E ATTORNO LA VOCE DEL DESERTO

LETTURE DA AUTORI ISRAELIANI

(Scelte da Ezio Beccaria)

Nel mio cuore

nel mio corpo

nel mio spirito

nel mio grembo

la nostra terra

è il nostro sangue

la nostra anima

la nostra vita.

David Broza

(Haifa,  Israele 1955 – )

AMOS OZ

(Gerusalemme 1939 – )

C’era come la sensazione che mentre gli uomini vanno e vengono,  nascono e muoiono,  i libri invece godono di eternità.  Quand’ero piccolo,  da grande volevo diventare un libro.  Non uno scrittore,  un libro:  perché le persone le si può uccidere come formiche.  Anche uno scrittore,  non è difficile ucciderlo.  Mentre un libro,  quand’anche lo si distrugga con metodo,  è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale,  una vita eterna,  muta,  su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik,  Valladolid,  Vancouver 

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MEIR SHALEV

(Nahalal,  Isralele 1948 – )

PER AMORE DI UNA DONNA
(1994)

 

Un immenso eucalipto svettava nel cortile,  la chioma ampia,  profumata e perennemente frusciante. Nessuno sapeva chi l’avesse piantato,  o quale vento ne avesse portato il seme.  Più grande e più vecchio di tutti i suoi fratelli boschivi era l’eucalipto del cortile,  che stava lì ad aspettare ancora prima che il villaggio fosse fondato.  Più di una volta lo scalai,  perché i corvi nidificavano sui rami più alti e già a quell’epoca mi interessavano le loro abitudini.
Mia madre è ormai morta e l’albero è stato tagliato tempo fa,  la stalla è diventata una casa,  mentre i corvi vanno e vengono,  tornano alla polvere e sbucano dalle uova.  E tuttavia,  quei corvi,  quelle storie,  la stalla e l’eucalipto sono le àncore,  indelebili immagini della mia vita.
L’albero era alto una ventina di metri,  con un nido di corvi quasi in cima,  e nel folto dei rami più bassi si vedevano i resti della “casa di Tarzan” dei bambini arrampicatisi qui ancora prima che io nascessi.
Nelle vecchie foto aeree dell’aviazione inglese e nelle storie della gente del posto,  esso appare inconfondibile,  mentre oggi non ne resta altro che un ceppo sproporzionato,  con la data del taglio incisa sopra come fosse una morte su una lapide:  10 febbraio 1950.  Moshe Rabinovich,  nel cui cortile di casa sono cresciuto e nella cui stalla abito,  l’uomo che mi ha dato il nome e mi ha lasciato in eredità la sua fattoria,  tornato dal funerale di mia madre affilò la sua grande ascia e mise a morte l’albero.
Per tre giorni interi Rabinovich continuò a tagliare.
Per un’infinità di volte l’accetta si alzò e ridiscese.  L’uomo tagliava,  gemeva e brandiva,  sospirava e colpiva.  Era basso,  taciturno e corpulento,  Rabinovich,  con delle mani tozze.  Ancora adesso,  che è vecchio,  la gente del paese lo chiama “Rabinovich la bestia”,  per via della sua forza e della pazienza, (…).
Trucioli e sospiri abitavano l’aria,  lacrime e sudore colavano,  fiocchi di neve svolazzavano tutt’intorno,   (…).

A denti stretti,  le dieci dita avvinghiate all’arma,  il suo respiro lamentoso alitò nel freddo,  sinché si udì il cigolio che preannunciava il grande crollo,  accompagnato dal sospiro sonoro della folla,  simile al mormorio che si levava al centro sociale quando si spegnevano le luci,  ma più forte e più spaventato.
E poi grida di sconcerto e scalpiccio di passi in fuga e poi il rumore della morte,  per il quale non c’è metafora che tenga e allora tanto vale raccontarlo così com’è:  il frastuono della caduta e morte di un albero immenso,  che chi l’ha mai sentito non se lo scorda più per tutta la vita – lo scricchiolio,  il tonfo,  lo schianto al suolo.
Nulla a che vedere con i suoni di una morte umana,  ma in fondo anche quelli della vita dell’uno e dell’altro sono suoni affatto diversi,  e silenzi diversi lasciano dietro di sé,  quando non ci sono più.
Quello dell’albero mozzato è un silenzio che sa di sipario oscuro,  ben presto squarciato dagli schiamazzi della gente,  dagli aliti taglienti di vento,  dai versi degli uccelli e del bestiame.  Mentre il silenzio che avvolse il mondo alla morte di mia madre era sottile e limpido,  dal nucleo cristallino,  indelebile.

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YEHUDA AMICHAI

(Würzburg 1924 – Gerusalemme 2000)

MIA MADRE CUOCEVA NEL FORNO IL MONDO INTERO

Mia madre cuoceva nel forno il mondo intero per me

in dolci torte.

La mia amata riempiva la mia finestra

con uva passa di stelle.

E le nostalgie sono racchiuse in me come bolle d’aria

nel pane.

Esternamente sono liscio,  silenzioso e bruno.

Il mondo mi ama.

Ma i miei capelli sono tristi come i giunchi nello stagno

che va prosciugandosi.

Tutti i rari uccelli dalle belle piume

fuggono via da me.

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SHIFRA HORN

(Tel Aviv,  Israele 1951 – )

INNO ALLA GIOIA
(Himmon la-śimḥah   2004)

 

4.  Così fu sera,  poi mattina:  terzo giorno

“Per quanto ci sforziamo,  non riusciremo mai a descrivere le tragedie a parole”,  così mi aveva detto una volta mio padre quando gli avevo chiesto per l’ennesima volta cosa avesse vissuto nei campi di concentramento.  Determinata a scoprire quel che mi nascondeva,  un giorno avevo frugato tra le sue cose e nel cassetto del suo comodino avevo trovato,  nascosta sotto a un vecchio giornale,  una fotografia ingiallita.  Una bella bambina di circa tre anni vestita alla marinara mi sorrideva,  la testa ornata da un gran nastro che le ombreggiava il visino lentigginoso come il mio e i capelli chiari che scendevano in boccoli alla ShirleyTemple.  Sapevo che questa bambina,  che per tutti quegli anni mi era stata nascosta nel buio di un cassetto,  rivaleggiava con me per ottenere le attenzioni di mio padre.  Sapevo che lui pensava a lei,  di notte guardava la sua fotografia,  e senza sapere perché sentivo che lei era importante per lui quanto lo ero io.  Non avevo potuto trattenermi e gli avevo mostrato la fotografia chiedendogli chi fosse quella bambina ma lui non mi aveva risposto.  L’avevo provocato scherzando sull’enorme fiocco che aveva in testa,  e lui me l’aveva strappata di mano immediatamente dicendomi di non osare mai più frugare tra le sue cose.  Quand’ero scoppiata a piangere mi aveva preso subito tra le braccia,  mi aveva accarezzato la testa e cercato di calmarmi (…),  e mi aveva promesso che nessuno mi avrebbe portato via da lui.  Gli avevo chiesto:  “Chi vuole portarmi via da te?”,  e lui aveva affondato il naso tra i miei capelli,  annusato il mio odore e detto che i miei capelli avevano un buon profumo.  Ancora oggi posso sentire i suoi respiri pesanti che mi fanno il solletico in testa.

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RAMI SAARI

(Petah Tiqwa,  Israele 1963- )

POPOLO

I nostri poemi sono belli e tristi:

invano allontaniamo dalle nostre feste l’oscurità.

Mangiamo frutta secca in memoria

delle verdi colline che abbiamo perso.

 

Azzurro e bianco è il cielo semitico,

e la nostra terra è nera e rossa

come la storia che stiamo ancora vivendo,

come i vestiti di una nuda regina.

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YAAKOV SHABTAI

(Tel Aviv 1934 – 1981)

IN FINE
(Sof davar   1984 postumo)

PRIMA PARTE

 

   A quarantadue anni,  poco dopo la festa delle Capanne,  Meir fu colto dal terrore della morte a seguito della constatazione che essa era parte sostanziale della sua vita la quale,  raggiunto il suo apogeo,  era ormai in fase calante:  la morte si stava rapidamente avvicinando lungo una linea retta e inevitabile,  tale che la distanza fra loro due,  che solo qualche giorno prima per non parlare dell’estate appena trascorsa gli era parsa come un sogno remoto – quasi infinita -,  si era talmente ridotta da poterla agevolmente delimitare,  calcolare con il metro della quotidianità,  per esempio:  quante paia di scarpe si sarebbe ancora comprato o quante volte sarebbe ancora andato al cìnema,  e con quante donne (senza contare sua moglie) sarebbe ancora andato a letto.  Questa consapevolezza,  che lo riempiva di sgomento e disperazione,  era affiorata nel giro di una settimana dal monotono intruglio della sua vita normale,  senza alcuna apparente ragione,  come fosse una leggera,  dapprima impercettibile fitta che,  filtrata chissà come nei tessuti interni,  s’era poi propagata e ingrossata sino a diventare una morsa tenace.  E così,  da quando si svegliava la mattina,  ancora con gli occhi chiusi sotto le coperte accanto a sua moglie Aviva,  fino a quando la notte non s’addormentava,  a parte effimeri momenti di precario sollievo,  non faceva altro che stendere il bilancio della propria vita e misurare la distanza che ancora lo separava da quella morte,  cha a volte si tratteggiava nella sua mente come un giorno di primavera inondato di luce in cui sua moglie,  Posner e qualche altro amico (…) passeggiavano in fondo a via Diezengoff in sua assenza,  un’assenza perenne,  definitiva.  Lui si vedeva come un contorno vuoto ritagliato a sua immagine fra di loro nell’aria,  a volte anche come il cancello dipinto di rosso minio tutto impolverato e decorato con comuni motivi floreali,  infisso nel muro di pietra di un cimitero che aveva visto nei pressi di Nazaret,  (…).

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RONNY SOMECK

(Bagdad,  Irak 1951 – )

CANTO DI FELICITÀ

Noi sulla torta in posa

come le statuine,  sposo e sposa.

E se il coltello si insinuerà

ci impegneremo a rimanere

nella stessa fetta.

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AMOS OZ

NON DIRE NOTTE

(Al taghidi layla   1994)

   Sono le sette di sera e lui è seduto sul balcone di casa,  al terzo piano.  Guarda il giorno che muore e aspetta:  chissà che cosa promette l’ultima luce,  che cosa ha in serbo.

Ha davanti il cortile deserto con la sua striscia di erba,  qualche oleandro,  una panchina e un pergolato di buganvìllea abbandonato a se stesso.  Il cortile finisce con un muro di pietra su cui si delinea il profilo di una porta successivamente murata.  Le pietre nel buco della porta sono più chiare,  adesso gli sembrano persino un po’ meno pesanti delle altre.  Oltre il muro si ergono due cipressi.  Nella luce della sera hanno un colore che è nero,  non verde.  Oltre si dispiegano colline desolate:  laggiù c’è il deserto.  Laggiù un mulinello grigio s’alza a tratti,  freme un istante,  si contorce,  corre,  cala.  Torna in qualche altrove.

Il cielo ingrigisce.  Qualche nuvola ferma,  una di esse riflette debolmente la luce del sole che cala.  Del resto dal balcone non si vede.  Sul muro di pietra in fondo al cortile un uccellino s’agita come se avesse appena scoperto qualcosa d’incontenibile.  (…).

Cala la notte.  In città s’accendono i lampioni e le finestre:  fra un lembo e l’altro di buio.  Il vento aumenta e con lui arriva odore di cenere e polvere.  Il chiaro di luna distende una maschera mortuaria sulle colline nei pressi,  come se non fossero più colline ma note basse.  Questo posto è per lui la fine del mondo.  Non che ci stia male,  alla fine del mondo.  Ha ormai fatto quel che poteva fare,  d’ora in poi aspetterà.

 

Quando per un istante cessa il mormorio del motore dentro il frigo,  si odono i grilli nel uadi:  punteggiano il silenzio.  Entra una lieve brezza,  sfoglia le tende,  fruscia tra il giornale sul ripiano,  respira per tutta la stanza,  fa tremare il fogliame della pianta e torna al deserto passando per la finestra opposta.  Per un attimo lui si abbraccia le spalle.  Quel piacere gli rammenta il sapore di una sera estiva in una città vera,  forse Copenhagen,  dove è stato una volta per due giorni.  Lassù la notte non piomba,  invece viene piano piano.  Il velo del crepuscolo dura,  lassù,  tre anche quattro ore,  a lui sembrava quasi che la sera volesse sfiorare l’alba.

 

I cani riprendono ad abbaiare,  questa volta con impeto,  con furia:  abbaiano nei cortili e negli spiazzi aperti ma anche nel uadi e oltre,  dal buio remoto,  dalle alture,  cani pastore dei beduini,  e cani randagi,  avranno fiutato una volpe,  ecco un latrato si trasforma in un ululato e un altro gli risponde,  penetrante,  disperato,  come perso per sempre.  Indifferente.  Vitreo.  Né morto né vivo.  Presente.

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MAYA BEJERANO

(Kibbutz Elon,  Israele 1949 – )

IL FIORE DELLA LIBERTÀ

Se tu vivessi a casa mia con me,

e io vivessi insieme a te nella tua casa

potrei far scorrere la dolce fronda di caprifoglio

fra le dita dei tuoi piedi senza smettere la notte intera

e suscitare quel tenero sorriso di lenta guarigione

respingere il tuo male – il male che ti fiacca il corpo

e che ha sepolto in un fondo oscuro il tuo ardore.

D’altro canto,  se vivessi a casa tua con te

e tu vivessi con me nella mia

non sarebbe stata colta una dolce fronda di caprifoglio

sulla mia via verso te.

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ABRAHAM B. YEHOSHUA

(Gerusalemme 1936 – )

IL SIGNOR MANI

(Mar Mani.  Roman Sikhoth   1990)

Primo dialogo

(…) martedì (…) sono andata a Gerusalemme,  e anche se quando sono partita da Tell Aviv,  alle cinque,  il cielo era ancora tutto chiaro e luminoso,  quando sono arrivata a Gerusalemme era già tutto buio e intorno c’era una nebbia così fitta,  e pioveva,  una pioggerellina fine come se fosse di ghiaccio e questa volta,  per colpa del buio ho sbagliato e sono scesa dall’autobus una fermata prima di dove dovevo scendere,  invece di scendere nel quartiere Emek Refaim sono scesa prima,  in un posto che si chiama Talbieh,  ma non me ne sono pentita perché mi sono trovata come in una città europea,  in una grande e vasta piazza con tutt’attorno bellissime case di pietra che alla luce dei lampioni parevano splendide e incantate,  con certi grandi atri,  e terrazze e balaustrate,  e cortili interni pieni di cipressi…  una cosa pazzesca…

 

(…) non solo il Presidente della Repubblica,  (…),  anche il Capo del Governo,  e il Ministro degli Esteri,  tutti quanti abitano non lontano da quella piazza grande,  bellissima,  e io,  invece,  sarei passata di lì senza farci caso se non fosse stato per via di un poliziotto che stava seduto in una guardiola,  e mi sono rivolta a lui perché mi indicasse la strada e gli  ho chiesto anche a cosa faceva la guardia,  e lui mi ha indicato la palazzina del Presidente,  mi ha perfino permesso di gettare uno sguardo tra le sbarre del cancello,  e tutt’a un tratto ho avuto un’impressione proprio meravigliosa,  (…),  ho sentito che ero penetrata nel cuore stesso della città…

(…) lì non c’ero mai stata…  fin da quando mi ricordo,  mi hanno portata sempre a Gerusalemme insieme ad altri bambini o ad altre soldatesse,  sempre per qualche cerimonia,  o per sentire conferenze,  sempre per visitare un museo o scavi archeologici,  o per correre sulle mura della Città Vecchia in un giorno di afa dietro a una guida noiosissima,  e perfino se si dormiva a Gerusalemme era sempre ai margini della città,  sotto il monte Herzl,  o in quel bosco pauroso di Yad-Vashem,  sempre in qualche ostello per la gioventù,  e mai proprio dentro la città,  nel suo cuore autentico.  Così,  con l’aiuto del poliziotto di guardia alla palazzina del Presidente,  non sono ritornata verso la fermata dell’autobus,  ma ho preso una scorciatoia che scende verso Emek Refaim,  (…).

 

(…),  avevo notato quel nome:  Emek Refaim,  “La Valle dei Fantasmi”,  e avevo pensato che solo alla gente di Gerusalemme non dà nessuna noia vivere in un posto con un nome così spaventoso,  quelli di Tell Aviv si sarebbero ribellati già da un pezzo.

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YEHUDA AMICHAI

SGUINZAGLIARE RICORDI

In questi giorni penso al vento fra i tuoi capelli,

agli anni che fui nel mondo prima di te

e all’eternità che prima di te andrò ad incontrare,

ai proiettili che non mi uccisero in battaglia

ma uccisero i miei amici,

di me migliori perché

non vissero oltre con me,

penso a te nuda davanti al fornello d’estate,

sul libro curva per leggere meglio

nella luce morente del giorno.

Vedi,  abbiamo vissuto più di una vita,

ora dobbiamo pesare ogni cosa

sulla bilancia dei sogni e sguinzagliare

ricordi che divorino ciò che fu il presente.

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SHIFRA HORN

INNO ALLA GIOIA

6.  Così fu sera,  poi mattina:  quinto giorno

   Provai compassione per mio padre tradito da mia madre,  come se lei avesse aspettato pazientemente che lui uscisse dalla sua vita per potersi dare alla pazza gioia con altri uomini.  Come poteva fare questo a un uomo che l’aveva amata così tanto?  Piansi per mio padre,  consapevole di aver cominciato ad essere in lutto per lui quando ancora era vivo,  molti anni prima che morisse.  Qualcosa in lui era fragile e fuggevole,  come se fosse sempre stato in bilico tra la vita e la morte.  Sebbene avesse imparato a ridere,  potevo sentire nella sua voce gli spiriti della sua famiglia morta dalla quale non si era mai separato.  La sua vita in questo mondo era senza radici,  una breve fermata temporanea che lo avrebbe condotto al momento più importante per lui,  quello in cui avrebbe di nuovo incontrato i suoi morti,  così mi aveva confessato una volta in un momento di intimità:  poi si era pentito e mi aveva chiesto di dimenticare quel che aveva detto.

 

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AHARON SHABTAI

(Tel Aviv 1939 – )

A UN PILOTA

Pilota,  la prossima volta

che voli sopra Jenin

con il tuo elicottero,

ricordati dei bambini,

ricordati delle vecchiette

che stanno dentro le case che bombarderai.

Spalma sui tuoi missili

uno strato di cioccolata,

e sforzati di fare centro.

Così che abbiano almeno

un ricordo dolce

quando i muri crolleranno.

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DAVID GROSSMAN

(Gerusalemme,  Israele 1954 – )

QUALCUNO CON CUI CORRERE

(Misheu laruz ito   2000)

Io e la mia ombra ci siamo messi in cammino

“ (…)!  Se,  per esempio,  c’è un bellissimo film al cìnema io dico subito:  Tamar!  Per favore,  vai al posto mio.  Eccoti del denaro.  Portati magari un’amica,  torna presto e raccontami tutto,  fotogramma per fotogramma.  E così lei si diverte e anch’io ne traggo vantaggio.”

Nella mente di Assaf balenò un pensiero:  “E lei non ha mai visto un film?”.

“No.  E nemmeno questa novità,  la televisione,  nemmeno questa.”

I tasselli del mosaico cominciavano a comporsi.  “E lei…  Ha detto che non esce da qui,  vero?”.

Teodora scosse la testa e lo guardò sorridendo,  seguendo il filo del pensiero che cominciava a dipanarsi nella sua mente.

“In altre parole…  non è mai uscita da qui”  ripeté Assaf meravigliato.

“Dal giorno in cui sono arrivata in Terra Santa”  ammise la suora con una punta d’orgoglio.  “Sono stata portata qui quand’ero ancora un tenero agnellino di dodici anni.  Da allora sono passati cinquant’anni.”

“Lei è qui da cinquant’anni?”  la voce di Assaf assunse una sfumatura infantile.  “E non è mai…?  Un attimo,  nemmeno in cortile?”

Teodora scosse la testa.  Di colpo ad Assaf parve insopportabile trovarsi in quel posto.  Avrebbe voluto alzarsi,  aprire una delle grandi finestre e lanciarsi fuori nel trambusto della strada.  Guardò la monaca,  inorridito,  pensando che in fondo non era tanto vecchia.  Non era nemmeno molto più anziana di suo padre.  Era solo per via della clausura che aveva quell’aspetto di bambina attempata,  invecchiata di colpo senza aver veramente vissuto.

Lei aspettò con pazienza che il ragazzo finisse di pensare tutto ciò che voleva sul suo conto,  poi disse in tono sommesso:  “Tamar ha trovato una frase molto bella per me in un libro:  ‘Felice colui che può rimanere chiuso solo dentro una stanza’.  A giudicare da questa frase io dovrei essere una persona felice…”  le sue labbra si curvarono un po’,  “molto felice.”

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RAMI SAARI

SUL LUOGO E L’UOMO

Quando i cani dei vicini scendono nel patio

e i gatti scappano,

“La Nazione è col Golan!”

ed io col mio malumore.

Abbiamo ancora la nostra terra

della quale formeremo parte.

Tutte le terre che non sono nostre

sono pascoli dei greggi di Dio.

 

Prendi una pietra e mettila qui.

Qualsiasi luogo è adeguato per una tomba.

Perché quando arriva la Grande,  l’Ultima,  l’Attesa,

giunge senza preavviso.

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YAAKOV SHABTAI

IN FINE

PRIMA PARTE

 

Quando un bel giorno era arrivato in Israele per restarci,  la cosa era parsa oltremodo balzana,  perché tutti i suoi conoscenti e gli amici di gioventù  che vivevano lì e che in fondo erano piuttosto pochi,  s’erano ormai dimenticati di lui e comunque non avrebbero mai scommesso sui suoi legami con l’ebraismo per non parlare di un eventuale trasporto sionistico,  era ancora da vedere se si poteva contare sul suo senso dell’amicizia,  che s’era bruscamente risvegliato con il sopraggiungimento della vecchiaia,  infatti persino i suoi due fratelli e le tre sorelle che stavano in America lo vedevano soltanto di rado,  e per puro caso,  e non aveva alcun legame con la comunità ebraica o con alcuna altra forma di vita ebraica,  e così dopo cinquant’anni vissuti in America fra americani e irlandesi e messicani,  era diventato una specie di alieno,  dimenticando quasi completamente gli usi ebraici e anche lo yiddish,  insieme al quale s’era sbiadita e sfibrata l’inafferrabile natura dell’appartenenza ebraica,  e s’era soprattutto dissolto quel sentore leggero,  come un aroma impercettibile eppure esistente,  che è il nocciolo del giudaismo,  e questa alienazione lo accompagnò anche in Israele,  e la sua decisione di andarsene e tornare in America sconvolse la madre di Meir,  e la rattristò ben al di là del tradimento personale,  suscitando invece in lei una vampata di tenace nostalgia,  perché sentiva e sapeva con assoluta certezza che al suo ritorno in America sarebbe scomparso per sempre dalla sua vita,  e non l’avrebbe mai più rivisto.  Era questa una certezza che non poteva e nemmeno voleva ammettere e perciò sino al momento della partenza scartò tale eventualità e,  assecondando il senso dell’umorismo di Bill,  cercò di convincerlo a rinunciare all’idea,  per la quale del resto lei provava nell’intimo una profonda partecipazione,  persino simpatia,  dopo tutto lei stessa era esule in patria e avrebbe desiderato fuggire il più lontano possibile.  Tolse dal tavolo il piatto vuoto della minestra e disse  “Cosa ti aspetta laggiù?  Qui hai il sole ebraico.  Pioggia ebraica nonché ebrei.  E laggiù?  Niente”.  Lo disse a mo’ di battuta,  ma non senza un’impercettibile sfumatura lirica,  poi in tono obiettivo aggiunse  “Qui,  con quei pochi dollari che hai,  vivi come un signore.  E laggiù?  Tirerai la cinghia come una formica solitaria.  Nessuno ti degnerà di uno sguardo”.  E Bill,  che per un istante parve turbato da quella frase pronunciata seriamente,  replicò  “Preferisco essere solo come una formica in America che stare in compagnia qui in Israele,  fra tutti questi ebrei”,  e rise tanto da diventare tutto rosso,  la madre di Meir si sentì per un istante sconfitta,  soprattutto offesa perché dopo tutto queste parole la toccavano sul vivo,  ma si unì brevemente alla risata e aggiunse  “Accomodati pure,  Bill.  Qui non teniamo nessuno con la forza.  Ma ti consiglio di comportarti bene.  Può anche darsi che ti riprendiamo indietro”,  (…).

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NATAN ZACH

(Berlino 1930 – )

POICHÉ L’UOMO È L’ALBERO DEL CAMPO

Poiché l’uomo è l’albero del campo;

come l’albero l’uomo cresce.

Come l’uomo,  anche l’albero pone le sue radici,

ed io certamente non so

dove sono stato e dove sarò,

come l’albero del campo.

 

Poiché l’uomo è l’albero del campo;

come l’albero,  egli tende verso l’alto.

Come l’uomo,  viene bruciato nel fuoco,

ed io certamente non so

dove sono stato e dove sarò,

come l’albero del campo.

 

Poiché l’uomo è l’albero del campo;

come l’albero è assetato d’acqua.

Come l’uomo,  rimane assetato,

ed io certamente non so

dove sono stato e dove sarò,

come l’albero del campo.

 

Ho amato e ho odiato;

ho provato questo e quello;

sono stato sepolto in un pezzo di terra;

e c’è amaro,  amaro nella mia bocca

come l’albero del campo;

come l’albero del campo.

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AMOS OZ

NON DIRE NOTTE

   La gente passa il tempo a combinare,  preparare,  spassarsela.  A me bastano il deserto e la casa.  Persino il lavoro sta diventando sempre più superfluo.  Presto smetterò.  La pensione,  I risparmi e la rendita della casa di Herzlyia ci basteranno sino alla fine.  Ma che cosa farò tutto il giorno?  Studierò,  per esempio,  il deserto,  facendo lunghe passeggiate all’alba,  prima che tutto si arroventi.  Nelle ore calde dormirò.  La sera me ne starò in balcone o andrò al Caffè California a giocare a scacchi con Dubi Weitzman.  La notte ascolterò radio Londra.  Ecco quelle colline laggiù,  le sponde del uadi,  il flusso di nubi,  I due cipressi in fondo al cortile,  e l’oleandro,  ecco la panchina vuota accanto al pergolato di buganvìllea.  La notte si vedono le stelle e alcune cambiano posizione dopo mezzanotte a seconda delle stagioni.  Non a seconda bensì parallelamente alle stagioni.  Sulla parte di pianura più vicina,  oltre la cinta del giardino,  c’è un campo giallo di stoppie.  Sarà stato un vecchio beduino ad averci seminato dell’orzo in autunno,  in primavera l’ha mietuto e ora vengono le capre a rosicchiare con i loro denti ostinati.  Poi ci sono spazi aperti,  di qui sino alle colline e oltre,  fino al blocco scuro dei rilievi che a volte sembra vapore.  I pendii sono un ammasso confuso di blocchi di pietra bruna e nera e massi di gesso chiaro fra macchie di erosione che i beduini chiamano hawar.  Tutto in bianco e nero.  Ogni cosa al suo posto.  Per sempre.  Tutto è muto,  presente.  Essere in pace significa essere come loro,  per quanto è possibile:  muti e presenti.  Liberi.

Stamane al giornale radio,  hanno trasmesso stralci dal discorso del ministro degli Esteri a proposito della auspicata pace.

La parola “auspicata” è un equivoco,  qui:  o pace o speranza.  Bisogna scegliere.

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RONNY SOMECK

GELSOMINO – POESIA SU CARTA VETRATA

Fairùz alza le labbra

al cielo

perché ne piova gelsomino

sopra quelli che una volta s’incontrarono

ignorando d’amarsi.

Nella Fiat di Muhàmmad l’ascolto

nel mezzodì di via Ibn Gabiròl

una cantante libanese canta nella sua macchina italiana

di un poeta arabo di Bak’a Al Garbìa.

 

E il gelsomino?

Se cadrà giù dal cielo dell’Apocalisse

per un attimo il semaforo

si farà

verde.

 

Al prossimo incrocio.

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ABRAHAM B. YEHOSHUA

L’AMANTE

(1977)

Parte Prima

Adam

   … e noi nell’ultima guerra abbiamo perso un amante.  Avevamo un amante,  e da quando è cominciata la guerra non lo si trova più,  è sparito.  Lui e la vecchia “Morris” di sua nonna.  Da allora sono passati già più di sei mesi,  e di lui non abbiamo saputo più nulla.  Noi diciamo sempre:  questo è un paese piccolo,  una specie di grande famiglia,  se uno ci si mette può scoprire legami persino tra le persone più lontane – e invece,  come se si fosse spalancato un abisso,  una persona è scomparsa senza lasciare traccia,  e tutte le ricerche sono state inutili.  Se fossi sicuro che è rimasto ucciso,  rinuncerei.  Che diritto abbiamo noi di ostinarci per un amante ucciso,  quando c’è gente che ha perso tutto quello che aveva di più caro – figli,  padri e mariti?  Ma – come dire? – io sono ancora convinto che non sia stato ucciso.  Non lui!  Sono sicuro che non è neppure arrivato fino al fronte.  E anche se fosse morto,  dov’è la macchina,  dove è sparita,  una macchina non la si può certo seppellire così,  nella sabbia.

C’è stata la guerra,  è vero.  Ci è piombata addosso di sorpresa.  Leggo e rileggo i confusi resoconti,  cerco d’arrivare a capire fino in fondo il caos che si è creato qui da noi.  In fin dei conti lui non è il solo ad essere scomparso.  Tutti abbiamo ancora sotto gli occhi le liste di tanti dispersi,  altrettanti misteri.  E parenti e famigliari stanno ancora raccogliendo gli ultimi resti – vestiti strappati,  brandelli di pagine di tessere carbonizzate,  stilografiche contorte,  portamonete sforacchiati,  fedi nuziali fuse.  Danno la caccia a misteriosi testimoni oculari,  all’ombra di qualcuno che ha sentito dire qualcosa,  e da quella nebbia tentano di ricostruire un’ultima immagine dei loro cari.  Ma anche loro si stanno calmando.  Forse che noi abbiamo diritto di chiedere di più?  In fondo lui non è che un estraneo per noi.  Sì e no israeliano,  a dir la verità uno che è emigrato e che è venuto per una breve visita per questioni di eredità e poi si è trattenuto,  forse anche per causa nostra.  Non so,  non posso esserne sicuro,  ma torno a dire:  lui non è stato ucciso.  Di questo sono convinto.  Ed è qui che comincia la smania che mi rode in questi ultimi mesi,  che non mi dà pace,  che mi spinge a correre per le strade a cercarlo.

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YEHUDA AMICHAI

Da  LAMENTI PER I MORTI DI GUERRA

Il signor Beringer,  a cui è morto il figlio

sul Canale di Suez,  che stranieri

scavarono per far passare le navi nel deserto,

passa con me per la Porta di Giaffa.

 

È dimagrito molto:  ha perso

il peso di suo figlio.

Per questo ora galleggia nei vicoli leggero

e nel mio cuore s’impiglia come i rami

sottili alla deriva.

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SHIFRA HORN

INNO ALLA GIOIA

 

8.  E le nuvole?  Corrono,  corrono

   Mio padre aveva proprio un debole per il pane.  “È proibito buttar via il pane,  il pane è l’essenza della vita”,  andava ripetendo.  Metteva i resti di pane in una scatola smaltata e quando erano ben secchi li sbriciolava nel tritacarne e raccoglieva il pane grattato in sacchetti di nylon.  Questi sacchetti si ammassavano nella credenza fino a quando tra le briciole spuntavano depositi di muffa di tutti i colori e mia madre li buttava via di nascosto.  I resti di pane su cui crescevano infiorescenze verdi e non potevano essere grattugiati,  mio padre li raccoglieva in diversi sacchetti che portava sulla spiaggia,  dove distribuiva la sua essenza di vita.  I gabbiani lo vedevano di lontano e come lampi bianchi,  in uno stormo chiassoso e frenetico,  svolazzavano attorno a lui,  atterrando pesantemente sulla sabbia per inseguirlo sui loro trampoli rossi.  Con il collo curvo in avanti e i becchi spalancati lo seguivano svelti,  e mio padre scuoteva i sacchetti con grande concentrazione,  sbriciolava il pane con le dita e sparpagliava le briciole sulla spiaggia,  nell’acqua e nell’aria.  Una volta che i gabbiani,  ormai sazi,  si mettevano in disparte e coi becchi zelanti rovistavano alla radice delle penne,  allora si assembravano ondate di passerotti,  bulbul,  storni e piccioni grigi,  che spiegavano in suo onore un ventaglio di piume e ricevevano direttamente dalle sue mani il dono che accoglievano con gridi e cinguettii.

Quando mio padre se ne andò da questo mondo,  mia madre scoprì sul fondo del suo armadio e nel sottotetto della camera da letto pagnotte pietrificate nel corso degli anni,  dalla crosta dura e spessa come acciaio.  In lacrime avevamo raccolto le pagnotte che gli anni avevano reso pesanti,  le avevamo caricate sulla mia macchina ed eravamo andate sulla spiaggia.  A fatica avevamo trasportato i sacchetti pesanti fino al posto in cui mio padre era solito fermarsi,  ed eravamo rimaste a lungo ad aspettare i gabbiani.  Ma gli uccelli si vergognavano a venire.  Avevamo sparso il pane nel punto in cui le onde s’infrangevano sulla spiaggia ma le pagnotte affondavano nella sabbia paludosa rifiutandosi di spostarsi.  Mi ero arrotolata il bordo dei pantaloni,  avevo preso in mano alcune pagnotte ed ero avanzata dentro l’acqua,  ma il mare aveva respinto il mio dono sospingendole di nuovo a riva.  Avevo riprovato più volte ma ogni volta il mare le sputava fuori.  Solo quando si era fatto buio avevamo abbandonato la spiaggia e un mucchio di pagnotte dure,  che i gabbiani si rifiutavano di mangiare e che l’acqua non riusciva a penetrare,  si erano ammassate in una pila alle nostre spalle.

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DALIA RABIKOVITCH

(Ramat Gan,  British Mandate of Palestine 1936 – 2005)

DAL GIORNO ALLA NOTTE

Ogni giorno mi sveglio nuovamente dal sonno

come fosse l’ultima volta.

Che cosa mi aspetti non lo so

e forse è deducibile da ciò

che nulla mi aspetta.

La nuova primavera è come quella passata.

So cos’è maggio

ma non ci faccio caso

non distinguo il confine fra giorno e notte.

Di notte fa soltanto più freddo

e il silenzio è lo stesso.

Sento voci di uccelli al mattino

mi addormento facilmente

per il grande affetto che provo per loro.

Chi mi è caro non è qui

e forse non esiste neppure.

Passo da un giorno all’altro

dal giorno alla notte

come una piuma

che l’uccello non si accorge di perdere.

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YAAKOV SHABTAI

IN FINE

SECONDA PARTE

 

 

(…),  Meir andava in cucina a preparare il tè,  e con l’occasione si serviva dei biscotti al burro di sua madre che,  malgrado cercasse di consumare con la massima parsimonia,  diventavano sempre meno,  e nel giro di qualche settimana erano talmente pochi che si cominciò a svelare il fondo della scatola di plastica,  e ogni volta che ne mangiava si diceva che entro breve tempo sarebbero finiti e non ci sarebbero stati mai più,  perché morendo sua madre si era portata via con sé anche quel gusto particolare e inimitabile che aveva impresso nelle dita e nella lingua,  e una volta,  nella scatola restava solo più qualche sparuto biscotto,  decise che l’ultimo non l’avrebbe mai mangiato e l’avrebbe invece tesaurizzato come ricordo affinché qualcosa di lei,  qualcosa che non poteva che essere di lei,  continuasse a esistere,  se non che un giorno mentre aspettava che il bollitore fischiasse – suo padre era seduto nella stanza grande a guardare i cartoni animati -,  non riuscì a trattenersi dal consumare furtivamente anche l’ultimo biscotto,  poi raccolse in un cucchiaino le briciole,  che erano persino più buone,  e le mangiò tutte sino all’ultima,  lasciandole lentamente sciogliere fra la lingua e il palato con grande trasporto,  cercando di attingere sino all’ultima goccia di sapore e friabilità e di schiacciarle contro il palato per tenerle sempre con sé,  poi quando ebbe finito di mangiare chiuse la scatola e la rimise a posto.

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RAMI SAARI

QUANTA,  QUANTA GUERRA

Quel che fu scritto sulla muraglia

giace ora sottoterra,

sullo stesso monte,

(…).

Quanta,  quanta guerra.

 

Tanto ci importa,

tanto ci muoviamo

né ci trasferiremo da qui

né ci trasferiremo da lì.

Né smetteremo di trasferirci né smetteremo di cantare:

all’inizio spariamo e piangiamo,

poi ci calmiamo

e continuiamo a sparare.

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DAVID GROSSMAN

 

Per me, è molto importante essere un non credente, vivere in un mondo in cui non ci sia Dio.  Stare nel caos,  evitando la consolazione.

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ABRAHAM SUTZKEVER

(Smorgon,  Russia Bianca 1913 – 2010)

UN POETA YIDDISH

(1958)

 

Un degno poeta yiddish,

un uomo importante

mi appare

nel momento della divina opera della creazione e mi dice:

Ho già composto,  in un momento favorevole,

l’epitaffio per la mia tomba,

sì,  qui a Tel Aviv,

e tra cent’anni

voglio che sia scolpito

sulla mia lapide con la pazienza di chi sa dominarsi.

(…).

 

E io gli risposi in modo chiaro:

è ormai tempo di ricordare

che a un poeta yiddish è vietato morire.

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AMOS OZ

NON DIRE NOTTE

   L’una meno cinque di notte.  Dietro il muro l’ascensore cigola tardivamente,  non si ferma e invece continua a salire con un gemito di cavi verso uno dei piani superiori.  Noa non è nel suo letto,  (…),  immersa nel volume Ascesa e caduta dei figli dei fiori.  Theo giace in camera sua,  sta ascoltando radio Londra,  un programma sull’espansione delle galassie.  La portafinestra che dà sul balcone è aperta.  Da est,  dal lato delle alture deserte,  viene un vento secco che sfoglia adagio la tenda.   Niente luna.  Un freddo e aspro chiarore di stelle.  Le strade della cittadina sono ormai vuote e spente ma il semaforo in piazza continua a cambiare colore a intervalli regolari,  rosso e giallo e verde.  Solo,  al centralino dei telefoni,  Lupo il cieco fa il suo turno di notte,  ascoltando il frinio di un grillo.  Il suo cane sta appisolato lì per terra ma ogni tanto drizza le orecchie e una specie di onda nervosa freme lungo il suo pelo.  Quando arriverà Elia?  È morto il tizio che lo chiedeva,  e adesso forse lui lo sa.  Sul confine dell’udito il cieco ascolta il fruscio della notte perché,  dietro l’alito del silenzio e sotto il fischio del grillo,  gli pare s’insinui un gemito di morti:  lieve e straziante come fiato che svapóra nel fiato.  Il pianto dei morti freschi che ancora non si rassegnano suona sottile e candido,  offeso,  come lo strillo di un bimbo abbandonato nel deserto.  I morti vecchi singhiozzano con un mugolio monotono,  quieto:  un pianto di donna,  quasi soffocato nel buio sotto una coperta pesante.  Mentre i morti vetusti,  ormai dimenticati da tutti,  donne beduine estinte dalla fame su queste colline,  nomadi,  pastori di secoli fa,  inviano dagli abissi una specie di lamento desolato,  cavo,  silente ancor più del silenzio:  voce del loro aspirare al ritorno.  Profondo e ottuso,  dietro tutto,  alita anche il grugnito dei cammelli morti,  il grido di un capro sgozzato ai tempi di Abramo,  la cenere di un fuoco ancestrale,  il crepitio di un albero fossile che forse fu verde,  qui nel uadi,  una primavera di tante ere fa e il suo rimpianto ancora bisbiglia nella tenebra della pianura.

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DAVID GROSSMAN

CI SONO BAMBINI A ZIG-ZAG

(Yesh yeladim zigzag   1994)

 

 

Ero un pesce capitato per sbaglio in terraferma,  e davvero, quando ero in mare,  tra le onde,  mi sentivo subito calmo,  chiudevo gli occhi,  dicevo apertamente cose che non osavo dire con i piedi per terra,  le cose più preziose le bisbigliavo al mare,  tutte le domande che non avevo il coraggio di formulare,  tutti i segreti che non menzionavo mai,  li urlavo fra le onde,  per dimenticarli subito e per l’eternità,  sapendo tuttavia che sarebbero dilagati all’infinito,  conservati dal mare come una lettera in una bottiglia.

 

Dedicato a Carla Messaglia

Attrice,  Regista e,  soprattutto,  grande Amica

  30 Maggio 2015