RICORDANDO LUIS SEPÚLVEDA
(Ovalle, Cile 4 ottobre 1949 – Oviedo, Spagna 16 aprile 2020)
(Letture scelte da Ezio Beccaria)
Vola solo chi osa farlo.
Ricordo bene quella mattina dell’ 11 Settembre 1973 (era un martedì) e la radio che annunciava il colpo di stato in Cile. Ricordo la repressione, le persecuzioni, le violenze, i morti, lo Stadio di Santiago pieno di prigionieri…
Luis sopravvisse a tutto questo e agli anni di esilio: tutti conosciamo la sua storia travagliata, come conosciamo la sua arte, i suoi romanzi, le sue favole.
Se lo è portato via questa malattia che sta sconvolgendo il mondo e che ci sta cambiando. Luis ci ha lasciato ed io ancora non ci posso credere e mi sembra di aver perso un amico.
Conoscevo da tanti anni le sue parole ed il suo modo di sorridere. Ho utilizzato suoi brani in molte delle mie Letture teatrali e tante volte li ho recitati.
Questo ricordo può cominciare con una sua poesia dedicata alla moglie, la poetessa Carmen Yáñez, altra mia vecchia conoscenza letteraria.
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LA MÁS BELLA HISTORIA DE AMOR
L’ultimo suono del tuo addio,
mi disse che non sapevo nulla
e che era giunto
il tempo necessario
di imparare i perché della materia.
Così, tra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
implorano la fame dell’udito.
Che le strade e la polvere
sono la ragione dei passi.
Che la strada più breve
fra due punti
è il cerchio che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un brano di Vivaldi.
Che i geni amabili
abitano le bottiglie del buon vino.
Con tutto questo già appreso
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante a scrivere
La Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio
non si finisce mai
di imparare e di dubitare.
E così, ancora una volta
tanto facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda una stella fugace,
seppi che la mia opera era stata scritta
perché La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.
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Conoscere il Cile vuol dire anche conoscere quel sentimento che anima gli abitanti del Sud del Continente, la Patagonia, la Terra del Fuoco: l’orgoglio di essere il Mundo del fin del Mundo. E questo sentimento contagia chi si trova a passare da quelle parti, col vento che spazza Punta Arenas, davanti allo Stretto di Magellano, nei fiordi, tra i ghiacciai, tra quella gente che non si può descrivere…
Anche in Sepúlveda vive questa magia di un mondo estremo.
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IL MONDO ALLA FINE DEL MONDO (*)
(Mundo del fin del mundo 1989)
Ero molto giovane allora, quasi un bambino, e sognavo le avventure di una vita senza noia.
Non ero solo nei miei sogni. Avevo uno Zio, così, con la maiuscola. Mio Zio Pepe, erede più del carattere indomito di mia nonna basca che del pessimismo di mio nonno andaluso. Mio Zio Pepe. Volontario delle Brigate Internazionali durante la guerra civile spagnola. Una fotografia insieme ad Hemingway era l’unico patrimonio di cui si sentiva orgoglioso e non cessava di ripetermi la necessità di trovare la strada e andare avanti. Inoltre bisogna dire che Zio Pepe era la pecora nerissima della famiglia e che quanto più crescevo, tanto più clandestini diventavano i nostri incontri.
Da lui ricevetti i miei primi libri, quelli che mi avvicinarono a scrittori che mai più potrò dimenticare: Giulio Verne, Emilio Salgari, Jack London. Ancora da lui ricevetti una storia che segnò la mia vita: Moby Dick di Herman Melville.
Avevo quattordici anni quando lessi quel libro e sedici quando non potei più resistere al richiamo del sud.
(…). Da altre letture sapevo che ai confini continentali pre-antartici erano alla fonda varie piccole flotte di navi baleniere ed ero ansioso di conoscere quegli uomini che immaginavo eredi del capitano Ahab.
Convincere i miei genitori della necessità di questo viaggio fu possibile solo con l’aiuto di mio Zio Pepe, che per di più mi finanziò il passaggio fino a Puerto Montt.
I primi più di mille chilometri verso il mondo alla fine del mondo li feci in treno, fino a Puerto Montt.
Lì, davanti al mare, terminavano le strade ferrate. Poi il paese si divide in migliaia di isole, isolotti, canali, passi di mare fino nelle vicinanze del Polo Sud e, nella parte continentale, le cordigliere, i ghiacciai, i boschi impenetrabili, i ghiacci eterni, le lagune, i fiordi ed i fiumi capricciosi impediscono il passaggio di strade e ferrovie.
A Puerto Montt, grazie a mio Zio benefattore, mi accettarono nell’equipaggio di una nave che collegava questa città con Punta Arenas, nell’estremo sud della Patagonia e con Ushuaia, la più australe del mondo nella Terra del Fuoco, portando in là ed in qua merci e passeggeri.
Il capitano della Stella del Sud si chiamava Miroslav Brandovic ed era un discendente di emigrati yugoslavi che conobbe mio Zio durante le sue scorrerie in Spagna e poi coi partigiani francesi. Mi accettò a bordo come sguattero di cucina e, appena salpammo, ricevetti un affilato coltello e l’ordine di pelare un sacco di patate. (…).
(*) Traduzione di Ezio Beccaria
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PATAGONIA EXPRESS
(Al andar se hace el camino se hace al camino al andar 1995)
APPUNTI DAVANTI ALLO STRETTO DI MAGELLANO
A nord di Manantiales, villaggio petrolifero della Terra del Fuoco, sorgono le quindici o venti case di un paesino di pescatori chiamato Angostura e cioè “strettoia”, perché si trova proprio davanti al primo restringimento dello stretto. Le case sono abitate soltanto durante la breve estate australe. Poi, durante il fugace autunno e il lungo inverno, non sono altro che un punto di riferimento nel paesaggio.
Angostura non ha cimitero, ma ha una tomba, un piccolo sepolcro che è stato dipinto di bianco e che guarda verso il mare. Vi riposa Panchito Barría, un ragazzino morto a undici anni. In tutto il mondo si vive e si muore, ma il caso di Panchito Barría è tragicamente speciale, perché il bambino è morto di tristezza.
Prima di compiere tre anni, Panchito fu colpito da una poliomielite che lo lasciò invalido. I suoi genitori, pescatori di San Gregorio, in Patagonia, ogni estate attraversavano lo stretto per installarsi ad Angostura. Portavano con loro il bambino, come un amoroso fagotto che se ne stava ben seduto su delle coperte, a guardare il mare.
Fino a cinque anni Panchito Barría fu un bambino triste, poco socievole, quasi incapace di parlare. Ma un bel giorno accadde uno di quei miracoli che sembrano ovvi nel sud del mondo: una formazione di venti e più delfini australi comparve davanti ad Angostura, nel loro passaggio dall’Atlantico al Pacifico.
Gli abitanti del luogo che mi hanno raccontato la storia di Panchito, hanno detto che appena li vide, il bambino si lasciò sfuggire un urlo lacerante e che a mano a mano i delfini si allontanavano, le sue grida crescevano in volume e sconforto. Alla fine, quando i delfini erano ormai scomparsi, dalla gola del bambino sfuggì un grido acuto, una nota altissima che allarmò i pescatori, ma che fece tornare indietro uno dei cetacei.
Il delfino si avvicinò alla costa e iniziò a fare salti nell’acqua. Panchito lo incoraggiava con le note acute che gli sgorgavano dalla gola. Tutti capirono che tra il bambino e il cetaceo si era stabilita una forma di comunicazione che prescindeva da dubbi e spiegazioni. Era successo perché la vita è fatta così. Punto e basta.
Il delfino rimase davanti ad Angostura per tutta l’estate. E quando l’approssimarsi dell’inverno impose di abbandonare il luogo, i genitori di Panchito e gli altri pescatori notarono stupiti che nel bambino non c’era la minima traccia di dolore. Con una serietà inaudita per i suoi cinque anni, dichiarò che anche il suo amico delfino sarebbe partito, perché i ghiacci lo avrebbero intrappolato, ma l’anno dopo avrebbe fatto ritorno.
E l’estate successiva il delfino tornò.
Panchito cambiò, divenne un bambino loquace, allegro, arrivò a scherzare sulla sua condizione di invalido. Cambiò radicalmente. I suoi giochi con il delfino si ripeterono per sei estati. Panchito imparò a leggere, a scrivere, a disegnare il suo amico delfino. Collaborava come tutti gli altri bambini alla riparazione delle reti, preparava zavorre, seccava frutti di mare, sempre con il suo amico che saltava nell’acqua, compiendo prodezze solo per lui.
Una mattina d’estate del 1990 il delfino non venne al suo quotidiano appuntamento. Allarmati, i pescatori lo cercarono, rastrellando lo stretto da cima a fondo. Non lo trovarono, ma incontrarono una nave officina russa, una delle assassine del mare, che navigava vicinissimo al secondo restringimento dello stretto.
Due mesi dopo Panchito Barría morì di tristezza. Si spense senza piangere, senza mormorare un lamento.
Io ho visitato la sua tomba e da lì ho guardato il mare, il mare grigio e agitato degli inizi d’inverno. Il mare dove fino a poco tempo fa giocavano i delfini.
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LA FRONTIERA SCOMPARSA
(La frontera extraviada 1994)
(…) Il nostro congedo, vecchio, inizia in quel luogo che mi è sempre sembrato la fine del mondo e che in qualche modo lo era, almeno per il treno. In fondo ai binari, interrotti senza preavviso, si innalzava una barriera di traversine imbrattate di grasso e olio bruciato. Quella barriera serviva da sostegno ai vecchi gabbiani dallo sguardo impassibile, che non si lasciavano importunare dalla confusione dei viaggiatori e alimentavano la loro vecchiaia color cenere con i resti che lasciavano loro gli uomini delle pulizie del vagone ristorante, riflettendo – così amavo credere – su tutto ciò che avevano visto.
Non sono mai stato sicuro che i gabbiani pensassero realmente, ma io lo facevo, in voli brevi e disordinati.
Immaginavo catastrofi a lieto fine. Mi bastava chiudere gli occhi per vedere il convoglio che tirava dritto, travolgendo la barriera di traversine fra gemiti di legni vecchi e di perni ossidati. Allora, senza che i passeggeri se ne accorgessero, il treno precipitava in mare, sprofondava come un animale fiacco e distratto, per continuare il viaggio attraverso i fosforescenti paesaggi sottomarini. Io ero uno dei tanti passeggeri di quel treno navigante e, affacciato al finestrino, cercavo di identificare le bandiere dei galeoni affondati.
A quel tempo sapevo poco del mondo e non volevo saperne di più. Mi bastava sapere che oltre la barriera di traversine si apriva il Canale di Chacao, che più in là c’era Chiloé, l’arcipelago, le centinaia di isole, di passi, di canali bordati da scogli taglienti e altre isole e altre ancora, che si allungavano in spruzzi verdi sul mare fino ai confini del pianéta, fin dove vivevano gli autentici grandi navigatori e narratori di storie come Francisco Coloane.
Sapevo anche che a sudest si estendeva il continente, tagliato da basse cordigliere, da ghiacciai, da fiordi che aprivano chilometriche cicatrici d’acqua, sulla quale, nei duri inverni patagónici, navigavano vascelli fantasma e lastroni di ghiaccio con indios intrappolati dall’abbraccio polare. Era poco quello che sapevo, vecchio, ma sognavo il mondo che si apriva oltre la barriera che tagliava i binari.
Tu continuavi a promettermi che una volta o l’altra, col bel tempo, avremmo noleggiato una barca e avremmo chiesto al proprietario chilote di portarci a vela fra le isole, verso acque calme dove regnavano i delfini e si accoppiavano le giocherellone balene Calderón.
Ma dovevo aspettare per quell’agognato viaggio. Avevo appena quattordici anni e per te ero ancora un bambino. (…).
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CARMEN YÁÑEZ
(Santiago del Cile 1952 – )
L’ACQUA E IL FUOCO
Sono acqua.
Scorro per abissi e arterie
che i miei figli percorrono
fino a raggiungermi alle fonti.
Inondo spiagge, pelli
che non si adattano
ai miei alvei e alle mie ansie.
Fuoco di boschi, resina secca
falò minacciosi mi chiamano.
Sono acqua
nei capelli di una strega
che protegge la sua carne.
Le braccia del fuoco
non lasciano tracce
solo ceneri
sulla terra incendiata.
Cambio quindi
nel momento del giudizio.
Adesso sono acqua che arde:
rossa lava rossa
che ordina di agire ai vulcani.
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LE ROSE DI ATACAMA
(Historias marginales 2000)
STORIE MARGINALI
Un paio di anni fa visitai il campo di concentramento di Bergen Belsen, in Germania. In mezzo a un silenzio atroce, feci il giro delle fosse comuni in cui giacciono migliaia di vittime dell’orrore nazista, chiedendomi dove fossero i resti di una certa bambina che ci ha lasciato la più commovente testimonianza di quella barbarie e la certezza che la parola scritta è il più grande e invulnerabile dei rifugi, perché le sue pietre sono unite dalla malta della memoria. Cercai ovunque, ma invano: non trovai alcun indizio che mi portasse ad Anna Franck.
Alla morte fisica, i boia avevano aggiunto la seconda morte dell’oblio e dell’anonimato. “Un morto è uno scandalo, mille morti sono una statistica” affermava Goebbels, e questo è quanto hanno sempre detto e continuano a ripetere i militari cileni e argentini e i loro complici mascherati da democratici. Questo è quanto hanno sempre detto e continuano a ripetere i Milosevic’, i Mladic’ e i loro complici mascherati da negoziatori di pace. Questo è quanto ci viene continuamente sputato in faccia dai massacratori dell’Algeria, così vicina all’Europa.
Bergen Belsen non è certo un posto da passeggiate, perché il peso dell’infamia opprime, e all’angoscia del “cosa posso fare io perché tutto questo non si ripeta mai più?” subentra il desiderio di conoscere e narrare la storia di ciascuna delle vittime, di aggrapparsi alla parola come unico scongiuro contro l’oblio, di dare nome e voce alle vicende gloriose o insignificanti dei nostri genitori, dei nostri amori, dei nostri figli, dei nostri vicini e dei nostri amici, di trasformare la vita in una vera e propria forma di resistenza contro l’oblio, perché, come ha detto il poeta Guimaraes Rosa, narrare è resistere.
In un angolo del campo di concentramento, a un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori, nella ruvida superficie di una pietra, qualcuno, chi?, aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse, o di un chiodo, la più drammatica delle proteste: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”.
Credo di aver letto un migliaio di libri, ma mai un testo che mi sia parso così duro, così enigmatico, così bello e al tempo stesso così straziante come quello inciso nella pietra.
“Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia” aveva scritto una donna, forse, o un uomo. E quando? Pensava alla sua saga personale, unica e irripetibile, o l’aveva fatto in nome di tutti coloro che non vengono mai citati nei notiziari, che non hanno biografie, ma solo un labile passaggio per le strade della vita?
Non so quanto tempo rimasi davanti a quella pietra, ma man mano che scendeva la sera vidi che altre mani passavano sull’iscrizione per impedire che fosse ricoperta dalla polvere dell’oblio. Erano quelle di un tedesco, Fritz Niemand, Federico Nessuno, che sopravvissuto all’orrore nazista gira cieco la Germania cercando le voci dei carnefici. Di un argentino, Lucas, che stufo di discorsi ipocriti decise di salvare i boschi della Patagonia andina con il solo aiuto delle sue mani. Di un cileno, il professor Gálvez, che in un esilio mai capito sognava la sua vecchia aula scolastica e si svegliava con le dita sporche di gesso. Di un Ecuadoriano, Vidal, che sopportava i pestaggi dei latifondisti raccomandandosi a Greta Garbo. Di un italiano, Giuseppe, che era giunto in Cile per errore, aveva trovato i suoi migliori amici per errore, era stato felice a causa di un altro enorme errore e rivendicava il diritto di sbagliarsi. Di un Bengalese, Simpah, che ama le navi e le porta alla demolizione ricordando loro le bellezze dei mari che hanno solcato. E del mio amico Fredy Taberna, che affrontò i suoi assassini cantando…
Tutti loro, e molti altri, erano lì a togliere la polvere dalle parole incise nella pietra e io capii che dovevo raccontare le loro storie.
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LE ROSE DI ATACAMA
(Historias marginales 2000)
GÁSFITER
È così che in Cile chiamano l’idraulico, e mastro Correa era un gásfiter orgoglioso della sua professione. “A tutto c’è rimedio fuorché alla morte” recitava il codice etico scritto sulla sua vecchia borsa degli attrezzi, e lui, coerente con tale massima, girava le strade di San Miguel, La Cisterna e La Granja riparando tubazioni, sistemando rubinetti gocciolanti che erano causa di notti insonni e saldando le crepe della vita con la sua fiamma ossidrica al cherosene.
Quasi tutti i gásfiter uscivano molto presto dai loro quartieri operai e, aggrappati ad autobus strapieni, si dirigevano nei quartieri alti, nelle zone dei ricchi, in un altro Cile estraneo e lontano. Là di lavoro ce n’era d’avanzo, e di tanto in tanto qualche padrone generoso mollava una mancia.
Mastro Correa odiava la parola padrone, così non usciva mai dai suoi quartieri. Lì si sentiva davvero necessario, perché quando si rompeva qualcosa in una casa ricca, si limitavano a ricomprarla, mentre fra la sua gente bisognava prolungare la durata degli impianti e per riuscirci bisognava conoscere i segreti del mestiere.
Esaminava con occhio clinico un rubinetto dal gocciolio ribelle e, quando la padrona gli chiedeva se conveniva installarne uno nuovo, mastro Correa rispondeva lodando i fabbricanti, citando le caratteristiche nobili del metallo e la perfezione delle varie parti, in cui trovava sempre dettagli stile Bauhaus o art déco. Alla fine, con precisione da chirurgo, passava a smontare il rubinetto e sentenziava: “A tutto c’è rimedio fuorché alla morte”.
Non beveva, perché secondo lui un polso fermo era fondamentale nel suo lavoro. Sfogliava e leggeva con passione pubblicazioni di architettura che comprava nei negozi di libri usati, si emozionava fino alle lacrime descrivendo gli elementi di qualche nuovo materiale da costruzione, e se si concedeva un lusso, era quello di andare a vedere le olimpiadi studentesche allo stadio. Mastro Correa considerava gli atleti meccanismi perfetti, immuni dalla muffa e da ogni ruggine.
Un po‘ più di un anno fa si sentì male e i medici gli diagnosticarono un cancro in stadio avanzato, ormai in fase terminale. Il gásfiter mise la sua canna ossidrica vicinissimo al letto e cominciò a osservarla con aria preoccupata, con angoscia, non per la certezza della morte, ma per l’abbandono in cui sarebbero caduti i rubinetti, le tubature e tutti quegli impianti che dipendevano dalle sue mani.
Doveva fare qualcosa e lo fece. Con le sue ultime forze convocò le clienti che sentiva più vicine, spiegò loro che il mondo non poteva restare alla mercé della muffa e della ruggine, e rivelò tutti i segreti del mestiere.
Qualche giorno fa, a Santiago, sua figlia Doris mi ha raccontato di quell’università dell’idraulica, di come i ferri passavano di mano in mano mentre le apprendiste ripetevano parole tecniche come nei vecchi riti di iniziazione. Il funerale di mastro Correa è stato affollatissimo e tra i familiari e i vicini spiccava il battaglione di donne gásfiter.
Non mi è mai importato, né mi importa, di ciò che accade nei quartieri ricchi, ma mi preoccupa la sorte del mio quartiere San Miguel, di La Granja e La Cisterna. È un sollievo sapere che le discepole di mastro Correa ne girano le strade con i loro attrezzi in spalla, entrano nelle case e fanno in modo che l’acqua scorra libera e pura, senza scorie, come la grande verità solidale dei poveri che non arrugginisce mai.
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CARMEN YÁÑEZ
CERTEZZE
Ci sei;
i gerani, le azalee,
la raccolta dei frutti
dell’estate del tuo amore
mi dicono dolcemente il tuo nome.
Ci sei;
i tuoi passi,
la scala che scricchiola deliziosa,
il tuo silenzio rumoroso
lassù in soffitta.
I fantasmi che ti spiano
le parole che incontrano le tue parole,
il tuo desiderio,
storie che entrano nella tua luce.
La tua rabbia,
una tempesta che scema con la sera calma.
Così scrivi per i giusti, degli stolti;
così la tua voce corre sui cornicioni.
ci sei per me, esisti per me
ed è ora che devo
proteggerti lo sguardo.
E’ il tempo plurale
nostro,
il pretesto per parlare ancora d’amore.
E’ la sera sulla pelle
dorata di sole e anni.
E’ dolcezza che scorre ancora e non so
fino a quando nelle vene
di questo nostro piccolo mondo.
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INCONTRO D’AMORE IN UN PAESE IN GUERRA
(Desencuentros 1997)
VIENI, VOGLIO PARLARTI DI PILAR SOLÓRZANO
Il volume mi aspettava in un angolo di una piccola libreria antiquaria, a Praga. (…).
Era un volume sottile, rilegato in tela scarlatta, con la copertina ornata da un rigo dorato, in parte sbiadito, che incorniciava due filigrane, anch’esse dorate, le quali concludevano le loro capricciose volute tracciando cardi e altri fiori che ricordavano i dipinti di Hieronymus Bosch. Nella parte inferiore della copertina, tra le filigrane, c’era un’ellissi orizzontale con la scritta “Biblioteca scelta per la gioventù”. Al centro, in una specie di pergamena dispiegata a metà, era impresso il titolo, Storia della macchina a vapore, e sotto dei caratteri massicci indicavano il nome della casa editrice: Fratelli Garnier, Parigi. (…).
… il libro con la copertina scarlatta racchiudeva un richiamo (…).
… spinsi la porta della libreria. (…).
Da una porta sul fondo, forse dell’abitazione, comparve un anziano tutto infagottato.
Gli comunicai in tedesco il mio desiderio di esaminare il libro della vetrina, e quando glielo indicai, il vecchio sorrise prima di rivolgersi a me in uno spagnolo dall’accento dolce e stranamente familiare, un accento altrettanto o più antico dei suoi libri: era un ebreo sefardita e appariva felice di poter parlare la sua lingua.
“Ah, il libro in spagnolo. Da quanti anni è nella vetrina!” disse consegnandomelo.
Il retro della copertina era protetto da un foglio di carta ocra e il frontespizio aveva lo stesso colore. Quando vidi la calligrafia disinvolta della dedica, tratti che evidentemente non avevano cercato l’effetto sorpresa, capii che non avrei dovuto spingermi oltre nella lettura per comprendere il silenzioso richiamo che quel libro mi aveva lanciato dalla sua prigionia.
Non posso spiegare con precisione cosa provai guardando quelle parole scritte con un inchiostro, forse azzurro, che ora si confondeva con il colore indefinito del foglio. O forse sì, ma solo in minima parte: provai compassione per un certo vecchio dalla barba rada, morto più di trent’anni prima, che avevo amato e a cui avevo tenuto compagnia in lontane sere cilene dal profondo silenzio.
L’affollarsi dei ricordi dovette modellare sul mio volto un’espressione preoccupante, perché il libraio mi prese per un braccio, mi accompagnò a una sedia e mi offrì un bicchierino di liquore.
“Pilar Solórzano è esistita”, mi sentii mormorare.
“Non ti affliggere. Tutto è possibile nei libri”, spiegò il vecchio.
Fui grato al libraio che capì il mio asfissiante bisogno di parlare e iniziai a farlo mentre rileggevo più volte la scritta: “Dedico questo libro a Genaro Blanco in omaggio ai suoi sogni e a tutto ciò che ci unisce. Pilar Solórzano, 15 agosto 1909“.
Genaro Blanco. Don Genaro. Si chiamava così un vecchio Andaluso pieno di sogni che un giorno fu adottato come parente dalla mia famiglia. Mia madre racconta che si trovava al quinto mese di gravidanza quando lui era apparso nel salotto di casa con una sgangherata valigia di cartone e un ombrello nero, sostenuto per un braccio da mio nonno.
“Questo è Genaro, mio compagno e fratello. Qualche settimana fa ha perso la sua compagna e crede di essere rimasto solo. Noi gli dimostreremo che, nella grande fratellanza degli uomini liberi, non si è mai soli. Sii il benvenuto, compagno. Dividi con noi il vino, il pane e l’affetto”, pare che dicesse mio nonno, indicandogli il suo posto alla tavola della famiglia.
“Auguro a tutti voi salute e anarchia”, raccontano che rispose don Genaro, di modo che, quando quattro mesi dopo venni al mondo, ebbi due nonni spagnoli e uno cileno.
…
Tutto ciò che ricordo è frammentario, e la memoria mi riporta con certezza solo una frase che gli sentii dire spesso quando, dall’orlo del suo abisso di silenzio, mi invitava a sedermi accanto a lui. “Vieni, voglio parlarti di Pilar Solórzano”, ma non aggiungeva mai altro. (…).
Il libraio mi guardò con aria comprensiva, (…).
Prima di parlare si tolse gli occhiali e li pulì con la sciarpa.
“Portati via il libro. Ti stava aspettando.”
“Non le ho ancora chiesto il prezzo. Non so neppure se posso pagarlo.”
“Portati via il libro. C’è racchiuso un dubbio lontano che aspetta di essere risolto. Se non lo porti via, ti perseguiterà come un Golem. Ricorda che sono ebreo e so quello che dico. Il libro è tuo. Apparteneva a Genaro Blanco e tu sei stato la sua famiglia.” (…).
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IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D’AMORE
(Un viejo que leía novelas de amor 1989)
(…). Un bel giorno, insieme alle casse di birra e alle bombole di gas, il Sucre sbarcò un annoiato ecclesiastico, inviato dalle autorità religiose con la missione di battezzare i bambini e di mettere fine ai concubinati. Tre giorni rimase il frate a El Idilio, senza trovare nessuno disposto a portarlo nei piccoli villaggi dei coloni. Alla fine, annoiato per l’indifferenza della clientela, si sedette sul molo ad aspettare che la barca lo riportasse via da lì. Per ammazzare le ore della canicola tirò fuori dalla sacca un vecchio libro e cercò di leggere un po‘ prima di essere sopraffatto dal sopore.
Il libro nelle mani del religioso funzionò come esca per gli occhi di Antonio José Bolívar, che aspettò pazientemente finché il frate, vinto dal sonno, lo lasciò cadere di lato.
Si trattava di una biografia di San Francesco, che scorse furtivamente con la sensazione di commettere una specie di furtarello.
Metteva insieme le sillabe, e man mano che andava avanti l’ansia di capire tutto quello che c’era in quelle pagine lo portò a ripetere a mezza voce le parole afferrate al volo.
Il religioso si svegliò e guardò divertito Antonio José Bolívar con il naso infilato nel libro.
“È interessante?” chiese.
“Mi scusi, eminenza. Ma l’ho vista addormentata e non ho voluto disturbarla.”
“Ti interessa?” ripeté il religioso.
“Sembra che parli molto degli animali” rispose lui timidamente.
“San Francesco amava gli animali. Amava tutte le creature di Dio.”
“Anch’io le amo. A modo mio. Lei conosce San Francesco?”
“No. Dio mi ha privato di questo piacere. San Francesco è morto moltissimi anni fa. O meglio, ha lasciato l’esistenza terrena e ora vive in eterno accanto al Creatore.”
“Come fa a saperlo?”
“Perché ho letto il libro. È uno dei miei preferiti.”
Il frate enfatizzava le parole accarezzando la rovinata copertina di cartone. Antonio José Bolívar lo guardava affascinato, sentendosi pungere dall’invidia.
“Ha letto molti libri?”
“Un certo numero. Prima, quando ero ancora giovane e non mi si stancavano gli occhi, divoravo ogni opera che mi capitava tra le mani.”
“Tutti i libri parlano di santi?”
“No. Nel mondo ci sono milioni e milioni di libri. Sono in tutte le lingue e toccano tutti i temi, compresi alcuni che dovrebbero essere vietati agli uomini.”
Antonio José Bolívar non capì quella censura, e rimase con gli occhi inchiodati sulle mani del frate, mani grassocce, bianche, sulla copertina scura.
“Di che parlano gli altri libri?”
“Te l’ho detto. Di tutti gli argomenti. Ce ne sono di avventure, di scienza, storie di esseri virtuosi, di tecnica, di amore…”
L’ultimo caso lo interessò. Dell’amore sapeva quello che dicevano le canzoni, specialmente i ballabili cantati da Julito Jaramillo, la cui voce di guayaquilegno povero sfuggiva a volte da una radio a pile rendendo taciturni gli uomini. Secondo i ballabili, l’amore era come la puntura di un tafano invisibile, ma ricercato da tutti.
“Come sono i libri d’amore?”
“Di questo temo di non poterti parlare. Ne ho letti appena un paio.”
“Non importa. Come sono?”
“Be‘, raccontano la storia di due persone che si incontrano, si amano e lottano per vincere le difficoltà che impediscono loro di essere felici.”
Il richiamo del Sucre annunciò il momento di salpare e lui non osò chiedere al frate di lasciargli il libro. L’unica cosa che gli lasciò fu un maggiore desiderio di leggere. (…).
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CARMEN YÁÑEZ
RIO TENO
Ho mai detto che da bambina avevo un fiume ?
Era l’abbraccio della neve nelle pieghe della terra,
era il canto delle alture che degradavano a valle,
era uno dei modi in cui l’acqua penetrava i campi di mais e le viti,
era il mio fianco al risveglio dell’estate.
Era, quello, un tempo lungo che ricordo.
Sono già quarant’anni che non c’è più e le mie estati sono altre,
quasi un gorgoglìo, sotto il cuscino.
La stoffa fragile della nostalgia trema.
Un’apparizione fugace,
un fantasma d’acqua sulle rive dei miei sogni mi sveglia
ed è lo stesso fiume ingenuo che gioca sul pendio
con la mia gonna e i miei sandali.
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INCONTRO D’AMORE IN UN PAESE IN GUERRA
(Desencuentros 1997)
STORIA D’AMORE SENZA PAROLE
Non ho bisogno di silenzio perché non ho più nessuno a cui pensare
Atahualpa Yupanqui
Conobbi Mabel per via della moda, anche se questo non deve far pensare che io sia un seguace molto assiduo degli stili in voga, è solo che a volte, si sa, diventa fastidioso ritrovarsi a nuotare contro corrente e uno cede senza troppe storie all’idea di portare i pantaloni un po’ più larghi o un po’ più affusolati. Ma è di Mabel che voglio parlare e non della moda. Di Mabel, così lontana ora, nella strage di ricordi e di calendari abbandonati.
Era la minore di tre sorelle, tutte mute dalla nascita, che gestivano un piccolo negozio in un quartiere di Santiago. Avevano adibito a questo scopo una parte del salotto, anche se, per essere fedele ai ricordi, dovrei dire del living, perché i cileni hanno il living, come loro chiamano l’insieme di due poltrone, un divano e un tavolinetto basso, venga, entri, non rimanga lì fuori, andiamo a fare quattro chiacchiere nel living, (…).
Una pesante tenda cremisi separava il living dalla parte destinata ad assistere i clienti e la prima volta che attraversai quel confine mi sembrò di varcare la soglia di un altro mondo, di un universo compresso nel tempo, di un ambiente quieto, popolato di palme nane, félci, lampade dotate di grandi paralumi di cretonne granata, tavolinetti rotondi e sedie che permettevano di tenere la schiena ben eretta. Ora che ci penso – perché il ricordo non esiste se non in rapporto ad altri ricordi – , si potrebbe dire che era un’atmosfera proustiana smarrita in un quartiere proletario. (…).
Mabel e le sue sorelle si guadagnavano la vita aggiustando cravatte e cappelli. Dietro un minimo compenso mettevano all’opera le loro tre portentose paia di mani e in un batter d’occhio la cravatta sgargiante di un macellaio si trasformava, perdeva la sua ampiezza da remo per diventare un nastro sottile che reclamava a gran voce un’etichetta italiana. (…).
Intendersi con loro e in particolare con Mabel, non era un problema.
Pur essendo vero che non potevano parlare, riuscivano però a sentire perfettamente. (…).
Quell’atmosfera silenziosa mi piacque fin dal primo momento (…). Mi piacque e così iniziai a portar loro a una a una tutte le mie cravatte. (…).
Quando finii la scorta di cravatte, iniziai a girare i negozi di abiti usati e a comprare le più larghe che mi offrivano. (…).
Mabel non tardò a scoprire il mio trucco. (…).
Una sera mi disse che non era necessario mi rovinassi comprando altre cravatte. Che se volevo farle visita, mi limitassi ad andare a trovarla. Ecco cosa mi disse, con la bocca, con gli occhi e con le mani. (…).
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STORIA DI UNA GABBIANELLA E DEL GATTO CHE LE INSEGNÒ A VOLARE
(Historia de una gaviota y del gato que le enseñó a volar 1996)
IMPARANDO A VOLARE
(…). Fortunata era lì, in procinto di tentare il suo primo volo, perché durante l’ultima settimana si erano verificati due episodi grazie ai quali i gatti avevano capito che la gabbiana voleva volare, anche se nascondeva molto bene il suo desiderio.
Il primo fatto era avvenuto un pomeriggio in cui Fortunata aveva accompagnato i gatti a prendere il sole sul tetto del bazar di Harry. Dopo un’ora che erano lì, a crogiolarsi ai raggi del sole, avevano visto volare in alto, molto in alto, sopra di loro, tre gabbiani.
Spiccavano, belli e maestosi, nel cielo blu. A tratti sembravano paralizzarsi, limitandosi a fluttuare nell’aria con le ali tese, ma bastava un lieve movimento perché si spostassero con una grazia e un’eleganza che facevano invidia, e anche voglia di starsene lassù con loro. All’improvviso i gatti smisero di fissare il cielo e si voltarono a guardare Fortunata. La gabbianella osservava il volo dei suoi simili, e senza rendersene conto spiegava le ali.
“Guardate. Vuol volare” Commentò Colonnello.
“Sì. È ora che voli” riconobbe Zorba. “Ormai è una gabbiana grande e forte.”
“Fortunata. Vola! Prova!” suggerì Segretario.
Quando sentì i miagolii dei suoi amici, Fortunata ripiegò le ali e si avvicinò a loro. Si sdraiò accanto a Zorba e iniziò a far risuonare il becco imitando le fusa.
Il secondo episodio era accaduto il giorno successivo, mentre i gatti ascoltavano una storia di Sopravento.
“… e come vi miagolavo, le onde erano così alte che non potevamo vedere la costa, e… per il grasso del capodoglio! colmo delle disgrazie, la nostra bussola era impazzita. Cinque giorni e cinque notti passammo in mezzo alla burrasca e non sapevamo se stavamo navigando verso la costa o se ci allontanavamo in mare aperto. Ma proprio allora, quando ci sentivamo ormai perduti, il timoniere avvistò uno stormo di gabbiani. Che gioia, compagni! Puntammo la prua nella stessa direzione in cui volavano e riuscimmo a raggiungere la terraferma. Per i denti del barracuda! Quei gabbiani ci salvarono la vita. Se non li avessimo visti, ora non sarei qui a miagolarvi la storia.”
Fortunata, che seguiva sempre con molta attenzione i racconti del gatto di mare, lo ascoltava con gli occhi spalancati.
“I gabbiani volano anche nei giorni di burrasca?” chiese.
“Per le scariche della torpedine! I gabbiani sono i volatili più robusti dell’universo” assicurò Sopravento. “Non c’è uccello che sappia volare meglio di un gabbiano.”
I miagolii del gatto scendevano nel profondo del cuore a Fortunata. Batteva le zampe per terra e muoveva nervosamente il becco.
“Vuoi volare, signorina?” indagò Zorba.
Fortunata li guardò a uno a uno prima di rispondere.
“Sì. Per favore, insegnatemi a volare.”
Dedicato a tutti quelli che hanno amato Luis
20 Aprile 2020