ANNELIES E LE VOCI DELLA MEMORIA

LETTURE SULLA SHOAH

(Scelte da Ezio Beccaria)

Ad Auschwitz tante persone

ma un solo grande silenzio

è strano non riesco ancora

a sorridere qui nel vento

(1964)

Francesco Guccini

(Modena,  Italia 1940 – )

PENSIERO TRISTE

   Questa sarà una riflessione sulla Shoah.

Ma non fu perseguitato solo il Popolo Ebreo:   una identica follia ha travolto anche gli zingari,  gli omosessuali,  alcune minoranze religiose,  gli avversari politici.  Sono stati colpiti malati di mente e minorati fisici.

Ed anche se è più facile parlare della Shoah,  non c’è solo questa da ricordare oggi.

Pensiamo alle Crociate (quella franco-sabauda contro i Valdesi è del 1488),  al Razzismo in tutte le sue forme,  all’Apartheid,  al Colonialismo (anche quello italiano).

Pensiamo al massacro del Popolo Armeno,  che fa impallidire orrori come Auschwitz,  a Wounded Knee.

Pensiamo ai Gulag e alle Fosse di Katyn,  alla Risiera di San Sabba e alle Foibe.

Pensiamo ai Tutsi in Africa,  ai Palestinesi,  a Sabra e Shatila,  all’11 settembre 1973 ed ai Desaparecidos (dall’altra parte delle Ande),   alla Pulizia Etnica nella ex Jugoslavia.

E quante cose ho dimenticato…

Ce n’è per tutti e nessuno ha il monopolio di vittima o di persecutore.

Tutto questo è stato,  è  e sarà…

Io posso solo sperare di essere troppo pessimista e di sbagliarmi…

 

…..

GERALD GREEN

(New York,  U.S.A 1922 – 2006)

OLOCAUSTO

 

Sono trascorsi due giorni da quella che la stampa ora chiama Kristallnacht,  la Notte dei Cristalli,  dei vetri infranti.  Mi sono incaricato io,  ora che sono capitano e Heydrich mi stima di più,  di raccogliere dei dati sugli avvenimenti di quella storica notte.  Il capo era rilassato,  sorseggiava del cognac,  stava ascoltando il Siegfried.

“Wagner è un mago”,  ha detto.  “Un mago.  Ecco,  Dorf,  cosa può produrre un puro animo ariano.”

Sono rimasto ad ascoltare per un momento,  perché detestavo interrompere le sue fantasticherie.

“Che accordi”  ha detto,  “che accordi sublimi.”

“I rapporti sull’azione,  signore.  Sulla Kristallnacht.”

La musica ossessionante di Wagner,  credo che si trattasse del Viaggio sul Reno,  sembrava un accompagnamento al mio rapporto (…).  C’erano stati trentasei morti.  Quasi tutti gli ebrei che avevano opposto resistenza.  (…).  Sessanta sinagoghe erano state date alle fiamme e più di ottocento negozi e aziende ebraici erano stati distrutti.  Dove i nostri sembravano aver passato il limite era negli arresti.  Più di trentamila ebrei erano stati imprigionati.  Heydrich ha alzato gli occhi.

“Trentamila?  Dio mio,  che stupidi.  Riempiranno Buchenwald in una notte.”

Ha spento il grammofono.

“Non importa.  Alla fine lo riempiranno.  E avremo bisogno di molti altri Buchenwald.  I nostri nemici,  tutti quanti,  ebrei,  comunisti,  socialisti,  massoni,  slavi,  dovranno essere tutti rinchiusi,  se resistono.”

 

Berlino 1938

 

…..

 

AUTORE INCERTO

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari

e fui contento,  perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei

e stetti zitto,  perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali

e fui sollevato,  perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti

ed io non dissi niente,  perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me

e non c’era rimasto nessuno a protestare.

 

…..

 

MONI OVADIA

(Plovdiv,  Bulgaria 1946 – )

SENZA CONFINI,  EBREI E ZINGARI

PRESENTAZIONE

 

Gli ebrei e il popolo degli uomini (“Rom”) per secoli hanno condiviso lo stesso destino.  Il tratto comune che ha segnato la loro storia spesso tragica per colpa delle nazioni che li tolleravano o li perseguitavano,  ma sublime per loro esclusivo merito,  è stata la condizione di “altro”.  Ebrei e “uomini” hanno per secoli incarnato per ragioni simili e specifiche,  la radicale “alterità” alle culture dominanti dell’occidente cristiano.  Gli ebrei per avere rifiutato la verità assoluta del Cristo che i poteri ecclesiastici volevano imporre,  gli “uomini” pur avendo accolto il Cristo non volevano omologarsi ai modelli di vita e al conformismo dominante estraneo al loro spirito di libertà.  Il nomadismo non era vocazione originaria,  ma solo una risposta di dignità e di indipendenza per rispondere alle persecuzioni.  I due popoli chiedevano solo di vivere secondo la loro identità senza recare nocumento a nessuno.  Non fu loro concesso se non in brevi periodi ad arbitrio dei poteri espressione delle maggioranze.

…..

 

SCUOLA MEDIA STATALE “GIOVANNI XXIII”  PIETRAMELARA

SHOAH

OMOSESSUALI

 

Il 30 gennaio 1933,  soltanto un mese dopo l’ascesa al potere di Hitler,  il nuovo governo nazista proibisce tutti i periodici della comunità omosessuale e mette fuori legge tutte le organizzazioni omosessuali.  Il 6 maggio la sede dell’Istituto di Sessuologia viene devastata e i libri della biblioteca sequestrati e bruciati.  Tra la primavera e l’estate del 1933 le SS razziano i luoghi di incontro e di socializzazione degli omosessuali.  Nel 1935 il governo nazista modifica il “Paragrafo 175” promulgato da Bismarck,  allargandone la casistica e ampliandone la portata.  Alla fine del 1936 viene costituito l’Ufficio Centrale per la lotta all’omosessualità e all’aborto.

 

Le origini del Paragrafo 175 del Codice Criminale del Reich risalgono all’articolo 116 della “Constitutio Criminalis Carolina”,  promulgata dall’imperatore Carlo V nel 1532,  che recitava:  “Quelle persone coinvolte in condotta lasciva,  sia uomo con uomo,  che donna con donna,  o essere umano con animale,  perderanno la loro vita bruciando sul rogo.”

 

…..

PAVEL FRIEDMAN(N)

(Praga,  Cecoslovacchia 1921 – Auschwitz 1944)

LA FARFALLA

L’ultima,  proprio l’ultima,

di un giallo così intenso,  così

assolutamente giallo,

come una lacrima di sole quando cade

sopra una roccia bianca

– così gialla,  così gialla! –

l’ultima,

volava in alto leggera

aleggiava sicura

per baciare il suo ultimo mondo.

Tra qualche giorno

sarà la mia settima settimana

di  ghetto

 

Ma qui non ho visto nessuna farfalla.

Quella dell’altra volta fu l’ultima:

le farfalle non vivono nel ghetto.

 

(4 Giugno 1942)

…..

 

INDRO MONTANELLI

(Fucecchio,  Firenze 1909 – 2001)

KIBBUTZ

 

Atto Secondo

 

GAMALIEL   Compagni,  sono l’ultimo arrivato fra voi e mi dispiace,  credetemi,  mettere tanto scompiglio in questo Kibbutz che ormai è tutta la mia famiglia…  Sì,  tutta la mia famiglia perché l’altra è finita al completo nei forni crematori di Auschwitz…  Mio padre,  mia madre,  i miei fratelli…  Ventiquattro persone in tutto…  Non lo dico per suscitare la vostra pietà…  Forse fra voi c’è chi ne ha più diritto di me…  Lo dico per farvi capire meglio le cose e i motivi che mi obbligano,  dico mi obbligano,  ad accusare Rachele Berman…  I fatti risalgono al 1941…  Per essere più esatti,  al 21 dicembre 1941…  Da due anni abitavamo ad Amsterdam…  Ci eravamo rifugiati lì dall’Austria,  dopo l’Anschluss…  Poi era venuta la guerra,  non avevamo fatto in tempo a fuggire e i tedeschi erano arrivati…  Da principio ci isolarono soltanto nel ghetto,  e speravamo di poter sopravvivere…  Ma il 21 dicembre il capo rabbino fu convocato dal comandante delle SS…  il capitano Karl Schaer,  e ricevette un ultimatum…  Per ognuno di noi ebrei c’era,  in vendita,  un lasciapassare per la Svezia.  Ma costava venticinquemila dollari.  Chi non poteva pagarselo sarebbe stato deportato…  Il rabbino riunì gli anziani e gli anziani riunirono ciascuno la propria famiglia…  Io avevo sedici anni,  e con gli altri ragazzi e le donne restammo fuori della stanza dove i grandi si erano rinchiusi a discutere.  Dopo molte ore,  mio nonno comparve e disse:  “Figliuoli,  abbiamo deciso d’istituire una cassa comune,  dove ognuno ha vuotato le proprie tasche…  Purtroppo,  fra tutti,  non siamo riusciti a mettere insieme che ventisettemila dollari,  quanto basta a salvare soltanto uno di noi…  E questo vuol dire che abbiamo dovuto condannare a morte ventiquattro…  Ora li chiamerò uno per uno…”  Cominciò col nome suo,  poi continuò con quelli di tutti gli altri.  Soltanto il mio nome non fu pronunciato…  Il vecchio mi si avvicinò e mi disse:  “Joel…”  così mi chiamavo allora…  “Joel,  abbiamo scelto te non perché sei migliore degli altri e meriti più degli altri…  Ma perché,  fra i giovani,  sei il più forte,  il più sano e il meglio fornito di memoria…”  Il vecchio aveva ragione…  Non ero migliore degli altri.  Ma la salute e la memoria le avevo buone…  L’indomani mi accompagnò lui stesso alla Gestapo per il ritiro del passaporto e l’accreditamento della somma che aveva depositato in una banca di Stoccolma…  Avrebbero potuto prelevarla solo quando fossi arrivato là…  E ci arrivai…

 

…..

ILSE WEBER

(Witkowitz,  Cecoslovacchia 1903 – Auschwitz 1944)

LE PECORE DI LIDICE

 

Le pecore lanute bianche e gialle trottano lungo la strada.

Due pastorelle seguono il gregge,  nel crepuscolo suona il loro canto.

 

È un’immagine colma di pace,  ma tu che vai di fretta,

ti fermi come sentissi passare vicino un orrendo soffio di morte.

 

Le pecore lanute bianche e gialle,  tanto lontane da casa,

bruciate le stalle,  assassinati i padroni.

Oh,  tutti gli uomini del villaggio,  tutti sono morti

della stessa morte.

 

Un piccolo villaggio boemo,  tanta sventura e sofferenza.

 

Deportate le donne laboriose che curavano il gregge,

scomparsi i bambini gioiosi che si rallegravano degli agnelli,

distrutte le piccole case dove albergava la pace,

un villaggio intero annientato,  soltanto gli animali graziati.

Queste sono le pecore di Lidice,  adatte proprio qui,

nella città dei senza patria,  animali senza casa.

Chiusi da un muro,  accomunati dal crudele destino,

il popolo più tormentato della terra

e il gregge più triste del mondo.

Il sole è tramontato,  scomparso l’ultimo raggio,

da qualche parte delle caserme si alza un canto ebraico.

 

…..

ELIE WIESEL

(Sighetu Marmatiei,  Romania 1928 – 2016)

LA NOTTE

MAI DIMENTICHERÒ QUELLA NOTTE

Mai dimenticherò quella notte,  la prima notte nel campo che ha fatto della mia vita una notte lunga e per sette volte sprangata.

Mai dimenticherò quel fumo.

Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.

Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia fede.

Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.

Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima e i miei sogni,  che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò,  anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso.  Mai.

 

…..

YEHUDA AMICHAI

(Würzburg,  Germania 1924 – Gerusalemme 2000)

DOPO AUSCHWITZ

 

Dopo Auschwitz non c’è teologia:

dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,

segno che i cardinali hanno eletto il papa.

Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,

segno che gli dei non hanno ancora deciso di eleggere

il popolo eletto.

Dopo Auschwitz non c’è teologia:

le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio

sono i numeri telefonici di Dio

da cui non c’è risposta

e ora,  a uno a uno,  non sono più collegati.

Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:

gli ebrei morti nella Shoah

somigliano adesso al loro Dio

che non ha immagine corporea né corpo.

Essi non hanno immagine corporea né corpo.

 

…..

 

BERTOLT BRECHT

(Augusta,  Baviera 1898 – 1956)

TERRORE E MISERIA DEL TERZO REICH

LA MOGLIE EBREA

 

Sì,  dunque io parto,  Fritz.  Ho forse tardato anche troppo,  devi scusarmi,  ma…

 

Fritz,  non devi più cercar di trattenermi,  non puoi…  È evidente che finirei per rovinarti.  Lo so che non sei un vigliacco,  che non hai paura della polizia,  ma c’è di peggio.  Non ti metteranno in campo di concentramento,  ma ti vieteranno l’accesso alla clinica,  domani o dopodomani,  e allora non dirai niente,  ma ti ammalerai.  Non voglio vederti qui a girellare per casa,  a sfogliare riviste.  Credimi,  se me ne vado è per puro egoismo,  non per altro.  Non dirmi niente…

 

Non dirmi che non sei cambiato,  non è vero!  La settimana scorsa hai scoperto molto obiettivamente che la percentuale degli scienziati ebrei non è poi tanto grande.  Si comincia sempre così,  con l’obiettività…  e perché adesso continui a ripetermi che mai come ora ho dato prova del mio nazionalismo ebraico?  Sì,  sono nazionalista.  È come una malattia che ti prende.  Oh,  Fritz,  che destino è stato il nostro!

 

Non ti ho detto che volevo andarmene,  che già da tempo volevo andarmene,  perché non posso parlare quando ti guardo,  Fritz.  Allora mi sembra che ogni parola sia inutile.  Tanto,  è già tutto deciso!  Che cos’hanno?  Cosa vogliono in realtà?  Che cosa gli faccio?  Non mi sono mai occupata di politica.  Tenevo per Thälmann,  forse?  Sono una di quelle signore borghesi che hanno servitù eccetera,  e tutt’a un tratto cosa succede?  Soltanto alle bionde è permesso di essere così?  Negli ultimi tempi ho pensato spesso a quello che mi dicevi anni fa,  che ci sono persone che valgono e persone che valgono meno,  e che ai primi si dà l’insulina quando hanno il diabete e agli altri no;  e allora mi era parso naturale,  stupida che non ero altro!  Adesso hanno fatto una nuova distinzione del genere,  e io appartengo alla categoria di quelli che valgono meno.  Ben mi sta.

 

Sì,  faccio i bagagli.  Non devi far finta di non aver notato niente in questi ultimi giorni.  Fritz,  posso sopportare tutto meno che questo:  di non guardarci dritto negli occhi nell’ultima ora che ci resta.  Non dobbiamo dare questa soddisfazione a quei bugiardi che costringono tutti a mentire.  Dieci anni fa,  quando qualcuno diceva che non si notava affatto che io fossi ebrea,  tu replicavi:  “Eh,  altroché!”  era una cosa che mi faceva piacere;  era sincerità.  Perché non avere adesso il coraggio di dire le cose come sono?  Faccio i bagagli perché altrimenti non sarai più primario,  perché quelli della clinica ti salutano già a stento e tu non riesci più a dormire la notte.  Non voglio che tu mi dica che non devo andarmene.  Anzi,  mi affretto perché non voglio che un giorno tu mi dica:  “Devi andartene.”  È questione di tempo.  Il carattere,  è questione di tempo.  Ha una certa durata,  proprio come un guanto.  Ce ne sono di buoni che durano un pezzo.  Ma nessuno dura in eterno.  E non sono neanche in collera.  Ma sì che lo sono.  Perché devo tollerare tutto?  Cosa c’è di male nella forma del mio naso e nel colore dei miei capelli?  E devo lasciare la città dove sono nata perché quelli possano risparmiare il burro.  Che razza di uomini siete!  Sì,  anche tu!  Siete capaci di inventare la teoria dei quanta,  la teoria di Trendelenburg,  e lasciate che dei semiselvaggi vi ordinino di conquistare il mondo e di separarvi dalla moglie che vorreste avere.  Siete dei mostri,

 

Tu te ne stai seduto lì,  vedi tua moglie che fa i bagagli e non dici niente.  Perché i muri hanno orecchie,  eh?  Ma se voi non dite niente!  Gli uni stanno a orecchie tese,  gli altri tacciono!  Che schifo!  Anch’io dovrei tacere.  Se ti volessi bene,  tacerei.  Ma io ti voglio bene davvero!

 

E non aver l’aria di credere che sia una cosa provvisoria:  per quattro settimane!  È una faccenda che non dura quattro settimane.  Lo sai tu e lo so anch’io.

 

E non parliamo di disgrazia,  parliamo di vergogna…

…..

 

RADNÓTI MIKLÓS

(Budapest,  Ungheria 1909 – 1944)

NON POSSO SAPERLO

 

Per gli altri questo posto che significa,

non posso saperlo,

per me è la patria,  questo piccolo paese,

il luogo della mia infanzia lontana e felice.

Come un ramo debole dal tronco dell’albero,

da esso sono cresciuto e spero che qua sarò anche sepolto.

Sono a casa.  E se un cespuglio si china davanti a me,

conosco il suo nome,  il suo fiore,

so chi cammina per la strada e dove va,

e so cosa potrebbe significare il dolore

di un tramonto rosso sulle mura delle case.

Per chi vola su un aereo,  è solo una mappa,

e non sa dove abitava Vörösmarty Mihály;

per lui cosa significa?  Fabbrica e caserma,

ma per me:  cavalletta,  bue,  campanile e mite casale;

nel binocolo egli vede campi e fabbriche,

ma io anche il lavoratore zelante,

bosco,  frutteto,  uva e tombe,

tra le tombe una vecchietta,  che pian piano piange,

e quello che da sopra è una fabbrica o ferrovia

che si deve distruggere,  per me è la stazione

e davanti il ferroviere,  una bandiera rossa in mano,

circondato da tanti bambini,  egli invia il segnale,

e nel cortile della fabbrica ci gioca un cane.

E poi il parco:  di vecchi amori conserva le tracce,

la mia bocca ricorda i baci al gusto di miele o fragola.

Sul marciapiede un giorno andando a scuola

per non essere interrogato salivo su una pietra.

Eccola qua,  ma di sopra neppure essa si vede,

non esiste apparecchio che la possa rilevare.

È vero,  siamo peccatori,  noi come gli altri popoli,

e riconosciamo la nostra colpa,  quando,  come,  dove,

ma ci sono anche innocenti,  lavoratori o poeti,

e lattanti,  in chi crescerà la ragione,

la conserveranno,  nascosti in buie cantine,

finché non arrivi la pace nel nostro paese,

risponderanno freschi loro alla nostra soppressa voce.

Coprici con le tue grosse ali,  nuvola della notte.

 

(1944)

 

…..

 

ELIE WIESEL

LA NOTTE

UN CONCERTO PER I MORTI

 

(…)   sentii il suono di un violino.  Il suono di un violino nell’oscura baracca dove i morti si ammucchiavano sui vivi.  Chi era quel pazzo che suonava il violino qui,  sull’orlo della propria tomba?  O era solo un’allucinazione?

Doveva essere Juliek.

Suonava un frammento di concerto di Beethoven.  Non avevo mai ascoltato suoni così puri.  In un tale silenzio.

Com’era riuscito a svincolarsi,  a estrarsi di sotto al mio corpo senza che io lo sentissi?

L’oscurità era totale.  Sentivo soltanto quel violino ed era come se l’anima di Juliek gli servisse da archetto.  Suonava la sua vita.  Tutta la sua vita scivolava sulle corde.  Le sue speranze perdute,  il suo passato bruciato,  il suo avvenire spento.  Suonava quello che non avrebbe mai più suonato.

Non potrò mai scordare Juliek.  Come potrei scordare quel concerto dato per un pubblico di agonizzanti,  e di morti!  Ancora oggi,  quando sento suonare Beethoven,  i miei occhi si chiudono e,  dall’oscurità,  sorge il volto pallido e triste del mio compagno polacco che dava l’addio col suo violino a un uditorio di moribondi.

Non so per quanto suonò.   Il sonno mi vinse,  e quando mi svegliai,  sul fare del giorno,  vidi Juliek di fronte a me ripiegato su se stesso,  morto.   Accanto a lui giaceva il violino,  pestato,  schiacciato,  piccolo cadavere insolito e sconvolgente.

 

…..

 

HALINA NELKEN

(Cracovia,  Polonia 1923 – U.S.A. 2009)

VITA SCIUPATA

 

Vita sciupata

Che infamia

Che i giorni scorrano senza alcun senso

Che anziché il riso – io conosca soltanto lacrime

 

Sono avvilita,  sono angosciata

Per avere perduto ogni speranza da così tanto tempo

 

Come accettare la grettezza umana?

Come pensare alla morte – quando il mondo mi sta chiamando!

Non ho ancora vent’anni

Sono giovane!

Giovane

GIOVANE!

 

Vita sciupata,  che infamia…

 

(Auschwitz,  1944)

 

…..

 

LUIS SEPÚLVEDA

(Ovalle,  Cile 1949 – 2020)

LE ROSE DI ATACAMA

 

STORIE MARGINALI

 

Un paio di anni fa visitai il campo di concentramento di Bergen Belsen,  in Germania.  In mezzo a un silenzio atroce,  feci il giro delle fosse comuni in cui giacciono migliaia di vittime dell’orrore nazista,  chiedendomi dove fossero i resti di una certa bambina che ci ha lasciato la più commovente testimonianza di quella barbarie e la certezza che la parola scritta è il più grande e invulnerabile dei rifugi,  perché le sue pietre sono unite dalla malta della memoria.  Cercai ovunque,  ma invano:  non trovai alcun indizio che mi portasse ad Anna Franck.

Alla morte fisica,  i boia avevano aggiunto la seconda morte dell’oblio e dell’anonimato.  “Un morto è uno scandalo,  mille morti sono una statistica”  affermava Goebbels,  e questo è quanto hanno sempre detto e continuano a ripetere i militari cileni e argentini e i loro complici mascherati da democratici.  Questo è quanto hanno sempre detto e continuano a ripetere i Milosevic’,  i Mladic’ e i loro complici mascherati da negoziatori di pace.  Questo è quanto ci viene continuamente sputato in faccia dai massacratori dell’Algeria,  così vicina all’Europa.

Bergen Belsen non è certo un posto da passeggiate,  perché il peso dell’infamia opprime,  e all’angoscia del “cosa posso fare io perché tutto questo non si ripeta mai più?”  subentra il desiderio di conoscere e narrare la storia di ciascuna delle vittime,  di aggrapparsi alla parola come unico scongiuro contro l’oblio,  di dare nome e voce alle vicende gloriose o insignificanti dei nostri genitori,  dei nostri amori,  dei nostri figli,  dei nostri vicini e dei nostri amici,  di trasformare la vita in una vera e propria forma di resistenza contro l’oblio,  perché,  come ha detto il poeta Guimaraes Rosa,  narrare è resistere.

In un angolo del campo di concentramento,  a un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori,  nella ruvida superficie di una pietra,  qualcuno,  chi?,  aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse,  o di un chiodo,  la più drammatica delle proteste:  “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”.

 

Credo di aver letto un migliaio di libri,  ma mai un testo che mi sia parso così duro,  così enigmatico,  così bello e al tempo stesso così straziante come quello inciso nella pietra.

“Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”  aveva scritto una donna,  forse,  o un uomo.  E quando?  Pensava alla sua saga personale,  unica e irripetibile,  o l’aveva fatto in nome di tutti coloro che non vengono mai citati nei notiziari,  che non hanno biografie,  ma solo un labile passaggio per le strade della vita?

Non so quanto tempo rimasi davanti a quella pietra,  ma man mano che scendeva la sera vidi che altre mani passavano sull’iscrizione per impedire che fosse ricoperta dalla polvere dell’oblio.  Erano quelle di un tedesco,  Fritz Niemand,  Federico Nessuno,  che sopravvissuto all’orrore nazista gira cieco la Germania cercando le voci dei carnefici.  Di un argentino,  Lucas,  che stufo di discorsi ipocriti decise di salvare i boschi della Patagonia andina con il solo aiuto delle sue mani.  Di un cileno,  il professor Gálvez,  che in un esilio mai capito sognava la sua vecchia aula scolastica e si svegliava con le dita sporche di gesso.   Di un Ecuadoriano,  Vidal,  che sopportava i pestaggi dei latifondisti raccomandandosi a Greta Garbo.  Di un italiano,  Giuseppe,  che era giunto in Cile per errore,  aveva trovato i suoi migliori amici per errore,  era stato felice a causa di un altro enorme errore e rivendicava il diritto di sbagliarsi.  Di un Bengalese,  Simpah,  che ama le navi e le porta alla demolizione ricordando loro le bellezze dei mari che hanno solcato.  E del mio amico Fredy Taberna,  che affrontò i suoi assassini cantando…

Tutti loro,  e molti altri,  erano lì a togliere la polvere dalle parole incise nella pietra e io capii che dovevo raccontare le loro storie.

 

…..

ANONIMO

(Poesia di un ragazzo,  trovata in un ghetto nel 1941)

 

DA DOMANI

 

Da domani sarò triste,  da domani.

Ma oggi sarò contento,

a che serve essere tristi,  a che serve?

Perché soffia un vento cattivo?

Perché dovrei dolermi,  oggi,  del domani?

Forse il domani è buono,  forse il domani è chiaro.

Forse domani splenderà ancora il sole.

E non vi sarà ragione di tristezza.

Da domani sarò triste,  da domani.

Ma oggi,  oggi sarò contento,

e ad ogni amaro giorno dirò,

da domani,  sarò triste,

oggi no.

 

…..

 

YACOV VICENKO

LA LIBERAZIONE DI AUSCHWITZ

 

27 gennaio 1945:  Yakov Vicenko alla testa della Divisione di Fanteria 322 dell’Armata Rossa entra nel Campo di Monowitz (Auschwitz).

 

Nell’ombra,  avvertii una presenza.  Strisciava nel fango,  davanti a me.  Si voltò e apparve il bianco di occhi enormi,  dilatati.  Tacemmo:  da lontano ci investiva l’eco smorzata degli scoppi.  Tra i due,  solo io sapevo che erano i colpi dell’artiglieria tedesca in fuga.  Pensai ad uno spettro,  mi assalì il dubbio di essere stato colpito,  magari ucciso.  Non sognavo,  ero di fronte ad un morto vivente.  Dietro a lui,  oltre la nebbia scura,  intuii decine di altri fantasmi.  Ossa mobili,  tenute assieme dalla pelle secca e invecchiata.  L’aria era irrespirabile,  un misto di carne bruciata ed escrementi.  Ci sorprese la paura di un contagio,  la tentazione di scappare.  Non sapevo dove fossi sbucato.  Un commilitone mi disse che eravamo ad Auschwitz.  Abbiamo proseguito,  senza una parola.

 

Ho passato il primo filo spinato alle 5 di mattina:  era buio,  sabato 27 gennaio 1945.  Non era gelido,  solo tracce di neve marcia.  La sera prima,  nella notte,  il combattimento aveva preteso molte vite.  Temevo i cecchini lasciati di guardia.  Al riparo di un bidone ho visto il maggiore Shapiro,  un ebreo russo del gruppo d’assalto della centesima divisione,  spalancare un grande cancello.  Dall’altra parte un gruppo di vecchi minuti,  ma erano bambini,  ci ha sorriso.  Solo dopo anni ho appreso di aver assistito allo schiudersi dell’ingresso dell’inferno,  sotto la scritta “Arbeit macht frei”.  Mi sono alzato per avanzare.  Ho guardato nel bidone:  era colmo di cenere,  emergevano frammenti di ossa.  Non ho capito che erano i resti di chi era stato là dentro.

 

Ad Auschwitz non ho incontrato vita o speranza.  E nella notte mi sono lavato la divisa.  L’unica volta,  da quando mi sono svegliato in guerra.

 

…..

 

NELLY SACHS

(Schöneberg,  Germania 1891 – 1970)

 

CORO DEI SUPERSTITI

 

Noi superstiti,

dalle nostre ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,

sui nostri tendini ha già passato il suo archetto.

I nostri corpi ancora si lamentano

col loro canto mozzato.

Noi superstiti,

davanti a noi,  nell’aria azzurra,

pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli,

le clessidre si riempiono ancora con il nostro sangue.

Noi superstiti,

ancora divorati dai vermi dell’angoscia,

la nostra stella è sepolta nella polvere.

Noi superstiti

vi preghiamo:

mostrateci lentamente il vostro sole.

Guidateci piano di stella in stella.

Fateci di nuovo imparare la vita.

Altrimenti il canto di un uccello,

il secchio che si colma alla fontana

potrebbero far prorompere il dolore

a stento sigillato

e farci schiumare via.

Vi preghiamo:

non mostrateci ancora un cane che morde,

potrebbe darsi,  potrebbe darsi

che ci disfiamo in polvere

davanti ai vostri occhi.

Ma cosa tiene unita la nostra trama?

Noi,  ormai senza respiro,

la nostra vita è volata a lui dalla mezzanotte

molto prima che il nostro corpo si salvasse

nell’arca dell’istante.

Noi superstiti

stringiamo la vostra mano,

riconosciamo i vostri occhi,

ma solo l’addio ci tiene ancora uniti,

l’addio nella polvere

ci tiene uniti a voi.

 

…..

 

ICH WUSSTE NICHT

 

Ich wusste nicht”,  non sapevo,  questo dicevano i gerarchi nazisti al processo di Norimberga,  questo diceva Marlene Dietrich,  moglie di un generale tedesco,  a Spencer Tracy,  giudice americano,  nel film Vincitori e vinti (1961).  “Ich wusste nicht”  dissero molti tedeschi.  Ma com’è possibile che nessuno sapesse nulla,  che una cosa di tale portata sia accaduta?  Un video,  nel Dokumentationszentrum di Norimberga mostra l’intervista a tre anziani che vissero quei tempi.

Una donna dice:  “Gli ebrei sparivano,  sì,  era un po’ strano che non se ne sapesse più nulla,  ma pensavamo che andassero in un posto dove finalmente potevano vivere tutti loro insieme.  Un luogo dove oltre che gli avvocati e i banchieri avrebbero dovuto fare anche i lavapiatti e gli spazzini.”

Un’altra,  infermiera in un ospedale militare,  dice:  “Non ne ho mai saputo nulla.  Una volta venne ricoverato un soldato delle SS che era impazzito,  parlava di cose orribili che avvenivano in certi campi,  però del resto lui era lì perché era pazzo.”

Un signore anziano dà forse la spiegazione di come tutto ciò sia potuto succedere:  “Il partito si occupava di tutto,  il partito ci guidava,  il partito si prendeva cura di noi,  il partito ci dispensava dal peso di pensare,  lo faceva lui per noi.  Per questo siamo tutti responsabili di quanto è avvenuto,  che fossimo direttamente coinvolti oppure no.  Non abbiamo voluto sapere,  non abbiamo voluto pensare.”

 

…..

 

WILLIAM HEYEN

(New York,  U.S.A. 1940 – )

ENIGMA

 

Da Bergen una cassa di denti d’oro,

da Dachau una montagna di scarpe,

da Auschwitz una lampada in pelle.

Chi ha ucciso gli ebrei?

 

Non io,  esclama la dattilografa,

non io,  esclama l’ingegnere,

non io,  esclama Adolf Eichmann,

non io,  esclama Albert Speer.

 

Il mio amico Fritz Nova ha perduto il padre,

un sottufficiale dovette scegliere.

Il mio amico Lou Abrahms ha perduto il fratello.

Chi ha ucciso gli ebrei?

 

David Nova ingoiò il gas,

Hyman Abrahms fu picchiato e ucciso dalla fame.

Certi firmavano le carte,

e certuni stavano di guardia,

 

e certi li spingevano dentro,

e certuni versavano i cristalli,

e certi spargevano le ceneri,

e certuni lavavano le pareti,

 

e certi seminavano il grano,

e certuni colavano l’acciaio,

e certi sgomberavano i binari,

e certuni allevavano il bestiame.

 

Certi sentivano l’odore del fumo,

certuni ne udirono solo parlare.

Erano tedeschi?  Erano nazisti?

Erano uomini?  Chi ha ucciso gli ebrei?

 

Le stelle ricorderanno l’oro,

il sole ricorderà le scarpe,

la luna ricorderà la pelle.

Ma chi ha ucciso gli ebrei?

 

…..

 

PRIMA CHE SI SPENGANO LE LUCI

 

Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto.

 

C’è Auschwitz,  quindi non può più esserci Dio.  Non trovo una soluzione al dilemma.  La cerco,  ma non la trovo.

 

Primo Levi

(Torino 1919 – 1987)

(Da Conversazione con Primo Levi di Ferdinando Camon)

 

****

 

Abbiamo imparato a volare come uccelli,  a nuotare come pesci,  ma non abbiamo imparato l’arte di vivere come fratelli.

 

Martin Luther King

(Atlanta,  U.S.A. 1929 – 1968)

 

****

 

Siamo tutti esseri umani e,  da questo punto di vista,  siamo uguali.

Noi tutti vogliamo la felicità e non vogliamo soffrire.

Se consideriamo questo fatto,  troveremo che non ci sono differenze tra persone di diversa fede,  razza,  colore,  cultura.

Tutti noi abbiamo questo comune senso di felicità.

 

Tenzin Gyatso,  XIV Dalai Lama

(Taktser,  Tibet 1935 – )

 

****

 

   È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili.  Le conservo ancora,  nonostante tutto,  perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo.

 

Annelies Marie (Anna) Frank

(Francoforte sul Meno,  Germania 1929 – Bergen-Belsen 1945)

(Da Diario)

 

…..

 

POST SCRIPTUM A SIPARIO CHIUSO

 

Non sono ebreo,  non sono neppure credente e per un non credente queste memorie sono forse ancora più terribili.

Sì,  perché un non credente non ha una fede che possa aiutarlo a dare un senso all’orrore.

Ringrazio chi non scorda e tutti quelli che mi hanno aiutato a ricordare la Shoah ed anche tutte le altre Shoah meno di moda e sempre più dimenticate.  Ringrazio soprattutto chi ha voluto ascoltare e riflettere per un momento.

Mi vengono alla mente le poetiche parole “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee”,  l’epitaffio sull’annientamento del Popolo Nativo Americano.  Ma la poesia non serve ad assolvere il genere umano.

Io vorrei però che,  almeno,  non morissero mai le parole di speranza di Annelies che hanno chiuso il nostro ricordo.

Shalom aleichem.