora mi prega, piano: “Dimmelo, lo devi. So che vuoi confortarmi, ma non vedi che mi tormenti, peggio che se mi dicessi la verità? Non posso sopportare l’incertezza, dimmi come è stato, anche se è stato orribile. Sarà sempre meglio di quello che vado fantasticando nella mia mente.”
Non glielo dirò mai, neanche se mi taglia a pezzetti. Ho tanta pietà di lei, povera donna, ma mi sembra anche un po’ stupida. Dovrebbe pur rassegnarsi, tanto Kemmerich resta morto, che lei sappia o non sappia come. Quando si sono visti tanti morti, non si riesce più a comprendere un così gran dolore per un morto solo.
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GIULIO BARNI
IL TEMPO
Se il tempo diventa sereno
il 10 faremo l’azione
se il tempo diventa sereno…
E i soldati scrutarono
le stelle e il firmamento,
pesarono respirando
il fremito del vento.
Ma il 9 si vide splendere
un cerchio intorno alla luna
la luna era velata
d’un velo nebuloso.
I soldati e gli ufficiali
che stavan da 30 giorni
in attesa dell’azione
si guardarono l’un l’altro
si sarebbero baciati.
All’alba del 10 pioveva
(1916)
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CECIL SCOTT FORESTER
(Il Cairo, Egitto 1899 – 1966)
LA “REGINA D’AFRICA”
(The African Queen 1935)
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“La povera Missione” diceva. “Sono stati i tedeschi… i tedeschi…”
Morì pochi istanti dopo, mentre Rose piangeva, accanto a lui. Passato il parossismo del dolore, ella si rialzò lentamente. Il sole del mattino filtrava tra i rami della foresta illuminando la radura deserta, ed ella era sola.
Il panico che seguì al dolore fu di breve durata. Rose Sayers non aveva vissuto fino ai trentatrè anni, non aveva passato dieci anni nelle foreste dell’Africa centrale, senza acquisire un senso di fiducia nelle proprie forze, oltre alla fede pura del suo credo religioso. Non passò molto che un violento senso di risentimento l’infiammò tutta, mentre se ne stava lì, accanto al morto, nel bungalow silenzioso. Si disse che Samuel non sarebbe morto se il suo cuore non fosse stato spezzato dalla catastrofe delle requisizioni di von Hanneken. Era stata la vista di dieci anni di fatiche e preghiere distrutti in un’ora a uccidere Samuel.
Rose pensò che i tedeschi avevano sulla coscienza cose molto più gravi della morte di Samuel: avevano offeso l’opera di Dio. Rose non nutriva illusioni pensando a quanto spirito cristiano sarebbe rimasto nell’anima dei convertiti, dopo una campagna nella foresta, nei ranghi di un esercito di indigeni che, per il novanta per cento, eran pagani.
Ella conosceva la foresta, e poteva raffigurarsi vagamente una guerra combattuta su centomila chilometri quadrati di territorio boscoso. Anche se qualche convertito fosse sopravvissuto, non sarebbe mai tornato alla Missione e, qualora vi fosse riuscito, Samuel era morto.
Rose cercò di persuadérsi che il danno fatto alla causa santa era un peccato peggiore della morte di Samuel, ma non vi riuscì. Le avevano insegnato fin da bambina ad amare e ammirare suo fratello.
…
Per dodici anni era stata la sua governante e la più devota delle sue ammiratrici, la sua più fedele discepola e l’aiutante più fidata. Quindi non c’è da meravigliarsi di fronte al suo sentimento poco cristiano di rancore contro la nazione che ne aveva causato la morte.
E, naturalmente, non poteva vedere il rovescio della medaglia. Von Hanneken, con poco più di cinquecento uomini in una colonia popolata da un milione di negri dei quali soltanto poche migliaia sapevano d’essere sudditi tedeschi, doveva affrontare il compito di difendere l’Africa equatoriale tedesca contro gli attacchi di forze preponderanti che sarebbero state mobilitate d’urgenza contro di lui. Era suo dovere lottare senza scrupoli, e tener occupati quanti più nemici possibile per un lasso di tempo più lungo che poteva e, se necessario, morire nell’ultima trincea mentre le sorti della guerra venivano decise in Francia. Grazie al Comando navale britannico, non poteva attendersi aiuti d’oltremare; doveva dipendere completamente dalle proprie risorse, mentre i rinforzi di cui il nemico avrebbe potuto disporre erano illimitati. Era quindi più che naturale che, da perfetto militare tedesco, egli arruolasse quanti più uomini, donne e bambini poteva, come soldati o portatori, e razziasse tutto il cibo e il materiale su cui riusciva a metter le mani.
Però Rose non trovava alcuna giustificazione alla sua condotta. Ricordava d’aver sempre odiato i tedeschi da quando, appena arrivata in colonia col fratello, le autorità tedesche li avevano perseguitati con inquisizioni e restrizioni, trattandoli con alterigia e disprezzo, e col sospetto che le autorità tedesche naturalmente provano di fronte all’intrusione di un missionario inglese in una colonia tedesca. Aveva scoperto di odiare i loro modi, la loro morale, le loro leggi e i loro ideali, insomma era stata travolta dall’ondata di odio internazionale che si abbatté sul resto del mondo nell’agosto del 1914.
Suo fratello martire non aveva pregato per il successo delle armi inglesi e la disfatta di quelle tedesche? Ella abbassò gli occhi a guardare il morto, e sbocciò nella sua mente una fioritura di versetti del Vecchio Testamento che si sarebbero potuti benissimo adattare alla circostanza. Anelò a spezzare una lancia in favore dell’Inghilterra, e a distruggere gli amalachiti, i filistei, e i midianiti. E pur nel colmo di quello slancio di fervore che s’era abbattuto su di lei, si disprezzò per le sue fantasticherie e si calmò immediatamente. Era sola, nella foresta dell’Africa equatoriale, sola con un morto. Non aveva alcuna possibilità di far qualcosa.
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GIUSEPPE UNGARETTI
FRATELLI
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli.
Mariano 15 Luglio 1916
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EMILIO LUSSU
(Armungia, Cagliari 1890 – 1975)
UN ANNO SULL’ALTOPIANO
(1938)
I
Alla fine maggio 1916, la mia brigata – reggimenti 399° e 400° – stava ancora sul Carso. Sin dall’inizio della guerra, essa aveva combattuto solo su quel fronte. Per noi, era ormai diventato insopportabile. Ogni palmo di terra ci ricordava un combattimento o la tomba di un compagno caduto. Non avevamo fatto altro che conquistare trincee, trincee, trincee. Dopo quella dei “gatti rossi”, era venuta quella dei “gatti neri”, poi quella dei “gatti verdi”. Ma la situazione era sempre la stessa. Presa una trincea, bisognava conquistarne un’altra. Trieste era sempre là, di fronte al golfo, alla stessa distanza, stanca. La nostra artiglieria non vi aveva voluto tirare un sol colpo. Il duca d’Aosta, nostro comandante d’armata, la citava ogni volta, negli ordini del giorno e nei discorsi, per animare i combattenti.
Il principe aveva scarse capacità militari, ma grande passione letteraria. Egli e il suo capo di stato maggiore si completavano. Uno scriveva i discorsi e l’altro li parlava. Il duca li imparava a memoria e li recitava, in forma oratoria da romano antico, con dizione impeccabile. Le grandi cerimonie, piuttosto frequenti, erano espressamente preparate per queste dimostrazioni oratorie. Disgraziatamente, il capo di stato maggiore non era uno scrittore. Sicché, malgrado tutto, nella stima dell’armata, guadagnava di più la memoria del generale nel recitare i discorsi che il talento del suo capo di stato maggiore nello scriverli. Il generale aveva anche una bella voce. A parte questo, egli era abbastanza impopolare.
In un pomeriggio di maggio, ci arrivò la notizia che il duca aveva disposto, in premio di tanti sacrifici sofferti dalla brigata, di mandarci a riposo, nelle retrovie, per alcuni mesi. E poiché la notizia era stata seguita dall’ordine di tenerci pronti per ricevere il cambio da un’altra brigata, essa non poteva essere che vera. I soldati l’accolsero con tripudio e acclamarono al duca. Essi s’accorgevano finalmente che vi era qualche vantaggio ad avere per comandante d’armata un principe di casa reale. Solo lui avrebbe potuto concedere un riposo così lungo e lontano dal fronte. Fino ad allora, i turni di riposo li avevamo passati a pochi chilometri dalle trincee, sotto il tiro delle artiglierie nemiche. Il cuoco del comandante la divisione aveva detto all’attendente del colonnello, e la voce si era diffusa in un baleno, che il duca voleva che il riposo lo si passasse in una città. Per la prima volta, durante tutta la guerra, egli cominciava a diventare popolare. Le voci più simpatiche corsero subito su di lui, e la notizia ch’egli si fosse seriamente disputato con il generale Cadorna, per difendere la nostra brigata, fece, accreditata, il giro dei reparti.
La brigata ricevette il cambio e, la notte stessa, scendemmo in pianura. In due tappe fummo ad Aiello, piccola cittadina, non lontana dalle vecchie frontiere.
La nostra gioia non aveva limiti. Finalmente, si viveva! Quanti progetti in testa! Dopo Aiello, sarebbe venuta la grande città. Udine, chi sa?
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ROBERT SKORPIL
(Innsbruck, Austria 1894 – 1985)
PASUBIO
Morto. Lacerato. Smembrato.
Mamma, cosa ne dici? Il figlio ti hanno preso!
Tu non lo vedrai mai più. Neppure il suo cadavere.
Forse oggi riceverai una lettera:
“Sono sano, sto bene.”
Poter piangere, gridare, urlare!
Più non posso mandare giù tutto ciò, non ci riesco più!
Più non posso stare qui seduto tranquillo!
Tutto finisce. Tutto ha un limite.
Lanciarsi con la testa contro questa roccia,
fino a stramazzare al suolo, fino a perdere conoscenza.
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ERICH MARIA REMARQUE
LA VIA DEL RITORNO
(Der Weg zurük 1931)
Preambolo
…
La mattina appresso ci troviamo per l’ultima volta al fronte. Quasi non si spara più. La guerra è finita. Tra un’ora partiremo. Non occorrerà ritornare qua mai più. Quando ce ne andremo, ce ne andremo per sempre.
Distruggiamo quel tanto che si può distruggere. Ben poco. Un paio di ricoveri. Poi viene l’ordine di ritirarci.
È un momento strano. Stiamo uno vicino all’altro e guardiamo davanti a noi. Leggere cortine di nebbia si adagiano sul terreno. Le linee delle buche e dei camminamenti si scorgono chiaramente. È vero che sono soltanto le ultime linee, poiché tutto ciò fa parte delle posizioni di riserva, ma è pur sempre zona di combattimento. Quante volte siamo avanzati per questi camminamenti! Quante volte siamo ritornati di lì in pochi! – Grigia si stende davanti a noi la landa uniforme… Laggiù lontano i resti del boschetto, un paio di tronchi scapitozzati, le rovine del villaggio, e lì in mezzo un alto muro solitario che si regge ancora in piedi.
“Già” dice Bethke sopra pensiero. “E qui siamo stati per quattro anni…”
“Accidenti!” esclama Kosole assentendo. “E adesso è finita.”
“Capisci?” Willy Homeyer si appoggia al parapetto. “Buffa questa, non è vero?…”
Stiamo lì con gli sguardi imbambolati. L’orizzonte, i resti del bosco, le alture, le linee laggiù, tutto ciò era un mondo terribile e una vita difficile. E adesso, se ci incamminiamo, tutto ciò rimane dietro a noi, e sprofonda ad ogni passo e tra un’ora sarà scomparso, come se non ci fosse mai stato. Chi ci capisce?…
Ce ne stiamo lì e dovremmo ridere e urlare dalla gioia… e abbiamo invece uno stringimento nello stomaco, come se avessimo ingoiato un manico di scopa e stessimo per rigettare.
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ARDENGO SOFFICI
(Rignano sull’Arno, Firenze 1879 – 1964)
OSPEDALE DA CAMPO 026
Ozio dolce dell’ospedale!
Si dorme a settimane intere;
il corpo che avevamo congedato
non sa credere ancora a questa felicità: vivere.
Le bianche pareti della camera
son come parentesi quadre,
lo spirito vi si riposa
fra l’ardente furore della battaglia d’ieri
e l’enigma fiorito che domani ricomincerà.
Sosta chiara, crogiuolo di sensi multipli,
qui tutto converge in un’unità indicibile;
misteriosamente sento fluire un tempo d’oro
dove tutto è uguale:
i boschi, le quote della vittoria, gli urli, il sole, il sangue dei morti,
io stesso, il mondo,
e questi gialli limoni
che guardo amorosamente risplendere
sul mio nero comodino di ferro, vicino al guanciale.
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MURAKAMI HARUKI
(Kobe, Giappone 1949 – )
L’UCCELLO CHE GIRAVA LE VITI DEL MONDO
(Neji makidori Kuronikuru 1994)
Parte prima
LA GAZZA LADRA
12
Lungo discorso del tenente Mamiya
parte prima
…
Noi tre ci preparammo ad accamparci, e consumammo una semplice cena. Non potevamo né accendere un fuoco né cuocere il riso. Oltre alle basse colline di sabbia si estendeva a perdita d’occhio una landa selvaggia senza un solo riparo, se si fosse alzato del fumo in un attimo il nemico ci avrebbe scoperti. Montammo una bassa tenda all’ombra di una duna, e tenendoci nascosti rosicchiammo del pane secco e mangiammo della carne in scatola fredda. Quando il sole tramontò sotto la linea dell’orizzonte, in pochissimo tempo calarono le tenebre. Nel cielo brillavano innumerevoli stelle. Insieme al rombo del fiume che scorreva, da qualche parte si sentiva ululare un lupo. Ci stendemmo sulla sabbia, per riposarci dalle fatiche della giornata.
“Signor tenente”, disse Hamanō, “la situazione si è fatta davvero rischiosa, vero?”
“Infatti”, risposi.
Con il sergente Hamanō e il caporale Honda ormai ci conoscevamo piuttosto bene. Normalmente gli ufficiali novelli come me, quasi privi di esperienza militare, venivano presi in giro e messi in imbarazzo dai sottufficiali con una lunga pratica di combattimento come Hamanō, ma nel nostro caso non succedeva nulla del genere. Lui mi considerava con una sorta di rispetto, ero comunque un ufficiale con una specializzazione universitaria, e io da parte mia non davo troppo peso al grado e facevo ben attenzione a tenere sempre da conto la sua esperienza e la sua capacità di valutazione. In più venivamo da regioni limitrofe, lui da Yamaguchi e io da Hiroshima, per cui fra di noi si era creata molto spontaneamente una buona intesa e una certa confidenza. Lui mi parlava della guerra in Cina. Aveva fatto solo le elementari, e aveva una natura di soldato, ma a suo modo non era affatto convinto della necessità di quella difficile guerra sul continente cinese, della quale non si poteva neanche prevedere la durata. “Sono un soldato e non mi importa di combattere”, mi diceva rivelandomi sinceramente i suoi pensieri. “Non mi dispiace rischiare di morire per il mio paese, è il mio mestiere. Però la guerra che noi stiamo facendo qui in questo momento, signor tenente, ho un bel pensarci su, ma non riesco a considerarla onesta. Non è una guerra regolare dove c’è un fronte di battaglia, e si sfida il nemico in un combattimento diretto e decisivo. Noi avanziamo, e il nemico fugge senza quasi combattere. Poi i soldati cinesi in rotta si tolgono la divisa e si confondono con la popolazione, così noi non riusciamo più a capire neanche chi è il nemico. E col pretesto di dar la caccia ai banditi e ai soldati imboscati ammazziamo tanti innocenti, e saccheggiamo le loro provviste di cibo. Il fronte di battaglia si sposta sempre in avanti, ma i rifornimenti non arrivano, così non ci resta che prendere quel che troviamo. I prigionieri non sappiamo dove metterli, e cibo per loro non ne abbiamo, allora li uccidiamo, cos’altro possiamo fare? Ma è una cosa sbagliata. Dalle parti di Nanchino abbiamo fatto cose tremende. Anche la mia unità. Abbiamo gettato decine di persone in un pozzo, e da sopra abbiamo lanciato bombe a mano. Abbiamo fatto cose che non si possono raccontare. Signor tenente, in questa guerra non c’è nessuna lealtà, è solo un massacro reciproco. Così, in conclusione, chi viene schiacciato sono solo i poveri contadini. Loro non hanno né ideali né nulla. Né il partito nazionalista, né l’ottava armata, né l’esercito giapponese né niente. A loro basta avere riso a sufficienza, poi tutto va bene. E io che sono figlio di poveri pescatori, i loro sentimenti li capisco bene. Quei poveracci lavorano come schiavi dal mattino alla sera, e tutto quello che ricevono in cambio è a malapena una ciotola di riso, signor tenente. Veramente per il Giappone è un beneficio ammazzare senza un motivo tutta quella gente? Io non riesco assolutamente a convincermene.”
…
Quando il sole salì completamente al di sopra della linea dell’orizzonte, accesi una sigaretta, (…). Poi pensai al Giappone. Mi venne in mente il paesaggio del mio paese all’inizio di maggio. Il profumo dei fiori e il mormorio del ruscello, e le nuvole in cielo. I miei vecchi amici e la mia famiglia. E poi le ciambelle di riso dolci e rigonfie. A me non piacciono molto i dolci, ma in quel momento ricordo che morivo dalla voglia di mangiare una ciambella di riso. Arrivai a pensare che ero pronto a dare la metà della mia paga di un anno, per una di quelle ciambelle. Pensando al Giappone, provai il sentimento di essere stato scacciato in capo al mondo. Perché dovevo rischiare la pelle per quell’immensa terra in cui non c’erano altro che cimici ed erba sporca e selvaggia, una terra che non aveva quasi alcun valore né militare né commerciale? Non riuscivo a capirlo. Se si fosse trattato di difendere il mio paese, avrei lottato fino alla morte. Ma buttarla via, quell’unica vita che avevo, per quella terra desolata dove non cresceva neanche un chicco di grano, era veramente una cosa troppo stupida.
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GIUSEPPE UNGARETTI
SOLDATI
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Bosco di Courton Luglio 1918
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HEINRICH BÖLL
(Colonia, Germania 1917 – 1985)
IL TRENO ERA IN ORARIO
(Der Zug war pünktlich 1949)
Mentre attraversavano il buio sottopassaggio, udirono sopra di loro il fragore del treno che arrivava, e la voce sonora dell’altoparlante disse con dolcezza: “Tradotta militari in licenza, proveniente da Parigi per Przemysl, ferma a …”.
Poi, salite le scale fino al marciapiede, si fermarono davanti a uno scompartimento qualunque, da cui smontavano soldati in licenza con le facce allegre, stracarichi di pacchi giganteschi. Il marciapiede si vuotò in fretta, era la solita scena. Qua e là, davanti ai finestrini, stavano ragazze o donne o un padre tetro e taciturno… La voce sonora, intanto, diceva di affrettarsi. Il treno era in orario.
“Perché non sali?” chiese al soldato, ansioso, il cappellano.
“Come?” domandò il soldato stupito. “Potrei buttarmi sotto le ruote, no?… potrei disertare, no? Tu che vuoi?… Posso, sì, posso impazzire… ne ho tutto il diritto: ho tutto il diritto di impazzire. Io non voglio morire, il terribile è che non voglio morire.” Parlava con assoluta freddezza, quasi che le parole gli uscissero di bocca come ghiaccio. “Sta’ tranquillo! Adesso salgo, da qualche parte trovi sempre del posto… sì… sì, non prendertela, prega per me!” Prese su il bagaglio, salì attraverso il primo sportello aperto che si trovò davanti, abbassò il vetro di dentro e si sporse ancora una volta, mentre sopra di lui la voce sonora aleggiava come una nube vischiosa: “Il treno è in partenza…”.
“Non voglio morire” gridò, “non voglio morire, ma il terribile è che morirò… e presto!” Sempre più la figura nera si allontanava su quel marciapiede freddo e grigio… sempre più, finché la stazione fu inghiottita dalla notte.
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BERTOLT BRECHT
(Augusta 1898 – 1956)
MIO FRATELLO AVIATORE
Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio; e prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che s’è conquistato
è sui monti del Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.
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CURZIO MALAPARTE
(Prato 1898 – 1957)
LA PELLE
(1949)
I. LA PESTE
Erano i giorni della “peste” di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in Via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L’onore di esser liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltar di gioia fra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma non ostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. Era fuori di dubbio che l’Italia, e perciò anche Napoli, aveva perduto la guerra. È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla. Ma non basta perdere la guerra per avere il diritto di sentirsi un popolo vinto. Nella loro antica saggezza, nutrita di una dolorosa esperienza più volte secolare, e nella loro sincera modestia, i miei poveri napoletani non si arrogavano il diritto di sentirsi un popolo vinto. Era questa, senza dubbio, una grave mancanza di tatto. Ma potevano gli Alleati pretendere di liberare i popoli e di obbligarli al tempo stesso a sentirsi vinti? O liberi o vinti. Sarebbe ingiusto far colpa al popolo napoletano se non si sentiva né libero né vinto.
Mentre camminavo accanto al Colonnello Hamilton, io mi sentivo meravigliosamente ridicolo nella mia uniforme inglese. Le uniformi del Corpo Italiano della Liberazione erano vecchie uniformi inglesi di color kaki, cedute dal Comando Britannico al Maresciallo Badoglio, e ritinte, forse per tentar di nascondere le macchie di sangue e i fori dei proiettili, di un verde denso, color di lucertola. Erano, infatti, uniformi tolte ai soldati britannici caduti ad El Alamein e a Tobruk. Nella mia giubba erano visibili i fori di tre proiettili di mitragliatrice.
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FABRIZIO DE ANDRÉ
(Genova 1940 – 1999)
LA BALLATA DELL’EROE
Era partito per fare la guerra
per dare il suo aiuto alla sua terra
gli avevano dato le mostrine e le stelle
e il consiglio di vendere cara la pelle
e quando gli dissero di andare avanti
troppo lontano si spinse a cercare la verità
ora che è morto la patria si gloria
d’un altro eroe alla memoria
ma lei che lo amava aspettava il ritorno
d’un soldato vivo, d’un eroe morto che ne farà
se accanto nel letto le è rimasta la gloria
d’una medaglia alla memoria
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CESARE PAVESE
(Santo Stefano Belbo, Cuneo 1908 – 1950)
PRIMA CHE IL GALLO CANTI
(1949)
LA CASA IN COLLINA
(1947-1948)
I
Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch’io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita.
Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassù, li vedevo a poco a poco svoltare e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto. Allora camminavo tendendo l’orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali. Dalla finestra sul frutteto avrei ancora veduto il mattino. Avrei dormito dentro un letto, questo sì. Gli sfollati dei prati e dei boschi sarebbero ridiscesi in città come me, solamente più sfiancati e intirizziti di me. Era estate, e ricordavo altre sere quando vivevo e abitavo in città, sere che anch’io ero disceso a notte alta cantando o ridendo, e mille luci punteggiavano la collina e la città in fondo alla strada. La città era come un lago di luce. Allora la notte si passava in città. Non si sapeva ch’era un tempo così breve. Si prodigavano amicizia e giornate negli incontri più futili. Si viveva, o così si credeva, con gli altri e per gli altri. Devo dire – cominciando questa storia di una lunga illusione – che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi.
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NAZIM HIKMET
(Salonicco 1902 – 1963)
LA BAMBINA DI HIROSHIMA
Apritemi, sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
Sono di Hiroshima e là sono morta
tanti anni fa. Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.
Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati,
avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quello sono io
poi il vento ha disperso anche la cenere.
Apritemi; vi prego, non per me
perché non occorre né il pane né il riso:
non chiedo neanche lo zucchero, io:
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.
Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
e possano sempre mangiare lo zucchero.
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ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY
(Lione, Francia 1900 – 1944)
PILOTA DI GUERRA
(Pilote de guerre 1942)
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Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora, per andarmene un po’ a piedi sulla strada maestra che attraversa il nostro villaggio, avvolto nella mia dorata solitudine, allo scopo di capire perché devo morire.
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Nessuno confessa a se stesso che questa guerra non somiglia a nulla, che nulla vi ha un senso, che nessuno schema vi s’adatta, che si tirano solennemente dei fili, i quali non sono più legati alle marionette.
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ERICH MARIA REMARQUE
OMBRE IN PARADISO
(Schatten in Paradies 1971)
Prologo
Alla fine dell’ultima guerra mi trovavo a New York. Per me, uomo senza patria che sapeva in misura molto limitata la lingua del paese, la zona intorno alla Settantacinquesima Strada era diventata quasi una nuova patria.
Avevo alle spalle una via lunga e pericolosa, la “Via dolorosa” di tutti coloro che di fronte al regime hitleriano avevano dovuto fuggire. La strada del dolore passava dall’Olanda per il Belgio e la Francia settentrionale e arrivava a Parigi dove si biforcava. Uno dei due rami conduceva per Lione alle rive del Mediterraneo, l’altro, passando da Bordeaux e i Pirenei, alla Spagna, al Portogallo e al porto di Lisbona.
Io avevo preso questa seconda via come tanti altri che erano sfuggiti alla Gestapo. Ma anche nei paesi attraverso i quali fuggivamo non eravamo al sicuro poiché soltanto una minoranza di noi possedeva visti e certificati validi. Se i gendarmi ci agguantavano andavamo in prigione ed eravamo espulsi. Alcuni di quei paesi erano tuttavia abbastanza umani da non farci passare la frontiera tedesca: là saremmo periti nei campi di concentramento.
Siccome soltanto pochi fuggiaschi avevano potuto prendere con loro passaporti in regola, eravamo quasi senza interruzione costretti a fuggire. Senza documenti non potevamo trovare lavoro da alcuna parte. Quasi tutti eravamo affamati, miseri e soli: perciò chiamavamo la strada delle nostre migrazioni la “Via dolorosa”.
Facevamo tappa agli uffici postali nelle cittadine e davanti ai muri lungo le strade. In quegli uffici cercavamo “fermo posta” notizie di parenti e amici; i muri e le facciate delle case erano i nostri giornali. Vi trovavamo, scritte col gesso o col carbone, le indicazioni dei perduti che si cercavano a vicenda, e indirizzi, moniti, avvertimenti, grida nel vuoto, in un periodo di universale indifferenza al quale doveva presto seguire il periodo della disumanità; la guerra, nella quale la Gestapo, la milizia e spesso i poliziotti facevano causa comune nel dare la caccia a noi disgraziati.
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ABRAHAM B. YEHOSHUA
(Gerusalemme 1936 – )
L’AMANTE
(1977)
Parte Prima
Adam
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Una sera, sono andato in uno dei grandi ospedali, ho cominciato a girare per i corridoi, a guardare nelle corsie. Passavo tra i letti, osservavo in silenzio i giovani che giocavano a scacchi o mangiavano cioccolata. Ogni tanto mi ritrovavo in luoghi inaspettati, in una sala operatoria o in un buio laboratorio di radiografia, passavo da un reparto all’altro. In quei giorni negli ospedali c’era una tal confusione che nessuno mi fermava: con i miei vestiti da lavoro passavo per un tecnico del posto.
Per un’intera serata ho girato dappertutto, cercando metodicamente. Qualche volta m’è sembrato di sentire la sua voce o di vedere qualcuno che gli somigliava. In uno dei corridoi trasportavano una barella con un ferito bendato dalla testa ai piedi, anche il viso. Lo hanno messo in una stanza. Ho aspettato un po‘ e sono entrato. Era una cameretta piena di apparecchi, c’era solo un lettino. Il ferito, a quanto pare tutto ustionato, giaceva privo di conoscenza, come un’antica mummia avvolta nelle bende. Nella stanza era accesa solo una piccola lampada da tavolo. Forse è lui, ho pensato e mi sono addossato alla parete. È entrata un’infermiera e ha collegato il ferito ad un apparecchio.
“Chi è?” ho chiesto sottovoce.
Ma anche lei non lo sapeva, l’avevano portato solo poche ore prima dalle alture del Golan. A mezzogiorno da quelle parti c’erano stati scontri a fuoco.
Le ho chiesto il permesso di rimanere, ho detto che già da parecchio tempo cercavo un disperso, forse è lui. Lei m’ha guardato con imbarazzo, si è stretta nelle spalle con un gesto stanco, non aveva niente in contrario. In queste ultime settimane si sono abituate a tutte le stranezze possibili.
Ero seduto accanto alla porta, scrutavo la forma del corpo che s’intravvedeva sotto le lenzuola, guardavo il viso fasciato. Non c’era nessun segno, ma tutto era possibile.
Sono rimasto in quella stanza in penombra forse un’ora o due, l’ospedale andava quietandosi, ogni tanto qualcuno apriva la porta, mi guardava e tornava a chiudere.
D’un tratto il ferito ha cominciato a rantolare. Era rinvenuto? Ha cominciato a mormorare. Mi sono alzato, mi sono avvicinato: “Gabriel?” Lui ha voltato verso di me la testa fasciata, come se riconoscesse la voce, ma rantolava sempre più forte. In quella solitudine pareva che stesse morendo: si dibatteva, tentava di strapparsi le bende dal petto. Sono uscito in corridoio e ho trovato un’infermiera. È venuta, è uscita di corsa per poi tornare con due medici e un’altra infermiera. Gli hanno messo sul viso una maschera d’ossigeno e gli hanno tolto le fasciature dal petto. Ancora non riuscivo a distinguere nulla. Ero lì in mezzo a loro, e guardavo. Il ferito stava morendo. Ho toccato lievemente la spalla di uno dei medici, l’ho pregato che gli togliessero le bende dal viso. Mi hanno obbedito, sicuri che fossi un parente. Lo spettacolo è stato orribile. I suoi occhi ammiccavano alla luce o a me. Sapevo che non era lui.
Dopo qualche minuto ha smesso di respirare.
Qualcuno gli ha coperto il viso, mi ha stretto la mano e ha lasciato la stanza.
Una volta fuori ho guardato il giorno buio dalle grandi finestre. Ancora non avevo esplorato il piano superiore. Ho esitato un po‘, ma infine ho voltato le spalle, sono sceso per le scale e sono uscito.
…
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BERTOLT BRECHT
LA GUERRA CHE VERRÀ
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.
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FREDRIC BROWN
(Cincinnati, U.S.A. 1906 – 1972)
SENTINELLA
(Sentry)
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.
Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento una agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia di anni quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo.
Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della Galassia… crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano d’infiltrarsi e ogni avamposto era vitale.
Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame.
6 Novembre 2013