LETTURE DA AUTORI LATINO-AMERICANI
(Scelte da Ezio Beccaria)
¡Por qué cantais la rosa, oh Poetas!
Hacedla florecer en el poema;
sólo para nosotros
viven todas las cosas bajo el Sol.
El poeta es un pequeño Dios.
Vicente Huidobro
(Santiago del Cile 1893 – 1948)
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HERIB CAMPOS CERVERA
(Asunción, Paraguay 1905 – 1953)
ENVÍO *
(Envío)
Fratello:
ti cercherò dietro gli angoli.
E non ci sarai.
Ti cercherò in uno stormo di uccelli.
E non ci sarai.
Ti cercherò nella mano di un mendicante
E non ci sarai.
Ti cercherò anche
nell’iniziale dorata di un Libro di Preghiere.
E non ci sarai.
Ti cercherò nella notte degli gnomi.
E non ci sarai.
Ti cercherò nell’aria di un carillon
E non ci sarai.
(Ti cercherò negli occhi dei Bambini.
E sarai lì.)
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HOMERO MANZI
(Añatuya, Argentina 1907 – 1951)
MALENA
(1941)
Malena canta il tango come nessuna
e in ogni verso mette il suo cuore.
Di erba di periferia la sua voce profuma,
Malena ha la pena del bandoneón.
Forse là nell’infanzia la sua voce di allodola
ha preso quel tono buio da vicolo,
oppure in quel breve amore che unico nomina
quando diviene triste d’alcol.
Malena canta il tango con voce d’ombra,
Malena ha la pena del bandoneón.
La tua canzone
ha il freddo dell’ultimo incontro.
La tua canzone
si fa amara nel sale del ricordo.
Io non so
se la tua voce è il fiore di una pena,
so solo
che al sussurro dei tuoi tanghi, Malena,
ti sento più buona, più buona di me.
I tuoi occhi sono scuri come l’oblio,
le tue labbra strette come il rancore,
le tue mani due colombe che hanno freddo,
le tue vene hanno sangue di bandoneón.
I tuoi tanghi sono creature abbandonate
che attraversano il fango del vicolo,
quando tutte le porte sono chiuse
e abbaiano i fantasmi della canzone.
Malena canta il tango con voce spezzata,
Malena ha la pena del bandoneón.
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OSVALDO SORIANO
(Mar del Plata, Argentina 1943 – 1997)
FÚTBOL
(Cuentos de fútbol)
IL FIGLIO DI BUTCH CASSIDY
Il Mondiale del 1942 non figura in nessun libro di storia ma si giocò nella Patagonia argentina senza sponsor né giornalisti e nella finale accaddero cose molto strane, come il fatto che si giocò un giorno e una notte senza riposo, che le porte e il pallone sparirono e che il temerario figlio di Butch Cassidy tolse all’Italia tutti i suoi titoli.
Mio zio Casimiro, che non aveva mai visto da vicino un pallone da calcio, fece il guardalinee nella finale e alcuni anni dopo scrisse delle memorie fantastiche, piene di errori storici e di follie ormai irrimediabili in mancanza di testimoni più credibili.
La guerra in Europa aveva interrotto i Mondiali. Gli ultimi due, nel 1934 e nel 1938, li aveva vinti l’Italia e gli operai piemontesi ed emiliani che costruivano la diga di Barda del Médio in Argentina e le strade di Villarica in Cile si sentivano campioni per sempre. Tra gli operai che lavoravano da sole a sole c’erano anche indios mapuches, noti per le loro arti illusionistiche e per le loro magie, e soprattutto europei scappati dalla guerra. C’erano spagnoli che monopolizzavano i negozi di alimentari, italiani di Genova, della Calabria e della Sicilia, polacchi, francesi, qualche inglese che prolungava le strade ferrate di Sua Maestà, pochi guaraníes del Paraguay e gli argentini che avanzavano verso la lontana Tiérra del Fuégo. Tutti quanti si trovavano lì perché il telegrafo non c’era ancora arrivato e si sentivano al sicuro dal mondo terribile in cui erano nati.
Verso aprile, quando il caldo diminuì e il vento del deserto si placò, arrivarono inattesi gli elettrotecnici del Terzo Reich che installavano la prima linea telefonica dal Pacifico all’Atlantico. Portavano con loro un’estremità del cavo che inaugurava l’era delle comunicazioni e il primo pallone del mondo con valvola automatica, che dicevano di aver inventato ad Amburgo. Dopo averlo mostrato nel recinto del cantiere per suscitare l’ammirazione di tutti, lanciarono una sfida, nel caso ci fosse qualcuno disposto a giocare contro di loro una partita internazionale. Un ingegnere, che si chiamava Celedonio Sosa e veniva da Balvanera, accettò la sfida a nome di tutta la nazione argentina e mise insieme una squadra di vagabondi e ubriaconi che tornavano delusi dalle depressioni della Cordillera delle Ande, dov’erano andati a cercare l’oro.
Il suo coraggio si rivelò catastrofico per gli argentini, che persero sei a uno con un pessimo arbitraggio di William Brett Cassidy, che diceva di essere figlio naturale del cowboy Butch Cassidy, il quale prima di finire crivellato di pallottole in Bolivia era vissuto per molti anni nelle fattorie della Patagonia insieme a Sundance Kid e a Edna, amante di tutt’e due.
Quando si accorsero della diversità di paesi e di razze rappresentati in quell’angolo della terra. I tedeschi lanciarono l’idea di un campionato mondiale che avrebbe dovuto immortalare con la prima telefonata il loro passaggio portatore di civiltà in quei confini del pianeta.
…
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BLANCA WIETHÜCHTER
(La Paz, Bolivia 1947 – 2004)
LA TERRA TI PORTA
Il tempo si scioglie
nell’istante,
sei presente col tuo silenzio
costante passeggero.
La terra ti porta
sei comune progenie delle origini
incedi dal centro
come la fiamma.
Dagli alberi crescono i giorni
in cui vivi il giubilo
e visibile ti fai
nella tua voce.
Ti cerchi nell’ombra
che ti sogna:
amico viandante tra i roveti.
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ATAHUALPA YUPANQUI
(Pergamino, Argentina 1908 – 1992)
IL POETA *
(El poeta)
Tu credi di essere diverso
perché ti dicono poeta
e hai un mondo a parte
più in là delle stelle.
Da tanto guardare la luna
ormai non sai più guardare.
Sei come un povero cieco
che non sa dove va.
Vattene a vedere i minatori,
gli uomini nei campi di grano,
e canta a quelli che lottano
per un pezzo di pane.
Poeta di tenere rime:
vattene a vivere nella selva,
e imparerai tante cose,
del boscaiolo e delle sue miserie.
Vivi vicino al popolo,
non guardarlo da fuori,
che primo è essere uomo
e secondo poeta.
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GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ
(Aracataca, Colombia 1927 – 2014)
DELL’AMORE E DI ALTRI DEMONI
(Del amor y otros demonios 1994)
Due
…
Dulce Olivia aveva un’intelligenza vivace e un buon carattere, e non era facile accorgersi che era pazza. Fin dalla prima volta in cui la vide, il giovane Ygnacio la notò fra il tumulto sulla terrazza, e quello stesso giorno si intesero a cenni. Lei, (…), gli mandava messaggi su colombelle di carta. Lui imparò a leggere e a scrivere per corrispondere con lei, e questo fu l’inizio di una passione genuina che nessuno volle capire. Scandalizzato, il primo marchese intimò al figlio di fare una pubblica smentita.
“Non solo è vero” gli replicò Ygnacio, “ma ho pure la licenza di lei per chiedere la sua mano.” E messo dinanzi all’argomento della pazzia rispose col suo:
“Nessun pazzo è pazzo se ci si adatta alle sue ragioni.”
Il padre lo esiliò nei suoi possedimenti con un mandato da padrone e signore che lui non si degnò di usare. Fu una morte in vita. Ygnacio aveva il terrore degli animali, meno che delle galline. Tuttavia, in campagna osservò da vicino una gallina viva, se la immaginò cresciuta fino alla dimensione di una mucca, e si rese conto che era un drago molto più spaventoso di qualsiasi altro della terra o dell’acqua. Sudava freddo nel buio e si svegliava senza aria all’alba per via del silenzio spettrale sui pascoli. Il mastino da caccia che vegliava senza battere ciglio davanti alla sua camera lo inquietava ancor più che gli altri pericoli. Lui l’aveva detto: “Vivo spaventato di essere vivo.” Nell’esilio acquisì il sembiante lugubre, l’andatura silenziosa, l’indole contemplativa, le movenze languide, il parlare indugioso, e una vocazione mistica che sembrava condannarlo a una cella di clausura.
Al primo anno dell’esilio lo svegliò un fragore come di fiumi in piena, ed era che gli animali della tenuta stavano abbandonando le loro tane fuggendo per i campi in silenzio assoluto sotto la luna piena. Travolgevano senza rumore tutto quanto sbarrava loro il passo in linea retta attraverso savane e canneti, torrenti e pantani. In testa c’erano le mandrie di bestie più grosse e muli e cavalli da monta e da passeggio, e dietro i maiali, le pecore, i volatili da cortile in una fila sinistra che scomparve nella notte. Persino gli uccelli da lungo volo, incluse le colombe, se ne andarono via. All’alba c’era solo il mastino, sempre al suo posto di guardia davanti alla camera del padrone.
Questo fu l’inizio dell’amicizia quasi umana che il marchese intrattenne con quell’animale e con i molti mastini che gli succedettero nella casa.
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MIGUEL ÁNGEL ASTURIAS
(Città del Guatemala 1899 – 1974)
ESSA LO DISSE IN UNA POESIA *
(Ella lo dijo en un poema)
Passa questa pena,
la pena della vita,
la pena che non importa,
tu l’hai sentita lunga,
io l’ho sentita breve
ed ora è distante
la terra promessa.
Al nostro passo errante
fatale è ogni sforzo,
ogni speranza è morta,
ogni illusione fallita.
Io vigilerò il tuo nome,
io veglierò il tuo sonno,
io aspetterò con te i primi albori,
io asciugherò il tuo pianto quando piangi con me,
e quando non vorrai più che io cammini con te
lasciami abbandonata come un chicco di grano
sopra i campi seminati…
Lasciami per sempre quando non mi ami più!
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ALFONSINA STORNI MARTIGNONI
(Sala Capriasca, Svizzera 1892 – Mar del Plata, Argentina 1938)
VERSI ALLA TRISTEZZA DI BUENOS AIRES
(Versos a la tristeza de Buenos Aires)
Tristi strade dritte, ingrigite e uguali,
da cui s’intravede, a volte, un pezzo di cielo.
le sue facciate scure e l’asfalto del suolo
mi spensero i tiepidi sogni primaverili.
Quanto vagai per quelle strade, distratta e fradicia
nel vapore grigiastro, lento, che le decora.
Della loro monotonia la mia anima soffre tuttora.
“Alfonsina!” Non chiamare. Ormai non rispondo a nulla.
Se in una delle tue case, Buenos Aires, muoio
vedendo in giorni d’autunno il tuo cielo prigioniero
per me sarà una sorpresa la lapide pesante.
Perché tra le tue strade dritte, inzuppate dal loro fiume
spento, brumoso, desolante e ombroso,
quando vagai per quelle strade già stavo sottoterra.
Da OCRE (1925)
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MARCELA SERRANO
(Santiago del Cile 1951 – )
DIECI DONNE
(Diez mujeres 2011)
FRANCISCA
Odio mia madre. Oppure odio me stessa. Immagino sia la ragione per cui mi trovo qui.
L’odio è stancante. Abituarsi non serve a nulla.
O meglio: una non ci si abitua mai.
Non so perché Natasha abbia chiesto a me di parlare per prima, mi vergogno un po‘ ad aprire le danze. Forse perché sono la paziente di più vecchia data. Nessuna di voi è in terapia da più anni di me! E poi sono davvero curiosa di conoscervi. Diciamolo chiaramente: qui la gelosia è palpabile. Mi sa che tutte quante siamo gelose le une delle altre. Ho notato come ci guardavamo quando siamo arrivate, la rigidità con cui ci siamo salutate, neanche fossimo campionesse che puntano alla medaglia d’oro e chiunque si trovi sulla tua linea di partenza è un rivale. Magari esagero, non fateci caso. La terapia ha questo di feroce: lo psicoterapeuta è uno solo per il paziente, ma non vale il contrario. Che ingiustizia! È la relazione meno equilibrata che si possa immaginare. Mi piacerebbe pensare che Natasha non voglia bene a nessuno come a me, e che nessuno la diverta quanto me, che per nessuno provi altrettanta pena o compassione, che da nessuno si lasci coinvolgere come da me. In fin dei conti, tutta l’interiorità che sono in grado di esprimere sta nelle sue mani, e la mia fantasia preferita è che lei riceva soltanto la mia. Come sopportare l’idea che riceva anche quella di tutte voi? Vi fa sentire amate e stimate come fa sentire me? Riesce a creare per ciascuna di voi lo stesso spazio tiepido, in quella sorta di rifugio antiatomico che è il suo studio?
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JORGE ARBELECHE
(Montevideo, Uruguay 1943 – )
L’ODORE
(El olor)
Come se solamente
il solo odore
della morte t’invadesse
l’odore della morte
è differente
dall’odore dei morti
l’odore della morte
abbatte la diga il muro la montagna
l’odore dei morti sa
di putrefazione
l’odore della morte sa
di paura
l’odore della morte
è privo di allegria
l’odore dei morti
copre il nostro odore
quello che abbiamo fiutato dai morti
l’odore della morte
non lo può mai
strappare.
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CIRCE MAIA
(Montevideo, Uruguay 1932 – )
IL MEZZO TRASPARENTE *
(El medio transparente)
La cosa migliore sarebbe non pensare troppo
ad esse, le parole. Esse vengono
così, o in un altro modo e non è tanto importante.
Vetri, finestre sono e per questo
bisognerebbe pulirle con attenzione, non dipingerle
– cosa vedresti dietro? – e non abbellirle.
Per vedere l’addobbo nella finestra
non hai visto di fuori.
Il più breve sguardo
sarebbe stato almeno sufficiente
per vedere la luce dall’altra parte
sì, questa luce di fuori
su un viso che passa.
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FRANCISCO COLOANE
(Quemchi, Cile 1910 – 2002)
I BALENIERI DI QUINTAY
(Golfo de Penas 1945)
LEGNA SECCA
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La Paumalín navigava con le macchine a tutta forza e la prua al vento del nord, solcando le onde che si stavano ingrossando. Passata la mezzanotte, ci trovavamo già a metà del Golfo di Ancud. Un acquazzone si rovesciò dal cielo cupo, abbattendosi sui boccaporti e sulla coperta con scrosci che le raffiche di vento disperdevano. La spuma delle ondate era l’unica fonte di un certo chiarore confuso sulla coperta, tra mare e cielo sempre più nero, e la sensazione era come ritrovarsi chiusi in una campana d’acqua percossa dall’alto e dal basso.
A un tratto il marinaio Cárcamo scorse un bagliore sulla crocetta di uno degli alberi.
“Dio mio, i fuochi di San Telmo…” esclamò Ulloa, il marinaio più anziano.
“Sono solo cauquiles, che diamine, non dica sciocchezze!” lo apostrofò il capitano Hernández, riferendosi ai protozoi fosforescenti scaraventati sulla coffa da qualche raffica d’acqua.
“Lei lo sa”, mi disse il capitano, “che i fuochi di San Telmo si accendono sulla coffa delle navi quando stanno per naufragare? È l’avviso del santo di prepararsi a morire; ma io non credo a simili scemenze, come quella che gli stregoni di Chiloé si sposterebbero da un’isola all’altra volando sull’acqua con una lanterna verde. Secondo me, sono anatre di mare e corvi che hanno cauquiles fosforescenti attaccati alle zampe.”
Il capitano si alzò e riprese in mano le caviglie del timone. Il Chúe e io rimanemmo accanto a lui; gli altri due marinai se ne stavano davanti all’oblò della cucina, intenti a scrutare il temporale. Questo continuò ad aumentare di intensità, e di lì a poco non avremmo più aperto bocca.
“Rinforzate gli ormeggi della scialuppa, indossate i salvagente e controllate le luci di posizione” fu l’ultimo ordine del capitano, mentre una strana ombra si materializzò lungo la murata di babordo della Paumalín.
Le caviglie del timone girarono vertiginosamente da una mano all’altra del capitano e la goletta virò in circolo verso tribordo, per evitare la collisione con l’ombra sconosciuta, che scarrocciava tra le onde.
Io non credo al Caleuche, il vascello fantasma; ma la strana imbarcazione cinerea in mezzo alla tempesta notturna mi parve simile all’apparizione del misterioso galeone della mitologia isolana, anche se quella sorta di trabiccolo, a metà tra una chiatta e una lancia chiloese, ne era a malapena una vaga imitazione.
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ROLANDO CÁRDENAS
(Punta Arenas, Cile 1932 – 1990)
MESSAGGIO DI PIETRA PER MAGELLANO
(Mensaje de piedra para Magallanes)
La fragranza di fibra
che permane nel tuo largo cuore di solitudini
da cui van nascendo navi e città.
E il vento, solo il vento
a cui non importa niente e galoppa
portando assiderate storie di sangue e fantasmi.
L’ostinata presenza della pioggia
che fa danzare acqua sola fino ad annegare l’aria.
Più a sud dell’inverno c’è la neve
che si ripete sempre inesauribile e sola.
Io ho nelle mie retine, io ricostruisco
i tuoi contorni di luce e di bufere,
e agli uomini che solo sanno del sole
do la tua geografia fatta a pezzi.
Io gli dico che vengo dalle tue spine dure
con un pugno di neve nelle mani
e un vento ribelle nei capelli.
Che nella tua crosta gelata l’aratro si angoscia.
Che il cielo è un immenso campanile
dove stanno i gabbiani e la grandine.
Che ci sono scogliere fatte di schiuma
dove il mare scolpisce i suoi bramiti
e che nella luna giacciono i pirati
che non poterono penetrare le tue acque.
Che a volte rabbrividisce la tua pampa solitaria
quando passa un gregge di pecore e latrati,
dove gli astri sognano vicino all’alba
ascoltando canzoni di piogge e ricordi.
Che dalla tua ampia finestra deborda il paesaggio
fino a dove mi avvicino per guardare gli uccelli.
Io ti ricordo così,
come una umida alberata,
come aggiungere alla pietra un più profondo silenzio
che spunta intatto tra alghe e gelidi meridiani.
Tutto è preparato per un oblio
dal giorno in cui milioni di gocce sollevarono l’acqua.
Non manca né la fugace presenza di soli e stagioni,
né forse il tuo complicato puzzle di canali e rocce,
né forse la tua architettura scoscesa e di orizzonti soli,
né il cielo che ti avanza,
né la bruma, nemica della luce.
Lì rimani, cadendo dalla mappa,
battendo la più agreste argilla della mia infanzia,
sostenendo la tua lontananza come se fosse un’aria,
sempre nell’atto di aspettare rondini.
Io ti ricordo così,
come un regalo non necessario del sole.
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OCTAVIO PAZ
(Città del Messico 1914 – 1998)
IL PONTE
(El puente)
Tra adesso e adesso,
tra io sono e tu sei,
la parola ponte.
Entri in te stessa
quando entri in lei:
il mondo si chiude
come un anello.
Da una sponda all’altra
sempre si stende un corpo,
un arcobaleno.
Sotto i suoi archi dormirò.
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ISABEL ALLENDE
EVA LUNA
(Eva Luna 1987)
Uno
Mi chiamo Eva, che vuol dire vita, secondo un libro che mia madre consultò per scegliermi il nome. Sono nata nell’ultima stanza di una casa buia e sono cresciuta fra mobili antichi, libri in latino e mummie, ma questo non mi ha reso malinconica, perché sono venuta al mondo con un soffio di foresta nella memoria. Mio padre, un indiano dagli occhi gialli, veniva dal luogo in cui si uniscono cento fiumi, odorava di bosco e non guardava mai direttamente il cielo, perché era cresciuto sotto la cupola degli alberi e la luce gli sembrava indecorosa. Consuélo, mia madre, aveva trascorso l’infanzia in una regione incantata, dove per secoli gli avventurieri hanno cercato la città d’oro puro vista dai conquistatori spagnoli allorché si affacciarono sugli abissi della loro ambizione. Quel paesaggio aveva lasciato in lei una traccia che in qualche modo riuscì a trasmettermi.
I missionari raccolsero Consuélo quando non sapeva ancora camminare,
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La Missioneera una piccola oasi in mezzo a una vegetazione voluttuosa, che cresce avviluppata su se stessa, dalla riva del fiume fino alla base delle monumentali torri geologiche, alte contro il firmamento come errori di Dio. Lì il tempo si è contratto e le distanze ingannano l’occhio umano, inducendo in errore il viaggiatore.
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Mia madre era una persona silenziosa, capace di confondersi fra i mobili, di smarrirsi nel disegno del tappeto, di non fare il minimo rumore, come se non esistesse; tuttavia, nell’intimità della stanza che condividevamo, si trasformava. Cominciava a parlare del passato o a raccontare le sue storie e la stanza si riempiva di luce, scomparivano le pareti per lasciare posto a incredibili paesaggi, palazzi zeppi di oggetti mai visti, paesi lontani inventati da lei o attinti alla biblioteca del padrone; mi deponeva ai piedi tutti i tesori dell’Oriente, la luna e altro ancora, mi riduceva alla grandezza di una formica per farmi sentire minuscola di fronte all’universo, mi metteva le ali per vederlo dal firmamento, mi dava una coda di pesce per conoscere il fondo del mare. Quando lei raccontava, il mondo si popolava di personaggi, alcuni dei quali divennero così familiari, che ancora oggi, dopo tanti anni, posso descriverne le vesti e il tono della voce. Serbava infatti i suoi ricordi di infanzia nella Missione dei frati, ricordava gli aneddoti ascoltati di sfuggita e quanto appreso dalle letture, elaborava la sostanza dei propri sogni e con quel materiale costruiva un mondo tutto per me. Le parole sono gratuite, diceva, e se ne appropriava: erano tutte sue. Lei seminò nella mia testa l’idea secondo cui la realtà non è solo come appare in superficie, perché ha una dimensione magica e, volendo, è legittimo esagerarla e colorirla per rendere meno noioso il passaggio attraverso questa vita. I personaggi convocati da lei nell’incantesimo dei suoi racconti sono gli unici ricordi nitidi che conservo dei miei primi anni, tutto il resto è svanito, avvolto in una nebbia dove si fondono i domestici della casa, l’anziano saggio accasciato nella sua poltrona inglese con ruote da bicicletta e la sfilata di pazienti e di cadaveri, di cui il dottore si occupava malgrado l’infermità. Il Professor Jones era sconcertato dai bambini, ma poiché era piuttosto distratto, quando si imbatteva in me in qualche angolo della casa, mi vedeva appena. Io lo temevo un poco, perché non sapevo se il vecchio fabbricasse gli imbalsamati o se fosse generato da loro, tanto sembravano della stessa stirpe di pergamena; ma la sua presenza non mi coinvolgeva, perché vivevamo in spazi diversi. Io mi aggiravo in cucina, nei cortili, nelle stanze di servizio, nel giardino, e quando accompagnavo mia madre nelle altre parti della casa, lo facevo con molta cautela nascondendomi nella sua ombra. La casa aveva tanti e così diversi odori, che io potevo percorrerla con gli occhi chiusi e indovinare dove mi trovavo; gli aromi di biancheria, cibo, carbone, medicinali, libri e umidità si univano ai personaggi dei racconti, arricchendo quegli anni.
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SUSANA CHÁVEZ
(Ciudad Juárez, Messico 1974 – 2011)
ROVINE
(Ruinas)
Sulle labbra cresce quest’edera
e la vecchia porta si chiude di colpo.
l’inverno si scopre
in un cammino lento
che porta con sé rumori che sfuggono nel tremito
di una mano che accarezza ritratti.
Brusca fine del viaggio,
che solo lascia completezza
in una sommessa nostalgia nascosta nella penombra.
Ormai nemmeno il vuoto si erge,
né la pietà si mostra allo specchio
ormai tutto fa dissolvere il respiro,
inclusa l’eternità.
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SILVIO RODRÍGUEZ
(San Antonio de los Baños, Cuba 1946 – )
IL PICCONE
(La maza 1979)
Se non credessi alla follia
che sta nella gola del merlo
se non credessi che nel monte
si nasconde il canto e la paura
Se non credessi alla bilancia
alla ragione dell’equilibrio
se non credessi nel delirio
se non credessi nella speranza.
Se non credessi in ciò che faccio
se non credessi nel mio cammino
se non credessi nel mio suono
se non credessi nel mio silenzio.
Cosa sarebbe, cosa sarebbe,
il piccone senza la cava
un impasto di corde e tendini
un ammasso di carne e legno
uno strumento senza altro splendore
che piccole luci sulla scena.
Che cosa sarebbe – amore mio – cosa sarebbe
che cosa sarebbe il piccone senza la cava.
Un prestanome del ladro di applausi
un servo antico in veste nuova.
Un sublimatore di divinità decadute
gioia mischiata a stracci e lustrini
che cosa sarebbe – amore mio – cosa sarebbe
che cosa sarebbe il piccone senza la cava.
Se non credessi in ciò che è difficile
se non credessi al desiderio
se non credessi in ciò in cui credo
se non credessi in qualcosa di puro.
Se non credessi in ogni ferita
se non credessi in ciò che lacera
se non credessi nel mistero
di diventare fratello nella vita.
Se non credessi in chi mi ascolta
se non credessi in quello che duole
se non credessi in quello che rimane
se non credessi in quello che lotta.
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LUIS SEPÚLVEDA
(Ovalle, Cile 1949 – )
IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D’AMORE
(Un viejo que leía novelas de amor 1989)
Capitolo Quarto
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Un bel giorno, insieme alle casse di birra e alle bombole di gas, il Sucre sbarcò un annoiato ecclesiastico, inviato dalle autorità religiose con la missione di battezzare i bambini e di mettere fine ai concubinati. Tre giorni rimase il frate a El Idilio, senza trovare nessuno disposto a portarlo nei piccoli villaggi dei coloni. Alla fine, annoiato per l’indifferenza della clientela, si sedette sul molo ad aspettare che la barca lo riportasse via da lì. Per ammazzare le ore della canicola tirò fuori dalla sacca un vecchio libro e cercò di leggere un po‘ prima di essere sopraffatto dal sopore.
Il libro nelle mani del religioso funzionò come esca per gli occhi di Antonio José Bolívar, che aspettò pazientemente finché il frate, vinto dal sonno, lo lasciò cadere di lato.
Si trattava di una biografia di San Francesco, che scorse furtivamente con la sensazione di commettere una specie di furtarello.
Metteva insieme le sillabe, e man mano che andava avanti l’ansia di capire tutto quello che c’era in quelle pagine lo portò a ripetere a mezza voce le parole afferrate ai volo.
Il religioso si svegliò e guardò divertito Antonio José Bolívar con il naso infilato nel libro.
“È interessante?” chiese.
“Mi scusi, eminenza. Ma l’ho vista addormentata e non ho voluto disturbarla.”
“Ti interessa?” ripeté il religioso.
“Sembra che parli molto degli animali” rispose lui timidamente.
“San Francesco amava gli animali. Amava tutte le creature di Dio.”
“Anch’io le amo. A modo mio. Lei conosce San Francesco?”
“No. Dio mi ha privato di questo piacere. San Francesco è morto moltissimi anni fa. O meglio, ha lasciato l’esistenza terrena e ora vive in eterno accanto al Creatore.”
“Come fa a saperlo?”
“Perché ho letto il libro. È uno dei miei preferiti.”
Il frate enfatizzava le parole accarezzando la rovinata copertina di cartone. Antonio José Bolívar lo guardava affascinato, sentendosi pungere dall’invidia.
“Ha letto molti libri?”
“Un certo numero. Prima, quando ero ancora giovane e non mi si stancavano gli occhi, divoravo ogni opera che mi capitava tra le mani.”
“Tutti i libri parlano di santi?”
“No. Nel mondo ci sono milioni e milioni di libri. Sono in tutte le lingue e toccano tutti i temi, compresi alcuni che dovrebbero essere vietati agli uomini.”
Antonio José Bolívar non capì quella censura, e rimase con gli occhi inchiodati sulle mani del frate, mani grassocce, bianche, sulla copertina scura.
“Di che parlano gli altri libri?”
“Te l’ho detto. Di tutti gli argomenti. Ce ne sono di avventure, di scienza, storie di esseri virtuosi, di tecnica, di amore…”
L’ultimo caso lo interessò. Dell’amore sapeva quello che dicevano le canzoni, specialmente i ballabili cantati da Julito Jaramillo, la cui voce di guayaquilegno povero sfuggiva a volte da una radio a pile rendendo taciturni gli uomini. Secondo i ballabili, l’amore era come la puntura di un tafano invisibile, ma ricercato da tutti.
“Come sono i libri d’amore?”
“Di questo temo di non poterti parlare. Ne ho letti appena un paio.”
“Non importa. Come sono?”
“Be‘, raccontano la storia di due persone che si incontrano, si amano e lottano per vincere le difficoltà che impediscono loro di essere felici.”
Il richiamo del Sucre annunciò il momento di salpare e lui non osò chiedere al frate di lasciargli il libro. L’unica cosa che gli lasciò fu un maggiore desiderio di leggere.
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CARMEN YÁÑEZ
(Santiago del Cile 1952 – )
PICCOLA STORIA
(Pequeña historia)
Uccelli senza nome
nascevano dalla sua bocca.
Alberi senza nome
in cui inciampava.
Ma l’uomo non era cieco
né sordo
e sentì il gracchiare
la nota primigenia.
Il vento produsse la tempesta
e cominciò la danza dei rami.
Da lì le stagioni
e tutto fu colore.
La festa fino all’alba
il suo cuore colmo
l’ebbrezza infinita.
Così cominciò la scrittura
il muto.
Pioveva a catinelle
dalla terra sorsero gli esseri
che parlavano per lui.
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MARIO BENEDETTI
(Paso de los Toros, Uruguay 1920 – 2009)
NON TI ARRENDERE
(No te rindas)
Non ti arrendere, ancora sei in tempo
per arrivare e cominciare di nuovo,
accettare le tue ombre,
seppellire le tue paure,
liberare il buonsenso,
riprendere il volo.
Non ti arrendere perché la vita è così,
continuare il viaggio,
proseguire i sogni,
sciogliere il tempo,
togliere le macerie,
e scoperchiare il cielo.
Non ti arrendere, per favore non cedere,
malgrado il freddo bruci,
malgrado la paura morda,
malgrado il sole si nasconda e taccia il vento,
ancora c’è fuoco nella tua anima,
ancora c’è vita nei tuoi sogni.
Perché la vita è tua e tuo anche il desiderio
perché lo hai voluto e perché ti amo
perché esiste il vino e l’amore, è vero.
Perché non vi sono ferite che non curi il tempo.
Aprire le porte,
togliere i catenacci,
abbandonare le muraglie che ti protessero,
vivere la vita e accettare la sfida,
recuperare il sorriso,
provare un canto,
abbassare la guardia e stendere le mani
aprire le ali
e tentare di nuovo,
celebrare la vita e riprendere i cieli.
non ti arrendere, per favore non cedere,
malgrado il freddo bruci,
malgrado la paura morda,
malgrado il sole tramonti e taccia il vento,
ancora c’è fuoco nella tua anima,
ancora c’è vita nei tuoi sogni
perché ogni giorno è un nuovo inizio,
perché questa è l’ora e il miglior momento.
Perché non sei sola, perché io ti amo.
.
MARCELA SERRANO
DIECI DONNE
(Diez mujeres 2011)
FRANCISCA
…
Esistono due maschi nella mia vita, solo due. Mio marito e il mio gatto. Sono giunta alla conclusione che entrambi rispondono ai medesimi parametri e c’è qualcosa d’insano nel mio modo di amarli.
Il mio gatto è antipatico. È enorme, obeso, tigrato tra il rossiccio e il giallo (lo chiamo la mia tigre, anche se le bambine mi prendono in giro). Non v’è dubbio che mi ami, ma è sempre pronto a scappare, come se fuori casa fosse tutto più bello. Fatico parecchio a trattenerlo, mi fa rabbia che viva come un pascià a spese mie: è padrone di una casa che gli offre cibo, affetto e calore, e in più ha tutti i tetti dell’isolato per andarsene in giro ad azzuffarsi. È un lottatore nato. Torna sempre con qualche ferita, graffi, sporco di sangue, ciuffetti di pelo in meno. Io mi prendo cura di lui più che di me stessa. Lo disinfetto con il Bialcol, lo porto dal veterinario per un nonnulla. Ogni sera scendo in strada e comincio a chiamarlo. A volte lo faccio tardi, già in pigiama, e le mie figlie fanno finta di non conoscermi. Non riesco a prendere sonno se non torna, e mi alzo dal letto mille volte finché non lo stringo fra le braccia. Qualcuno potrebbe dire che amare un gatto così è una perdita di tempo, invece non è vero: quando vuole è il gatto più dolce del pianeta. E la cosa più sorprendente è che quando lo chiamo mi risponde. Lo fa soltanto con me e con nessun altro. Mi risponde sempre, perciò alla fine lo trovo sempre. Mettiamola così: se non fosse per questa sua peculiarità – e nessuno può negare che lo sia – l’avrei perduto un sacco di tempo fa. La mia tenacia unita al suo comportamento singolare ci ha consentito di vivere insieme per quasi otto anni. Dorme insieme a me, e verso metà notte solleva una zampa – come fosse una mano – e mi fa una carezza sulla guancia. Quando ho freddo, me lo stringo contro e lui si lascia andare, docilmente.
È anche un vigliacco: fuori, in strada, è attaccabrighe, ma se in casa sente un rumore insolito, corre subito a nascondersi. Quando qualcuno suona il campanello, se la voce dietro la porta è maschile, si spaventa a morte, schizza in camera mia e s’infila sotto il copriletto. (…). Senza dubbio ha la fobia degli uomini. E poi è arrogante. Situazione tipica: la mattina parte per le sue scorribande e non rientra prima dell’alba. Nel frattempo io sono diventata matta a cercarlo ovunque, mi dispero all’idea che sia stato investito da un’auto a dieci isolati da casa, quando eccolo che arriva tutto pimpante, mi guarda fisso con grande superiorità e se potesse parlare mi direbbe, senza ombra di pentimento: “È tutta colpa tua.”
Be‘, quando mi domandano come mai, fra tutti i gatti dell’universo abbia scelto quello che mi fa più soffrire, rispondo: credetemi, ne vale la pena. Mi vuole bene.
Esattamente quello che direi di Vicente.
…
.
ÓSCAR CASTRO ZÚÑIGA
(Rancagua, Cile 1910 – 1947)
COLLOQUIO DEL FLAUTO E DEL VENTO *
(Coloquio de flauta y viento)
Luna dagli spigoli bagnati,
ingentilita di vento e alba.
Strade dagli angoli nudi.
Case dalle finestre cieche.
Ad un cantone senza nessuno
il vento incontrò il flauto;
sull’acqua della musica
gli morirono le ali
e si vestì di colori
come un paese su una mappa.
Per i marciapiedi deserti
andavano il vento ed il flauto.
Poiché il vento era ferito,
la musica lo portava.
Andavano cercando gli occhi
dei bambini che sognavano
per lambirli di azzurro
con la loro sottile carezza.
Con la freschezza del canto
gli uomini si destavano
e si riaddormentavano,
tra il suono e l’alba.
Spezzò il suo bastone la musica;
il vento ruotò cercandola.
La strada rimase imbronciata
come una cattiva parola.
Dei galli sbatterono le ali
perché il canto volasse.
Sulla coperta del giorno
si sfogliarono campane.
Da STRADA ALL’ALBA
.
ALFREDO LE PERA
(São Paulo 1900 – 1935)
VOLVER *
(1935)
Io indovino l’ammiccare
delle luci che da lontano
van segnando il mio ritorno.
Sono le stesse che illuminarono,
con i loro pallidi riflessi,
profonde ore di dolore.
E malgrado non abbia desiderato il ritorno,
sempre si torna al primo amore.
La strada tranquilla dove l’eco disse:
“Tua è la sua vita, tuo il suo amare”,
sotto lo sguardo beffardo delle stelle
che oggi con indifferenza mi vedono tornare.
Tornare… con la fronte sfiorita,
le nevi del tempo
inargentarono le mie tempie.
Sentire… che è un soffio la vita,
che vent’anni non sono nulla,
che febbrile lo sguardo
errante tra le ombre
ti cerca e ti chiama per nome.
Vivere… con l’anima aggrappata
a un dolce ricordo
che piango un’altra volta.
Ho paura dell’incontro
col passato che torna
a confrontarsi con la mia vita.
Ho paura delle notti
che, abitate da ricordi,
incatenano il mio sognare.
Ma il viaggiatore che fugge,
presto o tardi arresta il suo camminare.
E anche se l’oblio che tutto distrugge,
ha ucciso la mia vecchia illusione,
conserva nascosta un’umile speranza
che è tutta la fortuna del mio cuore.
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OSVALDO SORIANO
L’ORA SENZ’OMBRA
(La hora sin sombra 1995)
11.
Mio padre non aveva mai voluto un domicilio fisso e poiché era appassionato di cìnema aveva cominciato a fare il rappresentante della Paramount. Andava da un paese all’altro, dal deserto alla selva, dal caldo alla neve. Era come se camminasse davanti ai propri passi, anche se forse non faceva altro che fuggire.
…
Ricordo come se fosse ieri quando era tornato dal Cile. Mia madre aveva preparato una festicciola per le sue amiche e a un tratto bussarono alla porta. Teneva in bocca un sigaro enorme che gli spargeva aureole di fumo tutt’attorno; era elegantissimo, con un soprabito cammello, il cappello marrone, un doppiopetto e scarpe lucide. Gli mancava soltanto di mettersi a distribuire sigari e accenderli con biglietti da mille. Andò a baciare mia madre, anche se quella era una storia conclusa, e appena mi vide spalancò le braccia e mi sollevò fin quasi al soffitto. “Domani lo riporto”, disse a mia madre. Salimmo su una Buick nuova fiammante che lo aspettava alla porta e ci volle una settimana prima che tornassimo.
Andavamo da un cìnema all’altro e credo che quelli siano stati i giorni in cui ho imparato di più. Mi comprava una scatoletta di noccioline al cioccolato e non appena si spegnevano le luci mi lasciava nella prima fila in modo che nessuno mi coprisse lo schermo. Se ne andava in cabina, ma io sapevo che non si dimenticava di me perché in un momento qualunque della proiezione il Corsaro Nero compariva sullo schermo ricoprendo le altre immagini. Era il segnale convenuto perché io lo raggiungessi. Appoggiava la spilla della cravatta sulla lente della macchina da proiezione e quello che io vedevo sullo schermo era l’ombra del Corsaro. La cosa era tanto veloce che gli spettatori non facevano nemmeno in tempo a protestare mentre io prendevo il corridoio buio segnato appena dalle lucine sul pavimento. Percorrevo la salita camminando all’indietro per guardare l’ultima scena e congedarmi dai personaggi. Così scoprii i baci appassionati e l’indimenticabile momento in cui Frankenstein si convince che i mostri sono gli altri. Anni dopo, mio padre mi raccontò che il primo film che aveva visto in vita sua era stato Dracula con Bela Lugosi e che per molto tempo il suo mondo era stato teso e oscuro come quel film. Da allora mi domando se non somigliamo alle prime storie che ci raccontano, se per caso le cose non sono semplici fino a questo punto.
Come poteva aver fatto mio padre a procurarsi la Buick, il sigaro, le scarpe lucide e oltretutto a riacquistare il sorriso? Se n’era tornato tutto avvolto nelle volute di fumo, come se uscisse dalla lampada di Aladino, e nessuno poteva immaginare che con l’aiuto di zio Gregorio aveva fatto saltare il banco al casinò di Viña del Mar.
Il terzo giorno che giravamo per i cìnema ci fu un black-out al centro. Potevano essere le sei di un pomeriggio d’inverno e il traffico cominciò a bloccarsi dietro ai tram e ai filobus paralizzati. Il direttore della sala disse che los peronchos, quei figli di puttana dei seguaci di Perón, dovevano aver fatto saltare i piloni dell’elettricità. Il cìnema rimase al buio e la gente cominciò a fischiare e a cercare l’uscita a spintoni. Mi invase un panico profondo, cominciai a piangere forte finché a un tratto dall’altoparlante uscì la voce di mio padre. Non spiegò quello che stava succedendo, non si preoccupò affatto del pubblico; si rivolse soltanto a me, con la sua voce pacata e densa. Mi diceva di rimanere tranquillo, il Corsaro Nero stava già venendo in mio aiuto. E fu così che per la seconda volta in pochi giorni mi apparve davanti quasi per magia. Aveva una pila e la brace del sigaro brillava davanti a lui come la stella che guida i Re Magi.
“È passata”, mi disse all’orecchio. “Il Corsaro Nero è qui”.
…
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ALFONSINA STORNI MARTIGNONI
DUE PAROLE
(Dos palabras)
All’orecchio questa notte mi hai detto due parole
comuni. Due parole stanche
di essere dette. Parole
che da vecchie son nuove.
Due parole così dolci, che la luna che passava
filtrando tra i rami
nella mia bocca si è fermata. Due parole cosi dolci
che una formica mi cammina sul collo e non cerco
di muovermi per mandarla via.
Due parole così dolci
che senza volerlo dico : “Oh che bella vita!”
Così dolci e così mansuete
che oli profumati scorrono sul corpo.
Così dolci e così belle
che, nervose, le mie dita
si muovono verso il cielo imitando una forbice.
Oh, vorrebbero le mie dita
tagliare le stelle.
Da IL DOLCE DANNO (1918)
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GABRIELA MISTRAL
(Vicuña, Cile 1889 – 1957)
DAMMI LA MANO *
(Dame la mano)
A Tasso de Silveira
Dammi la mano e danzeremo;
dammi la mano e mi amerai.
Saremo come un fiore solo,
come un fiore, e niente più…
Canteremo lo stesso verso,
allo stesso passo ballerai.
Come una spiga ondeggeremo,
come una spiga e niente più.
Ti chiami Rosa ed io Speranza;
ma dimenticherai il tuo nome
perché saremo una danza
sulla collina, e niente più…
* (Traduzione di Ezio Beccaria)
9 Gennaio 2014