CHILE. VOCES DE MUJERES

LETTURE DA AUTRICI CILENE

(Scelte da Ezio Beccaria)

Maldigo del alto cielo

la estrella con su reflejo,

maldigo los azulejos

destellos del arroyuelo,

maldigo del bajo suelo

la piedra con su contorno,

maldigo el fuego del horno,

porque mi alma está de luto,

Violeta Parra

(San Carlos 1917 – 1967)

 

GABRIELA MISTRAL

(Vicuña,  Cile 1889 – 1957)

LA NEVE

È scesa la neve…

a visitare la valle.

È scesa la neve…

guardiamola cadere.

Dolce!  Giunge senza rumore,

come gli esseri soavi

che temono di far male.

Così scende la luna,

così scendono i sogni…

guardiamola scendere.

 

 

MARCELA SERRANO

(Santiago del Cile 1951 – )

ARRIVEDERCI PICCOLE DONNE

(Hasta siempre mujercitas   2004)

1.

 

Stava andando al supermercato e mentre parcheggiava aveva scorto una caffetteria aperta di recente nel quartiere.  Aveva pensato che un gesto inatteso,  un gesto che non avrebbe mai fatto,  sarebbe stato entrare lì dentro,  sorseggiare un cappuccino a quell’ora insolita per lei,  seduta da sola a un tavolino,  in silenzio,  per regalare alla mente un attimo di svago nel tentativo di mandar via i demonietti che si ostinavano a perseguitarla.  EsitòEra arrivata davanti alla porta del caffè quando l’esitazione si manifestò di nuovo,  la mano che stringeva la maniglia e la lasciava andare,  stringeva e lasciava,  un momento di timidezza,  una sorta di timore,  quel locale le sarebbe andato largo nonostante i profumi familiari e invitanti.  Si tirò indietro.  Lei non è tipo da autoanalisi,  detesta le persone che la fanno e si chiede perché poi vogliano condividerla con gli altri,  perché non si tengano per sé i loro pensieri se sono così noiosi,  egocentrici.  Lei non farebbe mai perdere tempo a se stessa né agli altri per parlare delle proprie scoperte,  se mai ne facesse.  Spogliare la mente in pubblico le sembra osceno come farlo con il corpo.

Con passo deciso si era diretta verso il supermercato,  stabilendo di compiere soltanto il proprio dovere:  fare la spesa.  Allora,  come le succede sovente quando cammina per strada,  le era venuta voglia di fare il gioco dell’invisibilità,  è un gioco semplicissimo,  si tratta soltanto di fingere di sparire agli occhi degli altri (guai se un giorno guardandosi allo specchio non vedesse più il proprio riflesso).  E si era chiesta,  come le era già capitato,  quale mano assassina l’avesse cancellata dalla faccia della terra o se fosse stata lei a suicidarsi.  Non mi vede nessuno,  disse Nieves davanti alla fila dei carrelli,  posso camminare in questo spazio o entrare qui a fianco,  negli Almacenes París,  andare nel reparto profumeria e mettermi a rubare,  tutti i profumi costosi che adoro e non posso comprare,  li infilerei dentro una di quelle eleganti borse di pelle e,  be‘ niente,  uscirei come niente fosse,  magari scatterebbe l’allarme,  si metterebbero a cercare il ladro,   io infilerei felice la porta carica di Kenzo,  Christian Dior e Chanel e nessuno mi beccherebbe;  o magari potrei avvicinarmi all’uomo più bello e dargli un bacio,  vediamo un po‘,  un bell’uomo a portata di mano…  qui,  nel supermercato…  Sì,  quello lì che cammina verso il reparto latticini,  lui vale la pena,  magari rimarrebbe stupito,  si guarderebbe intorno ma non vedrebbe nessuno,  magari crede che sia stata soltanto un’illusione,  e io me ne andrei con il sapore delle sue labbra sulle mie.

 

 

CARMEN YÁÑEZ

(Santiago del Cile 1952 – )

BISOGNA METTERE IN ORDINE LE COSE

 

L’albero del susino,  laggiù

le gardenie a sinistra,

più in là il blu.

Il mare

dove amore

metteremo il mare?

Gli anni in quaderni gialli

e la risata dorata quando badiamo ai gatti.

In quale cofanetto dell’inverno

metteremo il temporale?

In solaio le ore della tua assenza.

Gli allori,  i gerani,

la menta ai piedi

di questa promessa.

Vedrai

com’è imprevedibile la terra,  amore,

se solo esisti.

 

 

ISABEL ALLENDE

(Lima,  Perù 1942 – )

LA CASA DEGLI SPIRITI

(La casa de los espiritus   1982)

1.

Rosa,  la bella

 

Il silenzio si fece denso,  il tempo sembrò fermarsi nella chiesa,  ma nessuno osò tossire o cambiare posizione,  per non attirare lo sguardo di padre Restrepo.  Le sue ultime frasi vibravano ancora tra le colonne.

E in quel momento,  come avrebbe ricordato anni dopo Nivea,  in mezzo alla trepidazione e al silenzio,  si udì ben nitida la voce della piccola Clara.

“Pst!  Padre Restrepo!  Se il racconto dell’inferno fosse tutta una bugia,  saremmo proprio fregati…”

Il dito indice del gesuita,  che era rimasto a mezz’aria per indicare nuovi supplizi,  rimase sospeso come un parafulmine sopra la sua testa.  La gente smise di respirare e quelli che stavano con la testa ciondoloni si ripresero.  I coniugi del Valle furono i primi a reagire sentendo che li invadeva il panico e vedendo che i loro figli cominciavano ad agitarsi nervosi.  Severo comprese che doveva far qualcosa prima che esplodesse la risata collettiva o si scatenasse qualche cataclisma celeste.  Prese sua moglie per un braccio e Clara per il collo e uscì trascinandole a grandi falcate,  seguito dagli altri figli che si precipitarono in gruppo verso la porta.  Riuscirono a uscire prima che il sacerdote avesse potuto invocare un fulmine che li trasformasse in statue di sale,  ma dalla soglia udirono la sua terribile voce di arcangelo offeso.

“Indemoniata!  Superba indemoniata!”

Queste parole di padre Restrepo rimasero nella memoria della famiglia con la gravità di una profezia e,  negli anni successivi,  ebbero modo di ricordarle spesso.  L’unica che non ci ripensò più fu proprio Clara,  che si limitò a segnarle nel suo diario e poi se le dimenticò.  I suoi genitori,  invece,  non poterono ignorarle sebbene fossero d’accordo sul fatto che la possessione demoniaca e la superbia erano due peccati troppo grandi per una bambina così piccola.  Temevano la maledizione della gente e il fanatismo di padre Restrepo.  Fino a quel giorno,  non avevano dato un nome alle eccentricità della loro figlia minore,  né le avevano messe in rapporto con influenze sataniche.  Le prendevano come una caratteristica della bambina,  come lo era l’andatura zoppa di Luis o la bellezza di Rosa.  I poteri mentali di Clara non davano fastidio a nessuno e non causavano grandi disordini;  si manifestavano quasi sempre in fatti di poca importanza e nella stretta intimità della casa.  Certe volte,  all’ora dei pasti,  quando erano tutti riuniti nella grande sala da pranzo della casa,  seduti secondo uno stretto ordine di dignità e di gerarchia,  la saliera cominciava a vibrare e subito si spostava sulla tavola tra bicchieri e piatti,  senza l’intervento di alcuna fonte di energia conosciuta né di alcun trucco da illusionista.  Nivea dava una tirata alle trecce di Clara e con quel sistema otteneva che sua figlia abbandonasse la sua distrazione lunatica e restituisse la normalità alla saliera,  che di colpo recuperava la sua immobilità.  I fratelli si erano organizzati in modo che,  nel caso ci fossero state visite,  quello che si trovava più vicino fermava con una  manata ciò che si stava movendo sulla tavola prima che gli estranei se ne rendessero conto o avessero un sobbalzo.  La famiglia continuava a mangiare senza far commenti.  Si erano abituati anche ai presagi della sorella minore.  Annunciava le scosse di terremoto con qualche anticipo,  il che si rivelava molto pratico in quel paese di catastrofi,  perché dava il tempo di mettere in salvo i servizi di porcellana e di tenere a portata di mano le pantofole per uscire di corsa nella notte.  A sei anni Clara aveva predetto che il cavallo avrebbe gettato a terra Luis,  ma lui non le aveva badato e da allora aveva un fianco sbilenco.  Col tempo gli si era accorciata la gamba sinistra e doveva usare una scarpa speciale con un grande plantare che lui stesso si costruiva.  In quell’occasione Nivea si era preoccupata,  ma la Nana le aveva restituito la tranquillità dicendo che ci sono molti bambini che volano come le mosche,  che hanno sogni divinatori e che parlano con le anime dei morti,  ma che a tutti queste cose passano quando perdono l’innocenza.

 

 

VIOLETA PARRA

CON TUTTO IL CORPO

(De cuerpo entero)

L’essere umano è formato

da uno spirito e un corpo,

da un cuore che palpita

al ritmo dei sentimenti.

 

Non capisco gli amori

dell’anima sola

quando il corpo è un fiume

di belle onde.

 

Di belle onde,  sì,

che gli danno vita;

se manca un elemento,

nera è la ferita.

 

Sappi che ti amo

con tutto il corpo.

 

MARCELA SERRANO

QUEL CHE C’È NEL MIO CUORE

(Lo que está en mi corazón   2001)

Prima parte

ORFANE DELL’APOCALISSE

GIOVEDÌ

5.

 

 

   “Ho una riunione in centro tra un’ora…  non vale la pena che ritorni a casa”  commentò Reina quando arrivammo in calle Adelina Flores.

“Non vuoi riposarti un poco in albergo?  Ho una camera grande…”

È una buona idea,  ho sonno.”

Si distese sull’enorme letto della camera numero 49;  le diedi una coperta anche se non si faceva ancora sentire il freddo pungente della sera,  e mentre mi accingevo a lavorare alla scrivania messa di traverso sotto alle finestre,  lei chiuse gli occhi.  Non so quanto tempo fosse passato ,  la mia concentrazione sul lavoro m’impediva di calcolarlo,  ma sussultai nell’udire un gemito.  Proveniva,  naturalmente,  dal letto.  Mi alzai dalla sedia per controllare che Reina stesse bene e mi diressi verso di lei.  La coperta era scivolata sul pavimento e vidi il suo corpo:  non era disteso come quello di una persona che fa la siesta,  noEra tutto raggomitolato,  un povero e fragile groviglio di ossa e carne,  rannicchiato su se stesso nella posizione più vulnerabile di tutte,  la posizione fetale.  Al gemito che mi aveva spaventata seguì un breve singhiozzo;  Reina piangeva nel sonno e si abbracciava stretta,  quasi temendo che il corpo volesse sfuggirle via.  Pensai al mio bambino.  La scena era triste e immane.  Non riuscivo a far coincidere la donna padrona di se stessa,  sicura e allegra che avevo appena conosciuto,  con questa creatura che tentava di ricordare le acque primigenie,  consapevole che il dolore più grande è venirne espulsi.  Mi chiesi che cosa le fosse stato strappato.   Quale promessa di bambina non avessero mantenuto.

“Reina!  Hai un incubo…”  la svegliai sfiorandole la spalla.  Aprì gli occhi.  Nella sua espressione riconobbi qualcosa che fino a quel momento credevo fosse una mia prerogativa:  la paura.  Si mise seduta sul letto e si coprì la faccia con le mani.  Dopo un attimo guardò l’orologio e con estrema sobrietà disse che si era fatto tardi.  (…) se ne andò rapidamente,  senza alludere a quanto era accaduto.

 

GABRIELA MISTRAL

TRAMONTO *

(Atardecer)

 

Sento il mio cuore fondersi

come cera nella dolcezza:

scorre un olio lento

e non un vino nelle mie vene,

e sento che la mia vita se ne fugge

silenziosa e dolce come la gazzella.

 

 

MARCELA SERRANO

ANTIGUA,  VITA MIA

(Antigua vida mía   1995)

Prima Parte

FINALE DI FESTA

1.

 

Un ricordo d’infanzia.

Violeta che arriva a casa mia con una scatola di cartone tra le braccia.  Era piuttosto grossa e il leggero tremore del suo corpo tradiva lo sforzo che doveva aver fatto per reggerla durante il tragitto in autobus da casa sua fino da me.

“Me la potresti tenere qui?”  Occhi di bambina,  supplicanti e guardinghi a un tempo.

Violeta mi consegnò la scatola con la stessa apprensione con cui si affida un tesoro da custodire.

“Qual è l’angolo più tuo della casa,  il posto dove non va mai nessuno tranne te?”

Le sue parole risuonarono così serie che mi sforzai di dare una risposta all’altezza.

“Il mio letto.”

“Bene.  Andiamo.”

In silenzio,  salimmo in camera mia.  Mi prese la scatola e la infilò sotto il letto da sé.

“Fatto.”

Prima che andasse via,  le chiesi una spiegazione.

“Domani facciamo il famoso trasloco e so che nessuno si preoccuperà troppo delle mie cose.  I grandi pensano che siano cianfrusaglie inutili.  Per questo voglio che tu conservi i miei tesori fino a quando la bufera sarà passata e la nuova casa sarà sistemata.  Così sono sicura che nessuno me li butterà via.”

Sulla porta di casa mi fissò:

“Farai buona guardia,  vero,  me lo prometti,  Josefa?”

Il giorno dopo,  venne a cercarmi durante il primo intervallo a scuola.

“Hai dormito sopra i miei quaderni?  Nessuno li ha toccati?”

“Sono quaderni?”  chiesi stupita.  Non mi aveva espressamente vietato di aprire la scatola,  ma era come se l’avesse fatto e,  nonostante la curiosità,  non mi ero arrischiata.  “Non mi avevi detto che erano i tuoi tesori?”

Mi rivolse uno sguardo tra l’arrogante e il meravigliato.

“Proprio così,  sono tesori.”

Passata una settimana,  le ricordai la scatola.

“No,  non me la ridare adesso.  Ti avviserò io quando sarà il momento.”

Lasciò passare il tempo che ritenne prudente,  poi venne a riprendersela.  La accompagnai alla fermata dell’autobus.  Era assente,  assorta nei  suoi pensieri.  Prima di separarci mi disse:

È stata una dimostrazione di fiducia davvero grande.  Sarai mia amica per tutta la vita.”

 

CARMEN YÁÑEZ

DONNA

(Mujer)

Quanto hai dato donna:

secoli di luce

che non hanno riflesso le coscienze

ingoiate da abissi di silenzio.

 

E quanto ancora:

radici per contenere la terra

velluto d’amore

una spiga per toccare il cielo

fertili semi del coraggio

per un mondo abitato dalla guerra.

 

E quanto ancora.

 

Dai tuoi occhi

albe e nebbie.

Revisione del giudizio

nella speranza dei fiori.

Piccola di piccole cose

recuperate dall’infanzia

nella scrittura dei sogni.

 

E quanto ancora.

 

Foglie che coprono il pudore dell’universo

laghi generosi di acque vergini

spessore segreto

delle profonde radici  del tuo tempo.

 

Quanto autunno

che inonda la terra

e un colore crepuscolare

nella corteccia.

 

 

ISABEL ALLENDE

EVA LUNA RACCONTA

(Cuentos de Eva Luna   1990)

DUE PAROLE

 

Portava il nome di Belisa Crepuscolario,  ma non per certificato di battesimo o trovata di sua madre,  bensì perché lei stessa l’aveva cercato fino a scoprirlo e a indossarlo.  Il suo mestiere era vendere parole.  Percorreva il paese dalle contrade più elevate e fredde alle coste torride,  installandosi nelle fiere e nei mercati,  dove montava quattro pali con un tendone,  sotto il quale si proteggeva dalla pioggia e dal sole per servire i clienti.  Non aveva bisogno di decantare la sua mercanzia,  perché dal tanto girovagare la conoscevano tutti.  C’era chi l’aspettava da un anno all’altro,  e quando si presentava in paese col suo fardello sottobraccio si metteva in coda davanti alla sua bancarella.  Vendeva a prezzi onesti.  Per cinque centesimi forniva versi a memoria,  per sette migliorava la qualità dei sogni,  per nove scriveva lettere da innamorati,  per dodici inventava insulti per nemici irriconciliabili.  Vendeva anche storie,  ma non storie di fantasia,  lunghe storie vere che recitava d’un fiato,  senza saltare nulla.  Così portava le notizie da un paese all’altro.  La gente la pagava per aggiungere una o due righe:  è nato un bimbo,  è morto il tale,  i nostri figli si sono sposati,  son bruciati i raccolti.  In ogni località le si radunava attorno una piccola folla per ascoltarla quando cominciava a parlare,  e così venivano a sapere della vita degli altri,  dei parenti lontani,  delle vicende della Guerra Civile.  A chi acquistava per almeno cinquanta centesimi regalava una parola segreta per cacciare la malinconia.  Non la stessa per tutti,  naturalmente,  perché sarebbe stato un inganno collettivo.  Ciascuno riceveva la sua con la certezza che nessun altro l’avrebbe adoperata per quello scopo nell’universo e dintorni.

 

 

GABRIELA MISTRAL

DESOLAZIONE

(Desolación)

 

La bruma spessa,  eterna,  affinché dimentichi dove

mi ha gettato il mare nella sua onda di salamoia.

La terra nella quale venni non ha primavera:

ha la sua notte lunga che quale madre mi nasconde.

 

Il vento fa alla mia casa la sua ronda di singhiozzi

e di urlo,  e spezza,  come un cristallo,  il mio grido.

E nella pianura bianca,  di orizzonte infinito,

guardo morire immensi tramonti dolorosi.

 

Chi potrà chiamare colei che sin qui è venuta

se più lontano di lei solo andarono i morti?

Tanto solo essi contemplano un mare tacito e rigido

crescere tra le loro braccia e le braccia amate!

 

Le navi le cui vele biancheggiano nel porto

vengono da terre in cui non ci sono quelli che sono miei;

i loro uomini dagli occhi chiari non conoscono i miei fiumi

e portano frutti pallidi,  senza la luce dei miei orti.

 

E l’interrogazione che sale alla mia gola

al vederli passare,  mi discende,  vinta:

parlano strane lingue e non la commossa

lingua che in terre d’oro la mia povera madre canta.

 

Guardo scendere la neve come la polvere nella fossa;

guardo crescere la nebbia come l’agonizzante,

e per non impazzire non conto gli istanti,

perché la notte lunga ora solo comincia.

 

Guardo il piano estasiato e raccolgo il suo lutto,

perché venni per vedere i paesaggi mortali.

La neve è il sembiante che svela i miei cristalli;

sempre sarà il suo biancore che scende dal cielo!

 

Sempre essa,  silenziosa,  come il grande sguardo

di Dio su di me;  sempre la sua zagara sopra la mia casa;

sempre,  come il destino che non diminuisce né passa,

scenderà a coprirmi,  terribile e estasiata.

 

 

MARCELA SERRANO

DIECI DONNE

(Diez mujeres   2011)

ANA ROSA

 

Nell’antica Cina (lo so perché un giorno ho deciso di partecipare a una conferenza gratuita che tenevano a due passi dal mio posto di lavoro,  e mi sono detta,  Ana Rosa,  sei un po‘ stupida,  perché non fai nulla per coltivare la mente,  allora ho pensato di approfittare del lavoro in centro per trarre vantaggio da quella parte della città,  perché a La Florida non si parla dell’antica Cina ma al massimo del centro commerciale Plaza Vespucio e di quanto sia caro il caffè da Starbucks o degli ultimi saldi di Zara),  come dicevo,  nell’antica Cina esisteva la convinzione popolare che il corpo fosse formato da due elementi diversi,  elementi o anime.  Uno – chiamato poera vischioso e materiale;  l’altro – hun – vaporoso ed etereo,  e si credeva che dall’unione dei due si originasse la vita,  e la morte sopraggiungesse quando i due elementi o anime si disperdevano.  A quanto pare all’hun piaceva separarsi dal corpo – perché più leggero,  credo – e di solito lo faceva mentre le persone dormivano e così,  secondo la credenza,  si originavano i sogni.  Giunto il momento finale,  questo elemento o anima era il primo ad andarsene,  perciò,  se qualcuno stava morendo,  suo figlio doveva salire sopra il tetto della casa per chiamare le anime hun e chiedere loro di tornare indietro,  e soltanto se avesse fallito sarebbe sopraggiunta la morte reale.  Quando l’ho scoperto,  ho pensato tanto a quel povero figliolo che correva sopra i tetti delle case richiamando l’anima eterea,  e mi immaginavo come doveva sentirsi se non ce l’avesse fatta,  chissà se si sentiva in colpa per non aver riportato indietro l’hun,  e se si fosse sentito in colpa chissà come si sarebbe odiato,  magari avrà creduto di dover ricevere un qualche castigo per non essere stato capace di salvare suo padre,  chissà com’era vivere con quel peso per sempre.  Ecco a che cosa pensavo quando m’immaginavo quel povero figlio mentre inseguiva le anime.

 

 

ISABEL ALLENDE

SENZA TITOLO *

(Da  Inés del alma mía   2006)

 

Odore di uomo

– ferro,  vino e cavallo-,

odore di donna

– cucina,  fumo e mare-

fragranza di ambedue,

unica ed indimenticabile,

alito di selva,

brodo denso.

 

 

ISABEL PARRA

(Santiago del Cile 1939 – )

AL SUD DEI MIEI SENTIMENTI *

(Al sur de mis sentimientos)

 

Quando esco a navigare

con la mia barchetta incantata

è come se mi portassero le tue braccia

le tue braccia,  le più amate.

 

Navigando,  navigando,

spinta dal vento,

ora posso riconoscere

il sud dei miei sentimenti.

 

Sotto le stelle

la notte cade nel mare

ed io dormo tranquilla

senza sapere che sta succedendo.

 

E mi portarono i sogni

all’ombra del castagno.

Mi svegliò l’arcobaleno,

mi sorrise l’eremita.

 

 

MARCELA SERRANO

IL TEMPO DI BLANCA

(Para que no me olvides   1993)

Prima parte

(LA CITTÀ)

 

Mia nonna mi insegnò a leggere.

Mia nonna mi mostrò i libri e mi trasmise il suo amore per loro.  Non ebbi scelta,  fu la sua eredità.  Mia nonna mi disse che con i libri non mi sarei mai sentita sola.

Mi insegnò ad avere cura dei miei occhi fino a farmi sentire padrona del luogo più prezioso,  più limpido.  Mi spiegò che se mai mi fosse venuto meno l’udito,  non sarebbe stata una grave perdita,  tutto quello che valeva la pena ascoltare era già stato scritto e l’avrei potuto riscattare con gli occhi.  Mi disse che se mi fosse mancata la voce,  non sarebbe stata la fine del mondo.  Avrei registrato i suoni dall’esterno senza restituirli e nessuno,  tranne me,  ne avrebbe sentito la mancanza.

 

(…),  mia nonna mi disse che se mai fossi stata colpita dalla sordità o dal mutismo non mi sarei dovuta preoccupare perché l’unica,  totale mutilazione era la cecità.

Dovevo prendermi cura dei miei occhi.  Solo con quelli avrei potuto leggere.  Solo quelli mi avrebbero salvato dalla solitudine.

 

 

GABRIELA MISTRAL

BALLATA *

(Balada)

 

Lui passò con un’altra;

io lo vidi passare.

Sempre dolce il vento

e la strada in pace.

E questi occhi miseri

lo videro passare!

 

Lui se ne va amando un’altra

per la terra in fiore.

È sbocciato il biancospino;

passa una canzone.

E lui se ne va amando un’altra

per la terra in fiore!

 

Lui baciò quell’altra

sulla riva del mare;

scivolò sulle onde

la luna di fior d’arancio.

E non bagnò il mio sangue

la superficie del mare!

 

Lui andrà con l’altra

per l’eternità.

Ci saranno cieli dolci.

(Voglia tacere Dio).

 

 

ISABEL ALLENDE

EVA LUNA

(Eva Luna   1987)

Tre

 

“La morte non esiste,  figlia.  La gente muore solo quando viene dimenticata”  mi spiegò mia madre poco prima di andarsene.  “Se saprai ricordarmi,  sarò sempre con te.”

“Mi ricorderò di te”  le promisi.

 

Poi mi prese una mano e con gli occhi mi disse quanto mi amava,  finché il suo sguardo non divenne di nebbia e la vita uscì da lei senza rumore.

 

 

CARMEN YÁÑEZ

PRODIGIO

(Prodigio)

a Marcia Scantlebury

 

Se in quei giorni di ottobre

le bende nere

quando davvero la paura

mordeva la carne

e noi nascondevamo nomi

nelle pieghe del sudore.

Mai fummo più vicine

alle rose

Ti ricordi quelle rosse

che paradossalmente crescevano lì,

nel cuore stesso del dolore?

Belle rose…

delle quali ci fu negato

il favore del profumo

ma non le tristi spine.

Se in quei giorni di ottobre

a Villa Grimaldi

quando neanche il mio olfatto

mi diceva che ti saresti svegliata,

Marcia,

ti avessi parlato

solo per consolarti

per curarti la ferita del viso

per liberare l’aria da un brutto sogno

per volgere lo sguardo all’indietro

prendendo il tempo per le corna

e ricostruire il velo di cipolla

che ci coprì

fino ad allora.

Se ti avessi fatto una promessa,

se avessi predetto

un incontro,  in una città

lontana,  bella

San Marco,  Venezia

la città dei rincontri

prodigiosi.

Non mi avresti creduto

Non mi avresti creduto

perché la morte batteva le ali

là fuori

e la bontà taceva.

 

 

MARCELA SERRANO

IL TEMPO DI BLANCA

Prima parte

(LA CITTÀ)

 

Quando mia nonna morì,  non mi lasciò soldi.   Il denaro in quanto tale non le era mai piaciuto,  perché temeva che potesse spezzare o disperdere più che rinsaldare i cicli di felicità.

Quando morì,  mia nonna mi lasciò un pezzo di terra.  Fu lei a insegnarmi,  quando ero piccola,  ad amare le colline e il colore dei limoni al calar del sole.  A quell’ora mi parlava di García Lorca e mi raccontava della passione del poeta per i toni dorati del tardo pomeriggio.  E illustrandomi la bellezza della vallata,  mi parlò della perpetuità della terra.  Allora ascoltai per la prima volta dalla sue labbra la parola “appartenenza”.  Mi raccontò della prima Blanca,  quella che anni addietro aveva corso per quegli stessi prati lasciandovi impressa la sua impronta.  E sempre quella volta mi parlò delle radici e di come raramente denaro e radici vadano d’accordo,  giacché il primo spezza,  le seconde legano.

La nonna mi disse che la terra dà continuità – più dei figli e di qualunque altra cosa – e che la terra avrebbe sempre portato pace nel mio cuore.  Nominò la trascendenza ed ebbi la percezione del suo rapporto mistico con la terra.

Di tutti i terreni che assegnò – eravamo tanti nipoti – per me scelse il più bello.  Nessuno se ne accorse,  perché lei non l’aveva mai dichiarato tale finché visse.  Quando lessero il testamento,  capii perché aveva scelto proprio quell’appezzamento per me.  Solo là si vedevano le colline in tutte le direzioni.  E quelle mura di alberi e pietre,  lungi dal soffocarmi,  mi avrebbero protetto.  La scelta della nonna non era stata casuale.  Lei sapeva che avrei avuto bisogno del loro riparo.

Scelsi il legno più semplice e feci costruire una casa.  Piantai con le mie mani il nespolo,  le due acacie e la giacaranda che ora la circondano.  Ricordo le sue parole:  identità,  appartenenza,  perpetuità.

La mia impronta.

È l’unico posto,  tra tutti quelli che ho avuto e in cui ho vissuto,  che ho potuto chiamare casa mia.

 

 

VIOLETA PARRA

RIN DEL ANGELITO *

 

Già se ne va per i cieli

questo caro angioletto

a pregare per i suoi nonni,

per i suoi genitori e fratellini.

Quando la carne muore,

l’anima cerca il suo posto

dentro un papavero

o dentro un uccellino.

 

La terra lo sta aspettando

con il suo cuore aperto,

per questo l’angioletto

sembra che sia sveglio.

Quando la carne muore,

l’anima cerca il suo centro

nella lucentezza di una rosa

o di un pesciolino nuovo.

 

In una culla di terra

lo dondolerà una campana

mentre la pioggia pulisce

il suo visetto nel mattino.

Quando la carne muore,

l’anima cerca il suo traguardo

nei misteri del mondo

che le ha spalancato la sua finestra.

 

Le farfalle allegre

al vedere il bell’angioletto

intorno alla sua culla

girano piano piano.

Quando la carne muore,

l’anima va dritto dritto

a salutare la Luna

e,  già che c’è,  la stellina del mattino.

 

Dove se ne andò la sua grazia?

Dove la sua dolcezza?

Perché il suo corpo

cade come una frutta matura?

Quando la carne muore,

l’anima cerca su in alto

la spiegazione della sua vita

tagliata con tanta premura,

la spiegazione della sua morte

prigioniera dentro una tomba.

Quando la carne muore,

l’anima rimane oscura.

 

 

MARCELA SERRANO

IL TEMPO DI BLANCA

Prima parte

(LA CITTÀ)

 

Disperata nel mio ozio,  entro in camera di Trinidad per fare un po’ di ordine e mi siedo sul suo letto a respirare quell’odore di bambino che ormai sta svanendo.

Ai tempi di mia nonna,  le calze erano di seta e si rammendavano.  Ai tempi di mia madre erano di nylon e si usava lo smalto per le unghie per fermare le smagliature.  Oggi sono fatte di chissà che materiale e si buttano via.

Ai tempi di mia nonna,  il consumismo praticamente non esisteva.  All’epoca di mia madre cominciarono timidamente a scoprirlo.  Adesso è diventato un’attività culturale.

Le bambole.  Mia nonna ne aveva una sola e l’amò,  la vestì e la tenne per tutta la vita a impreziosire il suo letto.  Viso di porcellana,  occhi di vetro,  un oggetto unico,  insostituibile.  Mia madre ne ebbe un paio e io non più di tre.  Ma tra quelle tre c’era la Jo.  Così si chiamava la mia bambola.  Era di gomma nera,  con la testa color cioccolato coperta di ondine in rilievo.  Adoravo la Jo e le altre due bambole venivano dopo.  Trinidad ha venti bambole e non è veramente affezionata a nessuna.  Sono tutte intercambiabili e il suo favore non dura per più di una notte.  Nella vita di Trinidad non c’è posto per la Jo.  Non perché è nera o di gomma,  ma perché è una tra le tante.  Quando rimetto in ordine,  come oggi,  butto via resti di bambole di cui Trinidad non sentirà nemmeno la mancanza.  Ma come si fa ad affezionarsi alla plastica rosa delle moderne Barbie?

Ai tempi di mia nonna – me lo raccontava lei – non si buttava via niente.  Nemmeno l’esperienza.  Un bacio era una cosa rara nella vita di una persona e veniva custodito come un tesoro.  Il dolore si conservava gelosamente per non dimenticarlo.  E da quello si imparava.  Adesso,  calze,  dolori e baci,  consumiamo tutto,  rompiamo tutto,  ci disfiamo di tutto.

Trinidad e mia nonna non si sono conosciute.

 

 

 

GABRIELA MISTRAL

TUTTO È GIROTONDO *

(Todo es ronda)

 

Le stelle sono girotondo di bambini,

che giocano a spiare la terra…

Le spighe di grano sono figure di bambine

che giocano a ondeggiare,  a ondeggiare…

 

I fiumi sono girotondi di bambini

che giocano a incontrarsi nel mare…

Le onde sono girotondi di bambine,

che giocano ad abbracciare la Terra…

 

 

ISABEL ALLENDE

LA CASA DEGLI SPIRITI

3.

Clara,  chiaroveggente

 

Clara aveva dieci anni quando decise che non valeva la pena di parlare e si chiuse nel mutismo.  La sua vita cambiò totalmente.  Il medico di famiglia,  il grasso e affabile  dottor Cuevas,  cercò di guarirla dal silenzio con pillole di sua invenzione,  con vitamine in sciroppo e pennellature di miele al borace nella gola,  ma senza alcun risultato apparente.

 

La Nana era convinta che un buon spavento poteva far sì che la bambina parlasse e passò nove anni a inventare espedienti disperati per terrorizzare Clara,  ma riuscì soltanto a immunizzarla contro la sorpresa e lo spavento.  Dopo poco tempo,  Clara non aveva paura di niente,  non la turbavano le apparizioni di mostri lividi ed emaciati nella sua stanza,  né i colpi dei vampiri e dei demoni alla sua finestra.  La Nana si mascherava da filibustiere senza testa,  da boia della Torre di Londra,  da lupo mannaro e da diavolo con le corna,  secondo l’ispirazione del momento e le idee che ricavava da giornaletti del terrore che comprava a questo scopo,  e sebbene non fosse capace di leggerli,  ne imitava le illustrazioni.  Prese l’abitudine di scivolare segretamente lungo i corridoi per balzare addosso alla bambina nel buio,  di ululare dietro le porte,  e di nascondere insetti vivi nel letto,  ma niente raggiunse lo scopo di tirarle fuori almeno una parola.  Talvolta Clara perdeva la pazienza,  si gettava a terra,  scalpitava e gridava,  ma senza articolare alcun suono in linguaggio conosciuto,  oppure scriveva sulla lavagnetta che portava sempre con sé i peggiori insulti alla povera donna,  che se ne andava in cucina a piangere per l’incomprensione.

“Lo faccio per il tuo bene!”  singhiozzava la Nana avvolta in un lenzuolo insanguinato e con la faccia annerita da un tappo di sughero bruciato.

Nivea le proibì di continuar a spaventare sua figlia.  Si rese conto che lo stato di turbamento aumentava i suoi poteri mentali e provocava disordine tra le apparizioni che circondavano la bambina.

 

L’abilità di Clara nel muovere oggetti senza toccarli non le passò con le mestruazioni,  come vaticinava la Nana,  bensì andò accentuandosi fino ad avere tanta pratica da muovere i tasti del piano col coperchio abbassato,  sebbene non fosse mai riuscita a spostare lo strumento per il salotto,  come era suo desiderio.  Intenta in quelle stravaganze impiegava la maggior parte del suo tempo e delle sue energie.  Sviluppò la capacità d’indovinare una stupefacente percentuale di carte nel mazzo e inventò giochi irreali per divertire i suoi fratelli.  Suo padre le proibì di scrutare il futuro nelle carte e di evocare fantasmi e spiriti irrequieti che turbavano il resto della famiglia e terrorizzavano la servitù,  ma Nivea capì che quante più limitazioni e paure avesse dovuto subire sua figlia minore,  tanto più lunatica sarebbe diventata,  sicché decise di lasciarla in pace con i suoi trucchi da spiritista,  i suoi giochi da pitonessa e il suo silenzio da caverna,  facendo in modo di amarla senza condizioni e di accettarla così com’era.

 

Barrabás stava accanto alla bambina giorno e notte,  (…).  Le stava sempre intorno come una gigantesca ombra silenziosa come la bambina,  si stendeva ai suoi piedi quando lei si sedeva e di notte le dormiva al fianco con sbuffi da locomotiva.  Si affiatò talmente con la sua padrona,  che quando lei si metteva a fare la sonnambula per la casa,  il cane la seguiva con lo stesso atteggiamento.  Nelle notti di luna piena era normale vederli passeggiare per i corridoi,  come due fantasmi che galleggiassero nella pallida luce.

 

 

CARMEN YÁÑEZ

FUGACE

 

Un’idea di addio

virtuale ed effimera

e tuttavia infinita.

Un’idea passeggera di lacrime,  abbracci

senza parole,

moltiplica i suoni,  i cardini,

le soglie,  le maniglie,

il delizioso movimento dei treni

e infine il silenzio dell’addio.

 

Una crosta traditrice

resta per sempre sulla banchina della memoria

nei commiati

irrevocabili.

 

 

MARCELA SERRANO

DIECI DONNE

MANÉ

 

E poi è stato in quell’epoca – la chiamo l’epoca della serenità – che ho capito che la vita mi aveva fatto un regalo enorme:  ero stata amata.  E a mia volta avevo amato.

Amare ed essere amata,  come mi hanno confermato il tempo e gli occhi,  è un bene raro.  Molte persone lo danno per scontato,  credono che sia ordinaria amministrazione,  e che tutti,  in un modo o nell’altro lo abbiano sperimentato.  Oserei dire che non è così:  io lo vedo come un dono immenso.  Una ricchezza.  Sono tante le persone che non lo conoscono,  l’amore non si trova a ogni angolo.  È come vincere alla lotteria.  Diventi milionaria.  E anche se poi i soldi finiscono,  chi potrà portarti via ciò che hai vissuto?,  chi potrebbe accusarti di avere avuto una vita sciatta?  Non c’è niente di sciatto se sei stata milionaria.  Con l’amore succede così.  Anche se il Rucio mi ha lasciata,  anche se rimanessi sola fino alla fine dei miei giorni,  non importa,  quello che ho provato per lui mi ha trasformata,  è indiscutibile.  Quando sono riuscita a comprenderlo,  l’ansia si è dissolta.

 

 

VIOLETA PARRA

GRAZIE ALLA VITA

(Gracias a la vida)

 

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato due astri che quando li apro

distinguo perfettamente il nero dal bianco

e nell’alto cielo il suo fondo stellato,

e tra le moltitudini l’uomo che amo.

 

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato l’udito che in tutta la sua ampiezza

registra notte e giorno,  grilli e canarini,

martelli,  turbine,  latrati,  acquazzoni

e la voce così tenera del mio bene amato.

 

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il suono e l’abecedario

e con lui le parole che penso e pronuncio

madre,  amico,  fratello e la luce che rischiara

la strada dell’anima di chi sto amando,

 

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il passo dei miei piedi stanchi

con loro ho camminato per città e pozzanghere,

spiagge e deserti,  montagne e pianure

e per la tua casa,  la tua strada,  il tuo cortile.

 

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il cuore che agita il suo confine

quando guardo il frutto dell’intelletto umano,

quando guardo il bene così lontano dal male,

quando guardo il fondo dei tuoi occhi chiari.

 

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto

così distinguo la gioia dal dolore

i due materiali che formano il mio canto

e il canto vostro che è il medesimo canto

e il canto di tutti che è il mio proprio canto.

 

Grazie alla vita che mi ha dato tanto.

 

 

* (Traduzione di Ezio Beccaria)

 

 

21 Agosto 2013