LE VOCI DEI GATTOPARDI

LETTURE DA AUTORI SICILIANI

(Scelte da Ezio Beccaria)

Chianci Palermu,  chianci Siracusa,

a Carini cc’è lu luttu pri ogni casa;

cu la purtau sta nova dulurusa

mai paci pozza aviri a la so’ casa!

Haju la menti mia tantu cunfusa,

lu cori abbunna,  lu sangu stravasa…

Vurria ‘na canzunedda rispittusa

chiancissi la culonna a la me’ casa:

la megghiu stidda chi rideva ‘n celu,

anima senza mantu e senza velu;

la megghiu stidda di l’aria zaffina,

povira barunissa di Carini!

Anonimo

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GESUALDO BUFALINO

(Comiso,  Ragusa 1920 – 1996)

A CHI LO SA

S’io sapessi cantare

come il sole di giugno nel ventre della spiga,

l’obliquo invincibile sole;

s’io sapessi gridare

gridare gridare gridare come il mare

quando s’impenna nel ludibrio d’aquilone;

s’io sapessi,  s’io potessi

usurpare il linguaggio della pioggia

che insegna all’erba crudeli dolcezze…

oh allora ogni mattino,

e non con questa voce roca d’uomo,

vorrei dirti che t’amo

e sui muri del mio cieco cammino

scrivere la letizia del tuo nome,

le tre sillabe sante e misteriose,

il mio sigillo di nuova speranza,

il mio pane,  il mio vino,

il mio viatico buono.

 

Da  L’AMARO MIELE

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LUIGI PIRANDELLO

(Agrigento 1867 – 1936)

LA GIARA

(1906)

   Piena anche per gli olivi quell’annata.  Piante massaje,  cariche l’anno avanti,  avevano raffermato tutte,  a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.

Lo Zirafa,  che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole,  prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta,  ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra,  dove si fabbricavano:  alta a petto d’uomo,  bella panciuta e maestosa,  che fosse delle altre cinque la badessa.

Neanche a dirlo,  aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara.  E con chi non l’attaccava Don Lollò Zirafa?  Per ogni nonnulla,  anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta,  anche per una festuca di paglia,  gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti.  Così,  a furia di carta bollata e d’onorarii agli avvocati,  citando questo,  citando quello e pagando sempre le spese per tutti,  s’era mezzo rovinato.

Dicevano che il suo consulente legale,  stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana,  per levarselo di torno,  gli aveva regalato un libricino come quelli da messa:  il codice,  perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.

Prima,  tutti coloro con cui aveva da dire,  per prenderlo in giro gli gridavano: “Sellate la mula!”  Ora,  invece:  “Consultate il calepino!”

E Don Lollò rispondeva:

“Sicuro,  e vi fulmino tutti,  figli di un cane!”

Quella bella giara nuova,  pagata quattr’onze ballanti e sonanti,  in attesa del posto da trovarle in cantina,  fu allogata provvisoriamente nel palmento.  Una giara così non s’era mai veduta.  Allogata in quell’antro intanfato di mosto e di quell’odore acre e crudo che cova nei luoghi senz’aria e senza luce,  faceva pena.

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LEONARDO SCIASCIA

(Recalmuto,  Agrigento 1921 – 1989)

A CIASCUNO IL SUO

(1966)

III

   Il parroco era piuttosto noto come acuto e rapace conoscitore di cose d’arte,  e si sapeva che manteneva costante commercio,  e proficuo,  con qualche antiquario di Palermo.  Infatti,  mostrando da ogni parte il san Rocco “L’ho già fatto vedere,  mi offrono trecentomila lire:  ma per ora me lo voglio godere un po‘,  c’è sempre tempo perché vada a finire in casa di qualche ladro del pubblico denaro…  Che ne dice?  Prima metà del Cinquecento,  no?”

“Direi di sì.”

È di questo parere anche il Professor De Renzis:  un’autorità per quanto riguarda la scultura siciliana del Quattro e Cinquecento…  Solo che il suo parere”  scoppiò a ridere “coincide sempre col mio:  poiché io lo pago.”

“Lei non crede in niente”  disse il professore.

Oh sì,  in qualche cosa.  Forse in troppe,  per i tempi che corrono.”

Era  diffuso in paese l’aneddoto,  forse vero,  che mentre celebrava la messa,  nell’atto di aprire il tabernacolo,  la chiave gli si era inceppata nella serratura;  e impazientemente armeggiando con la chiave al parroco era sfuggita l’imprecazione “E che diavolo c’è?”  voleva dire nella serratura.  Il fatto è che aveva sempre fretta nelle cose di chiesa,  era sempre in giro a trafficare,  a intrallazzare.

“Ma,  mi scusi,  io non capisco…”  cominciò il professore.

“Perché mi tenga addosso questa veste?…  Le dirò che non me la sono messa addosso di mia volontà.  Ma forse lei conosce la storia:  un mio zio prete,  parroco di questa stessa chiesa,  usuraio,  ricco,  mi lasciò tutto il suo:  a patto che diventassi prete.  Io avevo tre anni,  quando lui morì.  A dieci,  quando entrai in seminario,  mi sentivo un san Luigi;  a ventidue,  quando ne uscii,  un’incarnazione di Satana.  Avrei voluto piantare tutto:  ma c’era l’eredità,  c’era mia madre.  Oggi non tengo più a quello che ho ereditato,  mia madre è morta;  potrei andarmene…”

“Ma c’è il Concordato.”

“Nel mio caso,  col testamento di mio zio alla mano,  il Concordato non mi colpirebbe:  mi sono fatto prete per costrizione,  e dunque mi lascerebbero andare senza menomare i miei diritti civili…  Ma il fatto è che in questa veste ormai ci sto comodo;  e tra la comodità e il dispetto ho raggiunto un equilibrio,  una perfezione,  una pienezza di vita…”

“Ma non rischia di passare qualche guaio?”

“No,  assolutamente.  Se si attentano a toccarmi,  gli pianto uno scandalo tale che persino gli inviati della Pravda verranno a bivaccare qui almeno per un mese.  Ma che dico,  uno scandalo?  Una serie,  un fuoco d’artificio di scandali…”

Così piacevolmente intrattenuto,  il professor Laurana lasciò la canonica che era quasi mezzanotte.  Ne usciva pieno di simpatia per il parroco di sant’Anna.  “Ma la Sicilia,  forse l’Italia intera” si disse “è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa”.

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VITALIANO BRANCATI
(Pachino,  Siracusa 1907 – 1954)

DON GIOVANNI IN SICILIA

(1941)

I

   Giovanni Percolla aveva quarant’anni,  e viveva da dieci anni in compagnia di tre sorelle,  la più giovane delle quali diceva di essere “vedova di guerra”.  Non si sa come,  nel momento in cui pronunciava questa frase,  ella si trovava con una matita e un foglio in mano,  e subito si poneva a scrivere dei numeri,  accompagnandosi con queste parole:

“Quando io ero in età da marito,  scoppiò la grande guerra.  Ci furono seicentomila morti e trecentomila invalidi.  Alle ragazze di quel tempo,  venne a mancare un milione di probabilità per sposarsi.  Eh,  un milione è un milione!  Non credo di ragionare da folle se penso che uno di quei morti avrebbe potuto essere mio marito!”

“Giusto!”  diceva l’altra sorella.  “Giusto!  Eri molto graziosa al tempo della guerra!”

Si chiamavano Rosa,  Barbara e Lucia,  e si amavano teneramente,  sino al punto che ciascuna,  incapace di pensare la più piccola bugia per sé,  mentiva volentieri per far piacere all’altra.

Eh,  tu,  Rosa,  saresti ora moglie di un colonnello!”  ripeteva Barbara.  E questo perché,  una sera del ‘quindici,  rincasando tutt’e tre per una stradetta buia,  pare che fossero seguite da una figura alta che mandava un suono di speroni e di sciabola.

“No,  il capitano andava per i fatti suoi!”  si schermiva Rosa.

“Amor mio,”  incalzava Barbara,  “quando si va per i fatti propri,  non si dice:  – Signorina,  domani parto,  posso mandarvi una lettera? – “

“Ma forse lo diceva a te!”

“No,  no,  no;  no,  no,  no!”

“Lo avrà detto a Lucia!”

“Figlia di Dio!”  esclamava Lucia,  “Barbara forse non lo ricorda,  perché entrò con te nel portoncino,  ma io,  che mi fermai per raccattare la chiave,  sentii distintamente come un sospiro che diceva: – Signorina Rosa! – ”

“Può darsi,  può darsi!…  Dio mio,  quanta gente non ritornò,  di quelli che facevano chiasso nei caffè e guardavano in su,  passando sotto i balconi!”

Questi discorsi non si tenevano mai alla presenza di Giovanni.  Quand’egli varcava la soglia dell’edificio,  la portinaia scuoteva il campanello della finestra e annunciava:  “Il signore sale le scale!”  La cameriera si trascinava alla porta,  gridando dietro di sé:  “Il signorino Giovanni!”;  e le tre sorelle si mettevano a correre da tutte le parti con un rumore di piatti smossi,  imposte sbattute,  zolfanelli strofinati e cassettoni richiusi.

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GIOVANNI VERGA

(Catania 1840 – 1922)

LA LUPA

(1880)

Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato,  e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro;  ma proprio quello che si dice innamorarsi,  sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto,  e provare,  fissandolo negli occhi,  la sete che si ha nelle ore calde di giugno,  in fondo alla pianura.  Ma lui seguitava a mietere tranquillamente,  col naso sui manipoli,  e le diceva:  “O che avete,  gnà Pina?”  Nei campi immensi,  dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli,  quando il sole batteva a piombo,  la Lupa,  affastellava manipoli su manipoli,  e covoni su covoni,  senza stancarsi mai,  senza rizzarsi un momento sulla vita,  senza accostare le labbra al fiasco,  pur di stare sempre alle calcagna di Nanni,  che mieteva e mieteva,  e le domandava di quando in quando:  “Che volete,  gnà Pina?”  Una sera ella glielo disse,  mentre gli uomini sonnecchiavano nell’aia,  stanchi della lunga giornata,  ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera:

“Te voglio!  Te che sei bello come il sole,  e dolce come il miele.  Voglio te!”

“Ed io invece voglio vostra figlia,  che è zitella”  rispose Nanni ridendo.

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GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA

(Palermo 1896 – 1957)

IL GATTOPARDO

(1957)

Parte Seconda

Il pranzo e le varie reazioni

   Il Principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un paese dell’interno,  un pranzo che si iniziasse con un potage,  e infrangeva tanto più facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti.  Ma le informazioni sulla barbarica usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perché un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di quei pranzi solenni.  Perciò quando tre servitori in verde,  oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni,  soltanto quattro su venti si astennero dal manifestare una lieta sorpresa:  il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano,  Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito.  Tutti gli altri (Tancredi compreso,  rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi,  che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto acuto di Francesco Paolo.  Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose.

Buone creanze a parte,  però,  l’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione.  L’oro brunito dell’involucro,  la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta:  ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi,  si scorgevano poi i fegatini di pollo,  gli ovetti duri,  le sfilettature di prosciutto,  di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa,  caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.

L’inizio del pasto fu,  come sempre avviene in provincia,  raccolto.  L’Arciprete si fece il segno della croce e si lanciò a capofitto senza dir parola;  l’organista assorbiva la succolenza del cibo ad occhi chiusi:  era grato al Creatore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce gli procurasse talvolta simili estasi e pensava che col solo prezzo di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese;  Angelica,  la bella Angelica,  dimenticò i migliaccini toscani e parte delle proprie buone maniere e divorava con l’appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che  la forchetta tenuta a metà dell’impugnatura le conferiva.  Tancredi,  tentando di unire la galanteria alla gola,  si provava a vagheggiare il sapore dei baci di Angelica,  sua vicina,  nel gusto delle forchettate aromatiche,  ma si accorse che l’esperimento era disgustoso e lo sospese,  riservandosi di risuscitare queste fantasie al momento del dolce.  Don Fabrizio,  benché rapito nella contemplazione di Angelica che gli stava di fronte,  ebbe modo di notare,  unico a tavola che la demi-glace era troppo carica e si ripromise di dirlo al cuoco l’indomani;  gli altri mangiavano senza pensare a nulla e non sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito anche perché un’aura sensuale era penetrata nella casa.

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SALVATORE QUASIMODO

(Modica,  Ragusa 1901 – 1968)

AUTUNNO

 

Autunno mansueto,  io mi posseggo

e piego alle tue acque a bermi il cielo,

fuga soave d’alberi e d’abissi.

 

Aspra pena del nascere

mi trova a te congiunto;

e in te mi schianto e mi risano:

 

povera cosa caduta

che la terra raccoglie.

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VITALIANO BRANCATI

IL BELL’ANTONIO

(1949)

Dei siciliani scapoli che si stabilirono a Roma intorno al 1930,  otto per lo meno,  se la memoria non mi inganna,  affittarono ciascuno una casa ammobiliata,  in quartieri poco rumorosi e frequentati,  e quasi tutti andarono a finire presso insigni monumenti,  dei quali però non seppero mai la storia né osservarono la bellezza,  e talvolta addirittura non li videro.  Che cosa non saltò il loro occhio ansioso di scorgere la donna desiderata in mezzo alla folla che scendeva dal tram?  Cupole,  portali,  fontane…  opere che,  prima di essere attuate e compiute,  tennero aggrottate per anni la fronte di Michelangelo o del Bernini,  non riuscirono a farsi minimamente notare dall’occhio mobile e nero dell’ospite meridionale!

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LEONARDO SCIASCIA

IL LUNGO VIAGGIO

   Era una notte che pareva fatta apposta,  un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso.  E faceva spavento,  respiro di quella belva che era il mondo,  il suono del mare:  un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi.

Stavano,  con le loro valige di cartone e i loro fagotti,  su un tratto di spiaggia pietrosa,  riparata da colline,  tra Gela e Licata;  vi erano arrivati all’imbrunire,  ed erano partiti all’alba dai loro paesi;  paesi interni,  lontani dal mare,  aggrumati nell’arida plaga del feudo.  Qualcuno di loro,  era la prima volta che vedeva il mare:  e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto,  da quella deserta spiaggia della Sicilia,  di notte,  ad un’altra deserta spiaggia dell’America,  pure di notte.  Perché i patti erano questi  “Io di notte vi imbarco”  aveva detto l’uomo:  una specie di commesso viaggiatore per la parlantina,  ma serio e onesto nel volto  “e di notte vi sbarco:  sulla spiaggia del Nugioirsi,  vi sbarco;  a due passi da Nuovaiorche…  E chi ha parenti in America,  può scrivergli che aspettino alla stazione di Trenton,  dodici giorni dopo l’imbarco…  Fatevi il conto da voi…  Certo,  il giorno preciso non posso assicurarvelo:  mettiamo che c’è mare grosso,  mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare…  Un giorno più o un giorno meno,  non fa niente:  l’importante è sbarcare in America.”

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MARIA MESSINA

(Palermo? 1887 – 1944)

IDEALE INFRANTO

La signora Sinighella,  lontana da Palermo per la prima volta in vita sua,  cercava di mantenersi legata a ogni parente,  a ogni amica,  scrivendo lunghe lettere e aspettando – con la premura di una fanciulla – brevi risposte che pareva le portassero un’eco della cara città lasciata a malincuore.  Quel primo trasferimento le aveva procurato un senso d’inquietudine,  poi che gli amici,  fingendo di compatirla,  si erano divertiti a descrivere la noia e i disagi che l’aspettavano nel piccolo paese montano.  “Non c’è neppure la luce elettrica!  E non c’è neppure un cinematografo!”  dicevano alcuni.  “Le scuole finiscono con la terza ginnasiale e con la terza complementare!”  informavano altri.  “E la posta parte una volta al giorno!  Forse neanche una volta!  E giornali non ne giungono quasi mai!  Si figuri!  Senza ferrovia,  senza automobili!”  Però nel luminoso settembre d’oro la signora Cristina si era messa in viaggio con la convinzione di compiere un sacrificio più grande delle sue forze;  e turbata e triste si era lasciata portare dalla affannata diligenza su per lo stradale interminabile che,  arrampicandosi fra i monti aguzzi pareva lasciarsi dietro ogni rumore di attività.  E una volta in paese fu assalita dalla nostalgia.  La vista delle straducce mezzo deserte,  delle case a due piani,  delle donne vestite in colori oscuri le riuscì intollerabile.  Non si lamentò,  ma pensò alla sua bella casa di via Maqueda,  come se non avesse dovuto rivederla mai più.

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VITALIANO BRANCATI

IL BELL’ANTONIO

(1949)

 

Il rumore di quello scandalo fu avvertito da tutta Catania come un boato dell’Etna.  Antonio Magnano,  il figlio di Alfio,  il nipote di Ermenegildo,  il bellissimo giovane che faceva alzare lo sguardo dal messale alla più santa delle ragazze,  Antonio dagli occhi sempre addormentati,  e chi non lo conosceva?  (levavano una mano al di sopra della testa per indicare ch’era alto o se la passavano dolcemente lungo le guance per dire che aveva un viso perfetto),  Antonio,  sì,  proprio lui,  quello e non altri,  ebbene Antonio con la moglie…  niente!  vi dico niente!  assolutamente niente!  Barbara Puglisi,  dopo tre anni di matrimonio,  non sa ancora cosa sia la grazia di Dio.

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DACIA MARAINI

(Fiesole,  Firenze 1936 – )

BAGHERIA

   Il nome Bagheria pare che venga da Bab el gherib che in arabo significa porta del vento.  Altri dicono invece che Bagheria provenga dalla parola Bahariah che vuol dire marina.

Io preferisco pensarla come porta del vento,  perché di marino ha molto poco,  Bagheria,  sebbene abbia il mare a un chilometro di distanza.  Ma è nata,  nel suo splendore architettonico,  come villeggiatura di campagna dei signori palermitani del Settecento e ha conservato quell’aria da “giardino d’estate”  circondata di limoni e ulivi,  sospesa in alto sopra le colline,  rinfrescata da venti salsi che vengono dalle parti del Capo Zafferano.

Cerco d’immaginarla com’era prima del disordine edilizio degli anni Cinquanta,  prima della distruzione sistematica delle sue bellezze.  Ancora prima,  quando non era diventato il centro di villeggiatura preferito dai nobili palermitani,  prima delle carestie,  delle pesti,  in un lontano passato che assomiglia al grembo di una antica madre da cui nascevano le città e le cose.

Polibio parla di grandi distese boscose,  due secoli avanti Cristo,  quando i Cartaginesi attaccarono gli alleati dei romani “presso Panormo”.

Fra il monte Cannita dove pare che sorgesse la città di Kponia,  luogo di culto della dea Atena,  e il Cozzo Porcara dove si sono trovati i resti di una necropoli fenicio-punica,  c’era questa “valletta amena”  che poi è stata chiamata Bagheria.  Ha la forma di un triangolo con la punta rocciosa del Capo Zafferano che sporge sul mare come la prua di una nave.  Un lato comprende i paesi di Santa Flavia,  Porticello e Sant’Elia;  l’altro lato,  il più selvaggio e battuto dal mare era occupato,  fino al dopoguerra,  solo dal paese dell’Aspra con le sue barche da pesca tirate in secca sulla rena bianca.  Al centro,  appoggiata fra le colline,  in mezzo a una folla di ulivi e di limoni,  ecco Bagheria lambita da un fiume oggi ridotto a uno sputo,  l’Eleuterio che,  ai tempi di Polibio,  era navigabile fino al mare.

Lecci,  frassini,  sugheri,  noci,  fichi,  carrubi,  mandorli,  aranci,  fichi d’India,  erano queste le piante più diffuse.  E lo sguardo poteva scorrere da un lato all’altro del triangolo fra onde verdi più scure e meno scure immaginando di vedere sbucare da qualche parte un gigante nudo con un occhio solo in mezzo alla fronte.

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GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA

LA SIRENA

Così parlammo della Sicilia eterna,  di quella delle cose di natura;  del profumo di rosmarino sui Nèbrodi,  del gusto del miele di Melilli,  dell’ondeggiare delle messi in una giornata ventosa di Maggio come si vede da Enna,  delle solitudini intorno a Siracusa,  delle raffiche di profumo riversate,  si dice,  su Palermo dagli agrumeti durante certi tramonti di Giugno.  Parlammo dell’incanto di certe notti estive in vista del golfo di Castellammare,  quando le stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi è coricato riverso fra i lentischi si perde nel vortice del cielo mentre il corpo,  teso e all’erta,  teme l’avvicinarsi dei demoni.

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SALVATORE QUASIMODO

LAMENTO PER IL SUD

 

La luna rossa,  il vento,  il tuo colore

di donna del Nord,  la distesa di neve…

Il mio cuore è ormai su queste praterie,

in queste acque annuvolate dalle nebbie.

Ho dimenticato il mare,  la grave

conchiglia soffiata dai pastori siciliani,

le cantilene dei carri lungo le strade

dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,

ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru

nell’aria dei verdi altipiani

per le terre e i fiumi della Lombardia.

Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.

Più nessuno mi porterà nel Sud.

Oh,  il Sud è stanco di trascinare i morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di solitudine,  stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,

che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,

costringono i cavalli sotto coltri di stelle,

mangiano fiori d’acacia lungo le piste

nuovamente rosse,  ancora rosse,  ancora rosse.

Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d’inverno

è ancora nostra,  e qui ripeto a te

il mio assurdo contrappunto

di dolcezze e di furori,

un lamento d’amore senza amore.

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MARIA MESSINA

CENERELLA

Cinniredda soffocò un piccolo singhiozzo,  nel suo cantuccio.  La parola emigrante suonava alle sue orecchie come una specie d’insulto.  Essa rammentava di aver veduto partire gli emigranti,  una sera.  Un gruppo di uomini avanti,  cogli scialli al collo,  e poi le donne e i bambini vestiti a festa,  dietro in processione.  E poi un gran pianto di quelli che li accompagnavano fino a Sant’Agata.  Triste parola,  emigrante.  Gente che non sa più vivere nel paese dove nacque,  che la miseria o il dolore caccia lontano,  verso luoghi ignoti.  Erano anch’esse emigranti.  Certo.  Anch’esse vendevano la terra e mettevano della roba nelle valigie.  E domani si sarebbero avviate anch’esse:  e gli amici e i parenti le avrebbero accompagnate,  col cuore stretto dalla pietà,  come si accompagnano i morti.

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LUIGI PIRANDELLO

 

LA BUON’ANIMA

(1904)

   Fin dal primo giorno,  Bartolino Fiorenzo s’era sentito dire dalla promessa sposa:

“Lina,  veramente,  ecco…  Lina no,  non è il mio nome.  Carolina mi chiamo.  La buon’anima mi volle chiamar Lina,  e m’è rimasto così.”

La buon’anima era Cosimo Taddei,  il primo marito.

Eccolo là!”

Glielo aveva anche indicato,  la promessa sposa,  perché era ancor là,  ridente e in atto di salutare col cappello (vivacissima istantanea fotografica ingrandita),  nella parete di fronte al canapè,  presso al quale Bartolino Fiorenzo stava seduto.  E istintivamente a Bartolino era venuto di inchinar la testa per rispondere a quel saluto.

A Lina Sarulli,  vedova Taddei,  non era neanche passato per il capo di togliere quel ritratto dal salotto,  il ritratto del padrone di casa.  Era di Cosimo Taddei,  infatti la casa in cui ella abitava;  lui,  ingegnere,  la aveva levata di pianta,  lui poi così elegantemente arredata,  per lasciargliela alla fine in eredità con l’intero patrimonio.

La Sarulli seguitò,  senza notare affatto l’impaccio del promesso sposo:

“A me non piaceva cangiar nome.  Ma la buon’anima allora mi disse:  – E se invece di Carolina ti chiamassi cara Lina non sarebbe meglio?  Quasi lo stesso,  ma tanto di più! –  va bene?”

“Benissimo!  sì,  sì,  benissimo!”  rispose Bartolino Fiorenzo,  come se la buon’anima avesse domandato a lui un parere.

“Dunque,  cara Lina,  siamo intesi?”  concluse la Sarulli,  sorridendo.

E Bartolino Fiorenzo:

“Intesi…  sì,  sì…  intesi”  balbettò,  smarrito di confusione e di vergogna,  pensando che il marito,  intanto,  guardava ridente dalla parete e lo salutava.

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LEONARDO SCIASCIA

TODO MODO

(1974)

Quell’andare su e giù nello spiazzale quasi buio,  non come quieto passeggio ma a passo svelto,  appunto come chi ha paura del buio e si affretta a raggiungere la zona di luce (…)  (e lì infatti il loro passo si faceva più lento,  a indugiarvi prima di riaffrontare il percorso verso la parte più buia);  quelle loro voci che si levavano verso il Padrenostro,  nell’Avemaria,  nel Gloria con un che di atterrito e di isterico;  la voce di Don Gaetano,  che succedeva alla loro,  distante e fredda:  e da quella voce espressioni come “misterioso messaggio”,  “mistero della salvezza”,  “antico serpente”,  “spada che trafiggerà l’anima”,  si intridevano in un senso tutto fisico,  non più metafore ma eventi che stavano realizzandosi,  che si realizzavano,  in quel posto al confine del mondo,  al confine dell’inferno,  (…).  E in quel momento anche chi,  come me (…),  li vedeva nell’abbietta mistificazione e nel grottesco,  scopriva che c’era qualcosa di vero,  vera paura,  vera pena,  in quel loro andare nel buio dicendo preghiere:  qualcosa che attingeva all’esercizio spirituale:  quasi che fossero e si sentissero disperati,  nella confusione di una bolgia sul punto di metamorfosi.  E veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri.

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VITALIANO BRANCATI

GLI ANNI PERDUTI

(1941)

Prima parte

V

La mattina,  Leonardo si svegliava presto,  ma rimaneva per lungo tempo ad ascoltare il giro dei venditori ambulanti che offrivano “lattughe come l’acqua”,  “fichidindia migliori del gelato”,  e domandavano a voce alta alle loro mele:  “Ma perché,  perché siete così dolci?”

Quella di stare sdraiati sul letto,  al buio,  è la posizione più comoda per far scorrere il tempo:  una volta chiudendo gli occhi,  un’altra aprendoli e non vedendo nulla,  una volta porgendo orecchio alla strada,  un’altra alle mosche che cercano il giorno sul filo delle imposte,  una volta addormentandosi,  un’altra facendo pensieri che potrebbero molto bene far parte di un sogno,  si scivola dalle otto alle undici,  tac,  con un colpo solo.  Alle undici,  Leonardo si alzava dal letto,  si lavava,  faceva colazione,  si vestiva e,  prima di uscire,  poggiava per qualche tempo la fronte sui vetri del balcone e osservava la piazzetta sottostante.  Oh!  Queste piazze in cui non accade niente!  Come mai non accade niente?  Vediamo un po’:  osserviamo in che modo non accade niente!  È uno spettacolo interessante,  e sempre nuovo,  e alla fine inspiegabile,  questo di una vita che non arriva a partorire mai nulla.

“Che gente!”  mormorava Leonardo.  “Dei veri arabi!”

Usciva di casa alle dodici e mezzo.  L’unica strada frequentata di Natàca era il lungo e diritto corso,  tutto di selci scure,  con palazzi panciuti e barocchi,  anch’essi di pietra scura.  Il sole batteva ora s’un marciapiede ora sull’altro,  e la gente passava col sole da un marciapiede all’altro.  Tutti camminavano piano piano,  lasciando per il maggior tempo che fosse possibile il piede in aria.  Era inutile,  infatti,  era anzi riprovevole camminare velocemente,  perché,  una volta arrivati a un capo del corso,  non restava che voltarsi e arrivare all’altro capo,  e quindi ridiscendere,  e poi risalire,  e ridiscendere e risalire,  tante e tante volte che non si riusciva più a contarle,  o se ne aveva paura.

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ANDREA CAMILLERI

(Porto Empedocle,  Agrigento 1925 – )

RACCONTO

Lo sbarco delle Forze Alleate in Sicilia,  nella notte tra il 9 e il 10 luglio del ’43,  mi sorprese con la mia famiglia,  salvo mio padre che era alla capitaneria di porto a Porto Empedocle,  a Serradifalco,  al centro della Sicilia,  dove eravamo sfollati per sfuggire ai bombardamenti.  La guerra arrivò a Serradifalco pochi giorni dopo lo sbarco alleato (…),  quando la divisione tedesca “Hermann Göring” si dispiegò a difesa lungo una linea che attraversava proprio Serradifalco.  Una mattina che era appena l’alba,  udii un assordante silenzio.  Uscii fuori dal cancello e vidi sfilare il primo gigantesco carro armato americano preceduto da una jeep con un generale,  il mitico Patton.  Quando gli americani arrivarono a Serradifalco era da un mese che non avevo notizie di mio padre,  quindi chiesi alla zia che ci ospitava se aveva una bicicletta,  l’unico mezzo allora possibile.  Mia zia disse:   “Sì ce l’ho una bicicletta.”  Era una bicicletta Montante,  perché la Montante fabbricava biciclette proprio a Serradifalco.  Le forniva ai Carabinieri,  alla Pubblica Sicurezza,  ai civili ed erano (…) con le gomme piene per i signori Ufficiali,  per evitare che…   insomma,  vedere un Ufficiale Carabiniere che riparava una gomma forata non era il caso.  E a me toccò una di queste biciclette con le gomme piene.  Appena iniziata la strada per Porto Empedocle,  50 o più chilometri di allora,  vidi che il fondo stradale era metallico,  la massa enorme di mezzi alleati che risaliva aveva trasformato il fondo stradale in una serie di cose metalliche.  Dissi:  “Non arriverò mai.”  Non sapevo che le gomme erano piene allora!  Non forai mai!  Non si ruppe un raggio,  non si ruppe mai nulla.

 

Io correvo in canottiera e calzoncini,  e così arrivai.  Ed avevo un’ansia (…),  non sapevo più se correvo alla disperata per avere notizie di mio padre o se correvo verso un mondo nuovo.  Me ne resi conto dopo che c’era anche questa voglia di libertà!  Arrivai ad Agrigento che non c’era più il mare e al suo posto una distesa di navi da guerra che uno accanto a me mi disse:  “Si po ghiri in Tunisia a piedi”,  ed era vero,  di nave in nave ci arrivavi.

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SALVATORE QUASIMODO

SPECCHIO

 

Ed ecco sul tronco

si rompono le gemme:

un verde più nuovo dell’erba

che il cuore riposa:

il tronco pareva già morto,

piegato sul botro.

E tutto sa di miracolo;

e sono quell’acqua di nube

che oggi rispecchia nei fossi

più azzurro il suo pezzo di cielo,

quel verde che spacca la scorza

che pure stanotte non c’era.

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LEONARDO SCIASCIA

IL GIORNO DELLA CIVETTA
(1961)

“Non credere che uno è cornuto perché le corna gliele mettono in testa le donne,  o si fa prete perché ad un certo punto gli viene la vocazione:  ci si nasce:  Ed uno non si fa sbirro perché ad un certo punto ha bisogno di buscare qualcosa,  o perché legge un bando d’arruolamento:  si fa sbirro perché sbirro era nato.  Dico per quelli che sono sbirri sul serio:  ce n’è,  poveretti,  che sono paste d’angelo;  e questi io non li chiamo sbirri.  Un galantuomo come quel maresciallo che c’era qui durante la guerra,  come si chiamava?,  quello che stava bene con gli americani:  e quello sbirro lo vuoi chiamare?  Favori ne faceva:  e noi gliene abbiamo fatti,  casse di pasta e damigiane d’olio.  Un galantuomo.  Non era nato sbirro,  ecco:  ma stupido non era…  Noi chiamiamo sbirri tutti quelli che sul cappello portano la fiamma col V. E…”

“Lo portavano il V. E.”

“Lo portavano:  io mi scordo sempre che il re non c’è più…  Ma tra loro ci sono gli stupidi,  ci sono i galantuomini e ci sono gli sbirri veri,  gli sbirri nati.  E così i preti:  vuoi chiamare prete padre Frazzo?  Il bene che si può dire di lui è che è un buon padre di famiglia.  Ma padre Spina:  ecco uno che è nato prete.”

“E i cornuti?”

“Vengo coi cornuti,  ora.  Uno scopre le tresche che gli fanno in casa,  fa un macello:  non è cornuto nato.  Ma se fa finta di niente,  o con le corna si dà pace:  e allora è nato cornuto…  Ora ti dico com’è lo sbirro nato.  Arriva in paese:  tu cominci ad avvicinarti a lui,  a fargli delle gentilezze,  ad arruffianarti;  magari,  se ha moglie,  porti tua moglie a fargli visita,  le mogli diventano amiche,  diventate amici,  la gente vi vede assieme e pensa che facciate un canestro d’amicizia.  E tu ti illudi che lui ti veda come una persona gentile,  di buoni sentimenti,  a prova d’amicizia;  e invece,  per lui,  tu sei sempre quello che risulta dalle carte che tiene in ufficio.  E se hai avuto una contravvenzione,  per lui sei in ogni momento,  anche mentre bevete il caffè in salotto,  uno che ha avuto una contravvenzione.  E se cadi a fare qualcosa che è vietata,  una piccola cosa,  anche se siete tu e lui soli e nemmeno il padreterno vi vede,  ti fa la contravvenzione come niente.  Figurati poi se cadi in qualcosa di più grosso.  Nel ‘27,  mi ricordo,  c’era qui un maresciallo che in casa mia faceva,  come si suol dire,  casa e bottega:  la moglie e i figli non c’era giorno che non venissero da noi,  e c’era tanta amicizia che il figlio più piccolo,  un bambino di tre anni,  chiamava mia moglie zia.  Un giorno me lo vedo spuntare in casa con un mandato di arresto.  Era il suo dovere,  lo soerano tempi brutti,  c’era Mori…  Ma come mi ha trattato:  mai visti,  mai conosciuti…  E come ha trattato mia moglie,  quando è andata in caserma per sapere qualcosa:  un cane arrabbiato…  Cu si mitti cu li sbirri,  giusto dice il proverbio,  ci appizza lu vinu e li sicarri:  e con quel maresciallo io ci ho rimesso davvero vino e sigari,  ché a scialo beveva il mio vino e fumava i miei sigari.”

“Nel ‘27”  disse il giovane  “c’era il fascismo,  la cosa era diversa:  Mussolini faceva i deputati e i capi di paese,  tutto quello che gli veniva in testa faceva.  Ora i deputati e i sindaci li fa il popolo…”

“Il popolo”  sogghignò il vecchio  “il popolo…  Il popolo cornuto era e cornuto resta:  la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera solo alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé,  del colore che gli piace,  alle proprie corna…  Siamo al discorso di prima:  non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti,  ci sono anche popoli interi;  cornuti dall’antichità,  una generazione appresso all’altra…”

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GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA

IL GATTOPARDO

(1957)

 

Parte Quarta

Chevalley e Don Fabrizio

   “Abbia pazienza,  Chevalley,  adesso mi spiegherò;  noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione,  che non parlavano la nostra lingua,  a spaccare i capelli in quattro.  Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini,  agli emiri berberi,  ai viceré spagnoli.  Adesso la piega è presa,  siamo fatti così.

In Sicilia non importa far male o far bene:  il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’.  Siamo vecchi,  Chevalley,  vecchissimi.  Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee,  tutte venute da fuori già complete e perfezionate,  nessuna germogliata da noi stessi,  nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’;  noi siamo dei bianchi quanto lo è lei,  Chevalley,  e quanto la regina d’Inghilterra;  eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia.  Non lo dico per lagnarmi:  è in gran parte colpa nostra;  ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.

 

Il sonno,  caro Chevalley,  il sonno è ciò che i Siciliani vogliono,  ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare sia pure per portar loro i più bei regali;

 

vedo che mi sono spiegato male:  ho detto i Siciliani,  avrei dovuto aggiungere la Sicilia,  l’ambiente,  il clima,  il paesaggio.  Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo:  questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata;  che non è mai meschino,  terra terra,  distensivo,  umano,  come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali;  questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina,  ambedue fuor di misura,  quindi pericolosi;  questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi;  li conti,  Chevalley,  li conti:  Maggio,  Giugno,  Luglio,  Agosto,  Settembre,  Ottobre;  sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste;  questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo;  Lei non lo sa ancora,  ma da noi si può dire che nevica fuoco,  come sulle città maledette della Bibbia;  in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre;  e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore;  e dopo ancora,  le piogge,  sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti,  che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete.  Questa violenza del paesaggio,  questa crudeltà del clima,  questa tensione continua di ogni aspetto,  questi monumenti,  anche,  del passato,  magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti;  tutti questi governi sbarcati in armi da chissà dove,  subito serviti,  presto detestati e sempre incompresi,  che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove;  tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.”

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GIOVANNI VERGA

LIBERTÁ

Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale,  quello che faceva tremare la gente.  Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone,  verso il paesetto;  sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti.  Ma nessuno si mosse.  Le donne strillavano e si strappavano i capelli.  Ormai gli uomini neri e colle barbe lunghe,  stavano sul monte,  colle mani fra le cosce,  a vedere arrivare quei giovanetti stanchi,  curvi sotto il fucile arrugginito,  e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero,  innanzi a tutti,  solo.  Il generale fece portare della paglia nella chiesa,  e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre.  La mattina,  prima dell’alba,  se non si levavano al suono della tromba,  egli entrava nella chiesa a cavallo,  sacramentando come un turco.  Questo era l’uomo.  E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei,  Pippo,  il nano,  Pizzanello,  i primi che capitarono.  Il taglialegna,  mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero,  piangeva come un ragazzo,  per certe parole che gli aveva dette sua madre,  e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia.  Da lontano,  nelle viuzze più remote del paesetto,  dietro gli usci,  si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaretti della festa.

Da  NOVELLE RUSTICANE  (1883)

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MARIA MESSINA

LA MERICA

Tutti partivano nel quartiere dell’Amarelli;  non c’era casa che non piangesse.  Pareva la guerra;  e come quando c’è la guerra,  le mogli restavan senza marito e le mamme senza figliuoli.  Chi poteva contarli?  Partivan tutti e nelle case in lutto le donne restavano a piangere.  Pure ognuno possedeva un pezzo di terra,  una quota,  la casa,  pure ognuno partiva.  E i meglio giovani del paese andavano a lavorare quella terra incantata che se li tirava come una malafemmina.  Ma la Merica,  diceva la gna Maria “è un tarlo che rode,  una malattia che s’attacca;  come viene il tempo che uno si deve comprare la valigia,  non c’è niente che lo tenga.”

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VITALIANO BRANCATI

NEMICI

(1942?)

Ecco la mia vecchia Sicilia:  le campagne ove la notte più nera non riesce a render bruno il mandorlo fiorito;  i girasoli che s’affacciano dai muri come barboncini sonnacchiosi;  i papaveri alti quanto bambine che poggiano la testa sul fianco dei grandi.  Qui la notte di marzo è odorosa di sole,  per via delle pietre che trattengono il calore fin dopo la mezzanotte.  Le margherite e l’erba di smalto si spingono fino al mare,  e la lucertola,  correndo di fiore in fiore va a specchiare,  entro l’ultima onda,  il filo verdissimo d’erba che reca nella bocca verde.  Gli alberi bassi e luccicanti del limone e dell’arancio diventano,  al lume di luna,  cupi come pozze di acqua.  Ed ecco le città e i borghi pieni di terrazze e terrazzine:  alcune le riconosco perché,  da trent’anni,  sembra che stiano per cadere sulla mia casa.  Terrazze deserte e screpolate,  dalle quali non vidi mai affacciarsi persone,  ma l’aurora,  le stelle,  la luna e l’intero cielo d’estate.  Ed ecco i balconcini,  nel cui nero vano si muovevano,  un po’ meno nere,  le ragazze del tempo in cui anche noi eravamo ragazzi,  finché la luna,  o un lume passeggero nel balcone dirimpetto,  non scoprisse il loro visetto pallido e gli occhi impauriti.  Ecco le strade e le stradette,  piene di nottambuli.  Hanno un bell’avvolgerle di buio e timore:  il cicaleccio continua,  e i chiodi delle scarpe mandano scintille come lucciole.

Non si capisce bene perché,  ma qui è facile volersi molto bene o molto male;  chi è perseguitato da una “voce d’amore”,  qui la sente uscire fin dai calici delle margherite come da megafoni (anche per me i balconi e le finestre sono disseminati di voci simili,  ma son voci del passato,  improvvisamente rafforzate,  come per un momentaneo guasto nella macchina del mondo);  chi poi è perseguitato dalla voce dell’odio,  la sente piovere anche dall’acquasantiera sgocciolante ai piedi del crocifisso,  morde le lenzuola e non può dormire…

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LEONARDO SCIASCIA

A CIASCUNO IL SUO

(1966)

XVI

   Il caffè Romeris,  tutto in stile floreale,  con grandi specchi decorati dai leoni in calcomania del ferrochina Bisleri,  col baiser au serpent che dal banco in cui era intagliato pareva prolungasse i suoi tentacoli nei piedi delle sedie e dei tavoli,  nei bracci delle lampade e nei manici delle tazze,  viveva ormai più nelle pagine di uno scrittore di quella città,  morto da una trentina d’anni,  che nella frequentazione dei cittadini.  La sparuta clientela era di forestieri:  gente della provincia che ne ricordava il passato splendore o persone come Laurana,  che per ragioni di tranquillità e di letteratura lo preferivano.  E non si capiva come mai il signor Romeris,  ultimo di una gloriosa dinastia di pasticceri,  lo tenesse ancora aperto:  forse,  anche lui,  per ragioni di letteratura,  a celebrazione dello scrittore che l’aveva frequentato e immortalato.

Laurana vi arrivò alle sette meno dieci.  Raramente era stato al Romeris in quell’ora;  ma c’erano le stesse persone che al mattino o nelle prime ore pomeridiane:  il signor Romeris dietro il registratore di cassa,  il barone d’Alcozer mezzo addormentato,  sua eccellenza Mosca e sua eccellenza Lumia,  magistrati che,  arrivati ai gradi supremi,  ormai da parecchi anni si godevano la pensione e la partita a dama,  il bicchiere di marsala e il mezzo toscano.

Laurana li conosceva.  Salutò,  fu riconosciuto da tutti,  anche dal barone che era il meno pronto a riconoscere la gente.  Sua eccellenza Mosca gli domandò come mai arrivasse in ora così inconsueta.  Laurana spiegò che aveva perduto la corriera e gli toccava aspettare che si facesse l’ora del treno.  Sedette ad un tavolo d’angolo,  pregò il signor Romeris di portargli un cognac.  Il signor Romeris pesantemente si alzò da dietro quel floreale monumento d’ottone,  ché il lusso di tenere un cameriere non poteva permetterselo:  versò il cognac con religiosa lentezza,  lo portò al tavolo di Laurana.  Poiché Laurana aveva già tirato fuori un libro dalla borsa,  il signor Romeris si informò che libro fosse.  “Lettere d’amore di Voltaire” disse Laurana.

“Ih ih”  ridacchiò il barone “lettere d’amore di Voltaire.”

“Le conosce?”  domandò Laurana.

“Amico mio”  disse il barone “io di Voltaire conosco tutto.”

“E chi lo legge più,  oggi?”  disse sua eccellenza Lumia.

“Io lo leggo”  disse sua eccellenza Mosca.

“Ma sì,  lo leggiamo noi;  lo legge,  non so fino a che punto,  il professore qui…  Ma da quello che succede intorno non si direbbe che Voltaire sia oggi uno scrittore molto letto o almeno che sia letto per il verso giusto”  disse sua eccellenza Lumia.

Eh già”  sospirò il barone.

Laurana lasciò cadere il discorso.  E del resto al caffè Romeris,  tra quei vecchi,  si discorreva così:  lunghe pause,  in cui ognuno dentro di sé rimuginava l’argomento;  due o tre battute ogni tanto.  E infatti un quarto d’ora dopo sua eccellenza Mosca disse “Questi cani non leggono più Voltaire”  e nel lessico del caffè Romeris cani erano chiamati gli uomini politici.

“Voltaire?  Niente leggono,  nemmeno i giornali”  disse il barone.

“Ci sono marxisti che non hanno letto una pagina di Marx”  disse il signor Romeris.

“E popolari”  poiché il barone si ostinava a chiamare popolari i democristiani “che non hanno letto una pagina di don Sturzo.”

“Uh,  don Sturzo”  fece sua eccellenza Mosca sbuffando sazietà.

Ricadde il silenzio.

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IGNAZIO BUTTITTA

(Bagheria,  Palermo 1899 – 1997)

NON MI LASSARI SULU

Ascutami,

parru a tia stasira

e mi pari di parrari o munnu.

Ti vogghiu diri

di non lassàrimi sulu

nta sta strata longa

chi non finisci mai

ed havi i jorna curti.

Ti vogghiu diri

chi quattr’occhi vidinu megghiu,

chi miliuna d’occhi

vidinu chiù luntanu,

e chi lu pisu spartutu nte spaddi

diventa leggiu.

 

14 Dicembre 2013