LETTURE DA AUTORI LATINO-AMERICANI
(Scelte da Ezio Beccaria)
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Tus tangos son criaturas abandonadas
Que cruzan sobre el barro del callejón,
cuando todas las puertas están cerradas
y ladran los fantasmas de la canción.
Malena canta el tango con voz quebrada,
Malena tiene pena de bandoneón.
Homero Manzi
(Añatuya, Argentina 1907 – Buenos Aires 1951)
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ROLANDO CÁRDENAS
(Punta Arenas, Cile 1932 – 1990)
RITORNO
(Regreso)
Un giorno tornerò alla città perduta
come le stagioni tutti gli anni,
come un’ombra in più nei pomeriggi,
chiedendo di antenati
o del fiume nelle cui acque si rompeva il cielo.
Sarà in inverno
per rivivere meglio i grandi freddi,
per vedere di nuovo
il fumo delle navi che tagliano l’aria,
per ascoltare nelle notti
i piccoli rumori della neve.
Ci siederemo a tavola come se niente fosse
a provare il pane di altri giorni.
Un uccello che incroci per la finestra
ci farà pensare al bosco di pini
dove il vento si rivoltava furioso.
Anche chiedevano di antichi amici
pensando forse al viso di qualche ragazza.
Ancora esisterà l’osteria
dove si riunivano vecchi contadini.
Ci inviteranno a bere e a conversare
di argomenti che nessuno dimentica.
Il tempo non è più che ritorno a altro tempo.
“Tutti ci riuniremo qualche volta sotto terra.”
Qualcuno ci riconoscerà girato l’angolo.
Sarà come venire a salutare da un’altra epoca.
Da EN EL INVIERNO DE LA PROVINCIA
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ALFREDO LE PERA
(São Paulo 1900 – 1935)
MI BUENOS AIRES QUERIDO
(1934)
Mia cara Buenos Aires
quando ti rivedrò
non ci saranno più pene né oblio.
Il piccolo lampione della strada in cui nacqui
fu sentinella delle mie promesse d’amore;
sotto la sua quieta fievole luce io la vidi
la mia ragazza, splendida come il sole.
Oggi, che il destino vuole che io ti riveda,
città porteña del mio unico amore
e sento il lamento di un bandoneón,
dentro il petto chiede tregua il cuore.
Mia cara Buenos Aires
terra cara,
dove la mia vita finirò.
Al tuo riparo
non ci sono delusioni,
volano gli anni,
si dimentica il dolore…
Come una carovana,
passano i ricordi
con una scia
dolce di emozione.
Voglio che tu sappia
che al solo ricordarti,
se ne va la tristezza
dal cuore.
La piccola finestra nella mia strada di periferia
dove sorride una ragazza in fiore;
desidero ancora tornare a contemplare
quegli occhi che guardando accarezzano.
Nella stradina più malfamata una canzone
recita la sua preghiera di coraggio e di passione.
Una promessa e un sospiro
e quel canto cancellò una lacrima di pena.
Mia cara Buenos Aires
quando ti rivedrò
non ci saranno più pene né oblio.
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ISABEL ALLENDE
(Lima, Perù 1942 – )
EVA LUNA RACCONTA
(Cuentos de Eva Luna 1990)
WALIMAI
Il nome che mi diede mio padre è Walimai, che nella lingua dei nostri fratelli del nord vuol dire vento. Posso raccontartelo perché ora sei come mia figlia e hai il mio permesso di nominarmi, anche se solo quando siamo in famiglia. Si deve stare molto attenti con i nomi delle persone e degli esseri viventi, perché nel pronunciarli si tocca il loro cuore ed entriamo dentro la loro forza vitale. Così ci salutiamo come parenti di sangue. Non capisco la facilità degli stranieri che si chiamano l’un l’altro senza ombre di timore, il che non è solo una mancanza di rispetto, ma può causare anche gravi pericoli. Ho notato che quelle persone parlano con la massima leggerezza, senza tener presente che parlare è anche essere. Il gesto e la parola sono il pensiero dell’uomo. Non si deve parlare invano, questo ho insegnato ai miei figli, ma i miei consigli non sempre sono ascoltati. Anticamente i tabù e le tradizioni erano rispettati. I miei nonni e i nonni dei miei nonni ricevettero dai loro nonni le conoscenze necessarie. Nulla cambiava per loro. Un uomo con un buon insegnamento poteva ricordare ciascuno degli insegnamenti ricevuti e così sapeva come agire in ogni circostanza. Ma poi vennero gli stranieri parlando contro la sapienza degli anziani e spingendoci fuori dalla nostra terra. Ci inoltrammo sempre più nella selva, ma loro ci raggiungono sempre, a volte ci mettono anni, ma alla fine arrivano di nuovo, e allora noi dobbiamo distruggere i seminati, metterci i bambini in spalla, legare gli animali e partire. Così è stato da quando mi ricordo: lasciare tutto e metterci a correre come topi e non come i grandi guerrieri e gli dèi che popolarono questo territorio nell’antichità. Alcuni giovani provano curiosità per i bianchi. E mentre noi andiamo verso il profondo della foresta per continuare a vivere come i nostri antenati, altri intraprendono il cammino opposto. Consideriamo coloro che se ne vanno come se fossero morti, perché pochissimi ritornano, e chi lo fa è tanto cambiato che non possiamo riconoscerlo come parente.
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ALFONSINA STORNI MARTIGNONI
(Sala Capriasca, Svizzera 1892 – Mar del Plata, Argentina 1938)
PRESENTIMENTO
(Presentimiento)
Ho il presentimento di avere molto poco da vivere.
Questa mia testa pare un crogiolo,
purifica e consuma,
ma senza un gemito, senza un accenno di orrore.
Per uccidermi chiedo che un pomeriggio senza nubi,
sotto il limpido sole
nasca da un grande gelsomino una vipera bianca
che dolce, dolcemente, mi punga il cuore.
Da EL DULCE DAÑO (1918)
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ATAHUALPA YUPANQUI
(Pergamino, Argentina 1908 – 1992)
LUNA TUCUMANA *
(Luna tucumana)
Io non canto alla luna
perché fa luce e niente più,
le canto perché conosce
il mio lungo camminare.
Ahi, piccola luna tucumana,
tamburello Calchaqui,
compagna dei gauchos
per i sentieri del Tafí.
Perso nelle nebbie
chi sa, vita mia,
per dove passerò,
piuttosto, quando sorgerà la luna,
canterò, canterò
al mio amato Tucumán
canterò, canterò.
Con speranza o con pena
per i campi di Acheral
ho visto la luna buona
che baciava il canneto.
In qualcosa ci assomigliamo,
luna della solitudine,
io me ne vado camminando e cantando
che è il mio modo di risplendere.
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MARCELA SERRANO
(Santiago del Cile 1951 – )
ANTIGUA, VITA MIA
(Antigua vida mía 1995)
Prima Parte
FINALE DI FESTA
1.
INTERMEZZO
…
Nonostante lo studio, che portò avanti in eterno, e una vita concitata sempre fitta di attività, Cayetana dimostrò sempre una tenerezza incontenibile nei confronti della sua piccola Violeta dal momento che condivideva il tradizionale ruolo di madre con Carlota e Marcelina. La chiamava “la mia melina” e la mordicchiava tutta. La bambina, di notte, andava a guardarsi allo specchio e si domandava se assomigliasse davvero a una mela. La sua mamma la faceva ridere e fu proprio questa risata, riflessa nei suoi occhi, che lei amò sopra a tutto: Violeta cercava sempre gli occhi di Cayetana.
Uno dei ricordi più brutti della sua infanzia fu l’incidente del vaso polacco. Era un vaso enorme, decorato a fiori, molto raffinato, uno dei pochi beni appartenenti al passato di suo padre. Certe volte Violeta giocava al “mal di mare” in soggiorno: girava vorticosamente su se stessa con gli occhi chiusi e le braccia spalancate fino a perdere l’equilibrio. Il padre le diceva sempre di non farlo perché sarebbe potuta cadere addosso al vaso oppure avrebbe potuto urtarlo con le braccia tese. E un giorno successe. Ruppe il vaso.
Tadeo per poco non perdette il controllo. Violeta, impietrita, cercò gli occhi della madre: dentro vi trovò un misto di fiducia e leggerezza. Senza bisogno di dire una parola, solo con gli occhi, Cayetana era riuscita a ridimensionare il disastro commesso da Violeta. Così l’incidente del vaso rotto, nei ricordi della bambina, fu catalogato come un errore, una spiacevole monelleria, non come un atto malvagio. Grazie agli occhi di Cayetana.
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MIGUEL ÁNGEL ASTURIAS
(Città del Guatemala 1899 – 1974)
ADDORMENTATA UNA STELLA!
Albero, io m’abbandono,
a te, falegname,
tra i miei rami tenni
addormentata una stella,
e nulla m’importa
l’ascia che taglia
la sega che sega
con denti di cagna
l’unghia, la sgorbia.
Albero, io m’abbandono,
a te, falegname,
tra i miei rami tenni
sveglia la pioggia,
e nulla m’importa.
Galoppa, galoppa
su di me la tua pialla!
Minimo è il cambiamento!
Chi era il tuo tetto,
la tua tavola, la sedia, il tuo letto.
Sveglia la pioggia,
tra i miei rami tenni.
Albero, io m’abbandono,
a te, falegname,
tra i miei rami tenni
addormentata una stella!
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MIGUEL ÁNGEL LENS
(Argentina 1951 – 2011)
SCINTILLII *
(Destellos)
Strano universo
dove un adolescente
innamorato
si trucca
e incendia l’ombra
delle sue notti deserte
con il rosso potente
di una matita per labbra.
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GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ
(Aracataca, Colombia 1927 – 2014)
DELL’AMORE E DI ALTRI DEMONI
(Del amor y otros demonios 1994)
Il 26 ottobre 1949 non fu una giornata con grandi notizie. Il professor Clemente Manuel Zabala, caporedattore del quotidiano dove facevo i miei primi passi come giornalista, mise fine alla riunione del mattino con due o tre suggerimenti di prammatica. Non affidò un lavoro concreto ad alcun redattore. Qualche minuto dopo venne informato per telefono che stavano vuotando le cripte funerarie dell’antico convento di Santa Clara, e mi ordinò senza illusioni:
“Va’ a fare un giro da quelle parti e vedi un po’ cosa riesci a cavarne.”
Lo storico convento delle clarisse, trasformato in ospedale da un secolo, doveva essere venduto affinché al suo posto si costruisse un albergo a cinque stelle. La preziosa cappella era quasi scoperchiata per via del crollo progressivo del tetto, ma nelle sue cripte rimanevano sepolte tre generazioni di vescovi e badesse e altri personaggi di rango. Il primo passo consisteva nello sgomberarle, nel consegnare i resti a chi li avesse reclamati, e nel buttare i rimanenti nella fossa comune.
Mi stupì la primordialità del metodo. Gli operai sventravano le fosse a colpi di zappa e piccone, tiravano fuori le bare marce che si sfasciavano appena venivano spostate, e separavano le ossa dall’impiastro di polvere con brandelli di abiti e capelli avvizziti. Più il morto era illustre e più il lavoro era arduo, perché bisognava frugare tra le vestigia dei corpi e cernere con sottigliezza i residui per recuperarne le pietre preziose e i pezzi di gioielleria.
Il capomastro copiava i dati della lapide su un quaderno da scolaro, sistemava le ossa in mucchietti separati, e metteva il foglio col nome sopra ognuno per evitare che si confondessero. Sicché la mia prima visione quando entrai nel tempio fu una lunga fila di cumuli di ossa, riscaldate dall’inclemente sole di ottobre che penetrava a fiotti attraverso gli spiragli del soffitto, e senza altra identità che il nome scritto a matita su un pezzo di carta. Quasi mezzo secolo dopo sento ancora lo stupore che mi causò quella testimonianza terribile del passaggio devastante degli anni.
C’erano, fra molti altri, un viceré del Perù e la sua amante segreta; don Toribio de Cáceres y Virtudes, vescovo di questa diocesi; diverse badesse del convento, fra cui madre Josefa Miranda, e il baccelliere in belle arti don Cristóbal de Eraso, che aveva consacrato metà della sua vita a fabbricare i soffitti a cassettoni. C’era pure una cripta chiusa con la lapide del secondo marchese di Casalduero, don Ygnacio de Alfaro y Dueñas, ma quando l’aprirono si vide che era vuota e mai usata. Invece i resti della sua marchesa, donna Olalla de Mendoza, avevano una lapide propria nella cripta accanto. Il capomastro non vi diede importanza: era normale che un nobile creolo si fosse allestito la sua tomba e che l’avessero sepolto in un’altra.
Ma, nella terza nicchia dell’altare maggiore, dalla parte del Vangelo, ecco la notizia. La lapide schizzò via in pezzi al primo colpo della zappa, e una chioma viva di un color rame intenso si sparse fuori dalla cripta. Il capomastro volle estrarla intera con l’aiuto dei suoi operai, e più la tiravano e più sembrava lunga e abbondante, finché non uscirono gli ultimi capelli ancora attaccati a un cranio di ragazzina. Nella nicchia non rimasero che pochi ossicini minuti e dispersi, e sulla lapide di marmo corroso dal salnitro era leggibile solo un nome senza cognomi: Sierva María de Todos los Angeles. Dispiegata a terra, la chioma splendida era lunga ventidue metri e undici centimetri.
…
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VICENTE HUIDOBRO
(Santiago del Cile 1893 – 1948)
LA POESIA È UN ATTENTATO CELESTE
(La poesia es un atentado celeste)
Io sono assente ma in fondo a questa assenza
C’è l’attesa di me stesso
E quest’attesa è un’altra forma di presenza
L’attesa del mio ritorno
Io sto in altri oggetti
Viaggio dando un po’ della mia vita
A certi alberi e a certe pietre
Che mi hanno aspettato molti anni
Si sono stancati di aspettare e si sono seduti
Io non sono e sono
Sono assente e sono presente in stato d’attesa
Essi volevano il mio linguaggio per esprimersi
E io volevo il loro per esprimerli
Ecco qui l’equivoco l’atroce equivoco
Angoscioso penoso
Mi addentro in queste piante
Lasciando i miei abiti
Mi stanno cadendo le carni
E il mio scheletro si va rivestendo di cortecce
Sto diventando albero
Quante volte mi sono convertito in altre cose…
È doloroso e pieno di tenerezza
Potrei gridare ma si spaventerebbe la transustanziazione
Bisogna restare in silenzio Aspettare in silenzio
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ALFONSINA STORNI MARTIGNONI
UOMO
(Hombre)
Uomo, io voglio che tu comprenda il mio male,
uomo, io voglio che tu mi dia dolcezza,
uomo, io vado per i tuoi stessi sentieri;
figlio di madre: comprendi la mia pazzia…
Da IRREMEDIABLEMENTE (1919)
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FRANCISCO COLOANE
(Quemchi, Cile 1910 – 2002)
I BALENIERI DI QUINTAY
(Golfo de Penas 1945)
TERESA TEKENIKA
…
Si verificò a quel punto uno degli strani enigmi del mare australe nel paese degli yámani: una specie di enorme foca emerse fuori dall’acqua con quasi metà del torace e si mise a battere le pinne come se applaudisse. Era un auquehuáuhuen, giovane elefante marino di circa tre metri e mezzo. La giovane yámana, stupita, sorrise vedendo le evoluzioni che faceva tra il banco di sargassi. Non aveva mai visto una grossa foca danzare in modo così grazioso. Quelle a doppio manto sì, lo fanno quando saltano da uno scoglio sommerso librandosi in aria, o i delfini, che compiono giravolte in coppia nella stagione degli amori.
Con gli occhi obliqui di cristallo liquido, guardò la pescatrice richiamandola con le pinne pettorali. Poi allungò verso di lei il muso rilucente ed emise un suono da tromba sommersa. Allora Tekenika scese dallo scoglio, si inginocchiò davanti a quella divinità ed entrambi si fissarono penetrando a fondo nelle reciproche anime.
La foca maschio manifestava il proprio pentimento per averle giocato tanti scherzi, ma senza volerle fare dispetto, divorando con gusto le esche, e lasciandole l’amo perché ci attaccasse altro cibo. Con indubbia galanteria, le disse che si sarebbe lasciato catturare dalla bellissima pescatrice, ma in tal caso non avrebbe potuto più rivedere la sua bellezza. Si mise a gironzolare lungo le sponde tra due ghiacciai. Le raccontò che di notte si mimetizzava sulle rocce e poi si addormentava sulla sabbia soffice conservando nella memoria quell’immagine folgorante sulla riva del mare nella baia Tekenika, e un senso di rimpianto nel suo cuore di elefante marino.
La giovane yámana socchiudeva gli occhi incantata per le emozioni che quella presenza risvegliava in lei. Sentimenti confusi si mescolavano nella sua mente con le ombre e le luci che emanavano dai sargassi galleggianti, quasi intuissero, stupiti, le manifestazioni d’amore scaturite dal cuore dell’elefante marino e della ragazza yámana.
Lentamente, si avvicinò alla divinità…
“Auquehuáuhuen… portami via tra le tue forti braccia. O vorresti forse vivere con me sulla terraferma? Perché io, nelle profondità gelide in cui tu sei cresciuto… sarebbe terribile! Così tenebrosi e freddi devono essere i luoghi dove tu abiti…”
“Giovane e graziosa fanciulla”, esclamò l’elefante marino, “come puoi paragonare la bianchezza accogliente della mia immensità marina con la durezza rocciosa della tua terraferma? La dolcezza delle mie sponde con l’asprezza delle tue scogliere?
…
Ti porterò sulla mia larga schiena, non cadrai, te lo assicuro. Non vi sarà nulla di sgradevole ma molte sorprese che ti incanteranno.”
Così la strana coppia salpò lungo la rotta che le carte nautiche chiamano Passo dei Timbales.
…
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NICOLAS GUILLEN
(Camagüey, Cuba 1902 – 1989)
QUANDO SON VENUTO AL MONDO
Quando son venuto al mondo,
nessuno mi stava aspettando;
così il mio dolore profondo
mi si allevia camminando,
perché quando son venuto al mondo,
ti dico,
nessuno mi stava aspettando.
Guardo gli uomini nascere,
guardo gli uomini passare;
bisogna camminare,
bisogna guardare per vedere,
bisogna camminare.
Altri piangono, e io me la rido,
perché il riso è tutta salute:
lancia della mia potenza,
corazza della mia virtù.
Altri piangono, e io me la rido,
perché il riso è tutta salute.
Cammino con i miei piedi,
senza stampelle o bastone,
e la mia voce intera
e la voce intera del sole.
Cammino con i miei piedi,
senza stampelle o bastone.
Con l’anima in carne viva,
qua sotto, sogno e lavoro;
già sarà quello di sotto sopra,
quando quello di sopra sarà sotto.
Con l’anima in carne viva,
qua sotto, sogno e lavoro.
C’è gente che mi vuol male,
perché sono un poveraccio.
Guardo gli uomini nascere,
guardo gli uomini passare;
bisogna camminare,
bisogna guardare per vedere,
bisogna camminare.
Quando son venuto al mondo,
ti dico,
nessuno mi stava aspettando;
così il mio dolore profondo,
ti dico,
mi si allevia camminando,
ti dico,
perché quando son venuto al mondo,
ti dico,
nessuno mi stava aspettando.
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FÉLIX LUNA
(Buenos Aires 1925 – 2009)
ALFONSINA E IL MARE
(Alfonsina y el mar 1969)
Per la soffice sabbia che il mare lambisce
la sua piccola orma non torna più
e un sentiero solitario di pena e silenzio arrivò
all’acqua profonda
e un sentiero solitario di pure pene
arrivò alla spuma.
Dio sa che angustia ti accompagna
che dolori vecchi hanno zittito la tua voce
per coricarti cullata nel canto
delle chiocciole marine
la canzone che canta nel fondo oscuro del mare
la chiocciola.
Te ne vai Alfonsina con la tua solitudine.
Che nuove poesie andasti a cercare?
E una voce antica di vento e di mare
ti lacera l’anima
e la sta chiamando
e te ne vai, fin laggiù, come in sogno,
addormentata, Alfonsina, vestita di mare.
Cinque piccole sirene ti porteranno
per strade di alghe e di corallo
e fosforescenti cavallucci marini
ti faranno un girotondo attorno.
E gli abitanti dell’acqua
vanno a nuotare in fretta accanto a te.
Abbassami un po’ di più la lampada
lasciami dormire, balia mia
e se lui chiama, non dirgli che ci sono
digli che Alfonsina non torna,
e se lui chiama non dirgli mai che ci sono,
dì che me ne sono andata.
Te ne vai Alfonsina con la tua solitudine.
Che nuove poesie andasti a cercare?
E una voce antica di vento e di mare
ti lacera l’anima
e la sta chiamando
e te ne vai, fin laggiù, come in sogno,
addormentata, Alfonsina, vestita di mare.
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MARCELA SERRANO
QUEL CHE C’È NEL MIO CUORE
(Lo que está en mi corazón 2001)
Prima parte
ORFANE DELL’APOCALISSE
SABATO
2.
(…): di rivoluzionario ho soltanto il nome. Essendo nata verso la metà degli anni sessanta da genitori politicamente impegnati, in quale altro modo potevano chiamarmi, se non Camila? Non si sono ancora messi d’accordo sulla personalità cui avevano voluto rendere omaggio, mio padre dice Cienfuegos, mia madre Camilo Torres. Quest’ultimo era stato assassinato qualche giorno prima che nascessi, nel lontano 1966, per cui tendo a credere di più a mia madre. E, oltre a essere stata vittima di tutte le nuove teorie relative all’educazione dei figli e avere respirato l’aria di cambiamento che si doveva respirare in ogni casa perbene, non ho altri precedenti estremisti al di là di questi.
Quando nel mio paese venne rovesciato l’unico governo socialista salito al potere per via elettorale, non avevo più di sette anni. (…). I miei genitori si amavano ancora e, pur avendo la possibilità di scegliersi un posto migliore dove vivere, avevano deciso di restare in Cile e di combattere contro la dittatura. Per questo la casa dove sono cresciuta era tutt’altro che stabile, i mestieri che i miei genitori avevano potuto svolgere durante quegli anni erano al limite della sopravvivenza, e le uniche ricchezze che avevo conosciuto erano la discrezione e il segreto, tutto era tacito e sottile, ma comunque presente. Quando incarcerarono mia madre, per esempio, a scuola non ne parlai con nessuno; e non perché mi avessero detto di non farlo, ma perché sapevo da sola, istintivamente, che cosa dire e che cosa non dire. Mi abituai a trascorrere la notte accudita da sconosciuti, (…), il che mi fece crescere nutrendo una certa fiducia nel genere umano, anche se adesso, da grande, non ne sono più così sicura. Sono stata educata a provare ribrezzo per la mancanza di libertà e da sempre ho intuito che la democrazia è il migliore dei destini di una nazione. Ma niente di più. Mia madre stava molto attenta al suo modo di esprimersi, non so se ciò era dovuto al rispetto per noi in quanto individualità diverse da lei, o nell’intento di darci una maggiore sicurezza nella clandestinità, ma l’unica parola d’ordine della mia educazione è stata solidarietà, nessun’altra. Quando a volte mi capita di riascoltare il linguaggio di quel tempo, con la sua terminologia reboante, dogmatica e totalitaria, ringrazio il cielo per essere stata allevata al di fuori di quel gergo, e non m’importa quali fossero le ragioni di fondo.
…
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VÍCTOR JARA
(San Ignacio, Cile 1932 – Santiago del Cile 16 Settembre 1973)
CANTO, COME MI VIENI MALE
(Canto, que mal me sales)
…
Canto, come mi vieni male
quando devo cantare la paura!
Paura come quella che vivo,
come quella che muoio, paura
di vedermi tra tanti e tanti
momenti dell’infinito
in cui il silenzio e il grido
sono le mete di questo canto.
Ciò che vedo mai lo vidi.
Ciò che ho sentito e che sento
farà sbocciare il momento.
(Estadio Chile 1973)
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PABLO NERUDA
(Parral, Cile 1904 – 1973)
SE UN GIORNO IL TUO CUORE SI FERMA
Se un giorno il tuo cuore si ferma,
se qualcosa smette di bruciare per le tue vene,
se la voce dalla bocca ti esce senza divenire parola,
se le tue mani si scordano di volare e s’addormentano,
Matilde, amore, lascia le tue labbra socchiuse
perché quel tuo ultimo bacio deve durare con me,
deve restare immobile per sempre sulla tua bocca
perché così accompagni anche me nella mia morte.
Morirò baciando la tua folle bocca fredda,
abbracciando il grappolo perduto del tuo corpo,
e cercando la luce dei tuoi occhi serrati.
E così quando la terra riceverà il nostro abbraccio
andremo confusi in una sola morte
a vivere per sempre l’eternità di un bacio.
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OSVALDO SORIANO
(Mar del Plata, Argentina 1943 – 1997)
FÚTBOL
(Cuentos de fútbol)
GALLARDO PÉREZ, ARBITRO
Quando io giocavo a pallone, più di trent’anni fa, in Patagonia, l’arbitro era il vero protagonista della partita. Se la squadra locale vinceva, gli regalavano una damigiana di vino di Río Negro; se perdeva, lo incarceravano. È chiaro che la cosa più frequente era il regalo della damigiana, perché l’arbitro e i giocatori ospiti non avevano la vocazione al suicidio.
C’era, a quei tempi, una squadra che in casa era imbattibile: Barda del Médio. Il paese non aveva più di tre o quattrocento abitanti. Se ne stava inchiodato in mezzo alle dune, con una strada centrale lunga cento metri e, più in là, casupole di mattoni come nel far west. Sulla riva del fiume Limay c’era il campo, circondato da una recinzione di fil di ferro intrecciato e con una tribuna di legno con una cinquantina di posti. Erano i “distinti”, quelli dei commercianti, dei dipendenti statali e dei preti. Gli altri vedevano la partita arrampicati sul tetto delle Ford A o sui pianali dei camion dell’impresa che stava costruendo la diga.
…
Io giocavo nel Confluencia, (…)
…
Il Confluencia non s’era mai piazzato più in là del sesto posto, ma a volte battevamo la squadra campione. Molto di rado, ma le facevamo prendere un bello spavento.
Quel giorno dovevamo giocare sul campo del Barda del Médio, dove mai nessuno aveva vinto. Le squadre “grandi” scalavano già dalle loro previsioni i due punti della partita che dovevano giocare in quel posto d’inferno. I ragazzi del Barda del Médio, parenti di indios e di cileni clandestini, erano cattivi come noi pensavamo che dovessero essere gli olandesi o gli svedesi.
Certo picchiavano come se fossero in guerra. Per loro, che quando andavano in trasferta finivano sempre travolti da una goleada, era impensabile perdere in casa.
…
Allora, tutte le squadre che andavano a giocare a Barda del Médio ne approfittavano per dare una giornata di libertà ai giocatori migliori e per provare qualche ragazzo che prometteva bene nei gironi minori. Insomma, la partita era perduta in partenza.
L’arbitro arrivava per tempo, pranzava gratis e poi espelleva il più bravo della squadra ospite e fischiava un rigore senza che fosse passata la prima ora e che la tribuna cominciasse a innervosirsi. Dopo andava a ritirare la damigiana di vino e magari, se la partita era finita con una goleada, si fermava per il ballo.
…
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FERNANDO EZEQUIEL SOLANAS
(Buenos Aires 1936 – )
TORNO AL SUD *
(Vuelvo al Sur 1988)
Torno al Sud
come si torna sempre all’amore,
torno a voi,
col mio desiderio, col mio timore.
Porto il Sud,
come un destino del cuore,
sono del Sud
come le arie del bandoneon.
Sogno il Sud
immensa luna, cielo capovolto,
cerco il Sud,
il tempo aperto
e il suo poi.
Amo il Sud,
la sua buona gente, la sua dignità,
sento il Sud,
come il tuo corpo nell’intimità.
Ti amo Sud,
Sud, ti amo.
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CARMEN YÁÑEZ
(Santiago del Cile 1952 – )
FINESTRA SULL’AMORE
La radice che profuma di umidità,
l’intima ombra in cui
modella a poco a poco la sua statura.
Quel calore impermeabile
che avvolge piacevole la vita.
Da lì la linfa,
il mistero affezionato a queste pareti,
soavi, profonde
in cui cadiamo blandamente
ricercando l’origine.
Quando invento
un palato di miele nella tua bocca.
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MARCELA SERRANO
ANTIGUA, VITA MIA
(Antigua vida mía 1995)
Prima Parte
FINALE DI FESTA
1.
INTERMEZZO
…
Oggi che è il giorno del tuo compleanno, desidero ricordarti una cosa importante, stellina mia, cioè la tua condizione di privilegiata. Compi tredici anni e le mie parole ti suoneranno strane, ma ho bisogno che, tra qualche anno, le ricordi.
La gente come te probabilmente non avrà mai bisogno del tuo aiuto, sa sempre come arrangiarsi. Sono gli altri che avranno bisogno di te. E questo, Violeta, non vale solo per i tuoi studi e per il lavoro che sceglierai, ma per il mondo.
La gente comune, Violeta, è gente semplice. Non sono persone particolarmente intelligenti o interessanti né raffinate, di successo, né destinate a emergere. In altre parole, tesoro mio, non sono niente di speciale. La gente comune ha avuto un ruolo nella storia solo come categoria sociale; come individui, restano solo nei registri di nascita, matrimonio e morte. Una società in cui vale la pena di vivere è quella concepita per queste persone, non per i ricchi, i brillanti, gli eccezionali; anche se una società dove non ci fosse spazio anche per questi ultimi sarebbe opprimente.
Il mondo non è fatto a beneficio dei singoli né siamo su questa terra per trarre vantaggi personali. Un mondo che abbia questo obiettivo non è un mondo buono e non dovrebbe durare a lungo.
Vorrei che, crescendo, non dimenticassi queste cose.
Buon compleanno, amore mio.
…
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FÉLIX LUÍS VIERA
(Santa Clara, Cuba 1945 – )
HO VISTO IL CORVO VENIRE
(He visto al cuervo venir 1993)
Per Carmen Sotolongo
Ho visto il corvo venire.
L’ho visto venire risplendente di nero sotto il sole della sera.
L’ho visto viaggiare diritto verso i miei occhi.
Lui ha creduto
che io dormissi
ma io l’ho visto fin dal suo primo gesto.
E quando è arrivato mi ha aperto il petto.
E quando è arrivato ho aperto gli occhi.
E il corvo si è cibato del mio petto e dei miei occhi
e non ci sarà chi lo salvi.
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ALFONSINA STORNI MARTIGNONI
CANCELLATA
(Borrada)
Il giorno che io muoia, la notizia
ha da seguire le pratiche solite,
e da ufficio a ufficio con precisione
io nei registri sarò cercata.
E là molto lontano, in un paesino
che sta dormendo al sole sulla montagna,
sopra il mio nome, in un registro vecchio,
una mano che ignoro traccerà una riga.
Da LANGUIDEZ (1920)
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LUIS SEPÚLVEDA
(Ovalle, Cile 1949 – )
STORIA DI UNA GABBIANELLA E DEL GATTO CHE LE INSEGNÒ A VOLARE
(Historia de una gaviota y del gato que le enseñó a volar 1996)
Parte Seconda
Capitolo Sesto
FORTUNATA, DAVVERO FORTUNATA
…
Quella sera i gatti si stupirono che la gabbianella non venisse a mangiare il suo piatto preferito: i calamari che Segretario trafugava nella cucina del ristorante.
Molto preoccupati la cercarono, e fu Zorba a trovarla, triste e avvilita, fra gli animali imbalsamati.
“Non hai fame, Fortunata? Ci sono i calamari” spiegò Zorba.
La gabbianella non aprì becco.
“Ti senti male?” insisté preoccupato Zorba. “Sei malata?”
“Vuoi che mangi per farmi ingrassare?” domandò lei senza guardarlo.
“Perché tu cresca sana e forte” rispose Zorba.
“E quando sarò grassa, inviterai i topi a mangiarmi?” stridette con i lucciconi agli occhi.
“Da dove tiri fuori queste sciocchezze?” miagolò deciso Zorba.
Lì lì per scoppiare a piangere, Fortunata gli riferì tutto quello che Mattia le aveva strillato. Zorba le leccò le lacrime e all’improvviso si sentì miagolare come non aveva mai fatto prima.
“Sei una gabbiana. Su questo lo scimpanzé ha ragione, ma solo su questo. Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. Non ti abbiamo contraddetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall’uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l’affetto tra esseri completamente diversi.”
“Volare mi fa paura” stridette Fortunata alzandosi.
“Quando succederà, io sarò accanto a te” miagolò Zorba leccandole la testa. “L’ho promesso a tua madre.”
La gabbianella e il gatto nero grande e grosso iniziarono a camminare. Lui le leccava teneramente la testa, e lei gli copriva il dorso con una delle sue ali tese.
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SUSANA CHÁVEZ
(Ciudad Juárez, Messico 1974 – 2011)
SANGUE NOSTRO
(Sangre nuestra)
Sangue mio,
di alba,
di luna tagliata a metà,
del silenzio.
Della roccia morta,
di una donna in un letto,
che salta nel vuoto,
aperta alla pazzia.
Sangue chiaro e nitido
fertile e seme,
sangue che si muove incomprensibile,
sangue liberazione di se stesso,
sangue fiume dei miei canti.
mare dei miei abissi.
Sangue istante nel quale sono sofferente,
nutrita dalla mia ultima presenza.
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CONSUELO VELÁZQUEZ
(Ciudad Guzmán, Messico 1916 – 2005)
AMAR Y VIVIR *
Perché non si deve sapere
che ti amo, vita mia?
Perché non devo dirlo
se fondi la tua anima
con l’anima mia?
Che importa se poi,
un giorno, mi vedono piangere?
Se per caso mi domandano,
dirò che ti amo tanto ancora.
Si vive una volta soltanto,
bisogna imparare ad amare e a vivere;
bisogna sapere che la vita si allontana
e ci lascia chimere piangenti.
Non voglio pentirmi poi
di ciò che avrebbe potuto essere e non fu.
Voglio vivere questa vita
tenendoti vicino a me
finché morirò.
* (Traduzione di Ezio Beccaria)
Dedicato a Guido Beccaria (25 Settembre 1913 – 4 Maggio 1985)
25 Settembre 2013