LETTURE
(Scelte da Ezio Beccaria)
DA
CESARE PAVESE
(Santo Stefano Belbo, Cuneo 9 Settembre 1908 – Torino 27 Agosto 1950)
LA LUNA E I FALÒ
CAPITOLO I (Inizio)
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barberesco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne di Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
LA NÒTTE
Ma la nòtte ventósa, la limpida nòtte
ché il ricòrdo sfiorava soltanto, è remòta,
è un ricòrdo. Perduta una calma stupita
fatta anch’éssa di fòglie é di nulla. Non rèsta,
di quél tèmpo di là dai ricòrdi, ché un vago
ricordare.
Talvòlta ritórna nél giórno
néll’immòbile luce dél giórno d’estate,
quél remòto stupóre.
Pér la vuòta finèstra
il bambino guardava la nòtte sui còlli
fréschi é néri, é stupiva di trovarli ammassati:
vaga é limpida immobilità. Fra lé fòglie
ché stormivano al buio, apparivano i còlli
dóve tutte lé còse dél giórno, lé còste
é lé piante é lé vigne, èran nitide é mòrte
é la vita èra un’altra, di vènto, di cièlo,
é di fòglie é di nulla.
Talvòlta ritórna
néll’immòbile calma dél giórno il ricòrdo
di quél vivere assòrto, nélla luce stupita.
Da LAVORARE STANCA – ANTENATI –
IL MESTIERE DI VIVERE
1937
1 Dicembre
La mia felicità sarebbe perfetta, se non fosse la fuggente angoscia di frugarne il segreto per ritrovarla domani e sempre. Ma forse confondo: la mia felicità sta in quest’angoscia. E ancora una volta mi ritorna la speranza che forse domani basterà il ricordo
PASSERÒ PÉR PIAZZA DI SPAGNA
Sarà un cièlo chiaro.
S’apriranno lé strade
sul còlle di pini é di piètra.
Il tumulto délle strade
nón muterà quéll’aria férma.
I fióri spruzzati
di colóri alle fontane
occhieggeranno cóme dònne
divertite. Lé scale
lé terrazze lé róndini
canteranno nél sóle.
S’aprirà quélla strada,
lé piètre canteranno,
il cuòre batterà sussultando
cóme l’acqua nélle fontane –
sarà quésta la vóce
ché salirà lé tue scale.
Lé finèstre sapranno
l’odóre délla piètra é dèll’aria
mattutina. S’aprirà una pòrta.
Il tumulto délle strade
sarà il tumulto dél cuòre
nélla luce smarrita.
Sarai tu – férma é chiara.
28 marzo 1950
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI –
IL MESTIERE DI VIVERE
1938
8 Gennaio
Non è affatto ridicolo o assurdo chi, pensando d’uccidersi, si secchi e spaventi di cadere sotto un’automobile o di buscarsi un malanno. A parte la questione del maggiore o minore dolore, resta sempre che volere uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia una suprema scelta, un atto inconfondibile. È perciò naturale che il suicida non tolleri il pensiero di cadere per caso sotto un veicolo o crepare di polmonite o qualcosa d’altrettanto insensato (meaningless). E dunque, occhio ai crocicchi e ai colpi d’aria.
SÈI LA TÈRRA É LA MÒRTE
Sèi la tèrra é la mòrte.
La tua stagióne è il buio
é il silènzio. Nón vive
còsa ché più di té
sia remòta dall’alba.
Quando sémbri destarti
sèi soltanto dolóre,
l’hai négli òcchi é nél sangue
ma tu nón sènti. Vivi
cóme vive una piètra,
cóme la tèrra dura.
É ti vèstono sógni
moviménti singulti
ché tu ignòri. Il dolóre
cóme l’acqua di un lago
trèpida é ti circónda.
Sóno cérchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sèi la tèrra é la mòrte.
3 dicembre 1945
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – LA TERRA E LA MORTE –
IL MESTIERE DI VIVERE
1940
26 Gennaio
Nulla può consolare dalla morte. Il gran parlare che si fa di necessità, di valore, di pregio di questo passo lo lascia sempre più nudo e terrificante, e non è che una prova della sua enormità – come il sorriso sdegnoso del condannato.
LA BELLA ESTATE
CAPITOLO I (Inizio)
A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline. “Siete sane, siete giovani” dicevano “siete ragazze, non avete pensieri, si capisce.” Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria.
Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagnava a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano più cosa dire. Veniva così il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpiangere la compagnia. Le notti più belle, si capisce, erano al sabato, quando andavano a ballare e l’indomani si poteva dormire. Ma bastava anche meno, e certe mattine Ginia usciva, per andare a lavorare, felice di quel pezzo di strada che l’aspettava.
IL MESTIERE DI VIVERE
1940
23 Luglio
Un’altra singolarità dei sogni è che – a meno di un immediato e fortissimo afferrarli e ripensarli, riviverli – non si ricordano. Un sogno è cosa meno nostra anche di un racconto composto da altri, perché mai ascoltando siamo tanto passivi quanto sognando. Eppure è indubbio che il sogno lo creiamo noi. Creare senza averne coscienza, ecco lo strano del sogno.
TU SÈI CÓME UNA TÈRRA
Tu sèi cóme una tèrra
ché nessuno ha mai détto.
Tu nón attèndi nulla
sé nón la paròla
ché sgorgherà dal fóndo
cóme un frutto tra i rami.
C’è un vènto ché ti giunge.
Còse sécche é rimòrte
t’ingómbrano é vanno nél vènto.
Mèmbra é paròle antiche.
Tu trèmi néll’estate.
29 ottóbre 1945
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – LA TERRA E LA MORTE –
IL MESTIERE DI VIVERE
1940
28 Luglio
Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.
HERMAN MELVILLE
MOBY DICK
(Traduzione di Cesare Pavese)
CAPITOLO I
MIRAGGI (Inizio)
Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. E‘ un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al piu’ presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c’è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura, su per giu’ gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano.
THE NIGHT YOU SLEPT
Anche la nòtte ti somiglia,
la nòtte remòta ché piange
muta, déntro il cuòre profóndo,
é lé stélle passano stanche.
Una guancia tócca una guancia –
è un brivido fréddo, qualcuno
si dibatte é t’implòra, sólo,
sperduto in té, nélla tua fèbbre.
La nòtte sòffre é anèla l’alba,
pòvero cuòre ché sussulti.
O viso chiuso, buia angòscia,
fèbbre ché rattristi lé stélle,
c’è chi cóme té attènde l’alba
scrutando il tuo viso in silènzio.
Sèi distésa sótto la nòtte
cóme un chiuso orizzónte mòrto.
Pòvero cuòre ché sussulti,
un giórno lontano èri l’alba.
4 aprile 1950
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI –
IL MESTIERE DI VIVERE
1940
30 Ottobre
Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria. È impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta – sia pure per intensificarsi.
Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.
LA SPIAGGIA
CAPITOLO I (Inizio)
Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce più a che cosa devano servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai in casa sua e facemmo la pace. Mi riuscì molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch’era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano. Diverse volte in quell’anno capitai a Genova e sempre andavo a trovarli. Di rado erano soli, e Doro con la sua disinvoltura pareva benissimo trapiantato nell’ambiente della moglie. O dovrei dire piuttosto ch’era l’ambiente della moglie che aveva riconosciuto in lui il suo uomo e Doro li lasciava fare, noncurante e innamorato. Di tanto in tanto prendevano il treno, lui e Clelia, e facevano un viaggio, una specie di viaggio di nozze intermittente, che durò quasi un anno. Ma avevano il buon gusto di accennarne appena. Io, che conoscevo Doro, ero lieto di questo silenzio, ma anche invidioso: Doro è di quelli che la felicità rende taciturni, e a ritrovarlo sempre pacato e intento a Clelia, capivo quanto doveva godersi la nuova vita. Fu anzi Clelia che, quand’ebbe con me un po‘ di confidenza, mi disse, un giorno che Doro ci lasciò soli: “Oh sì, è contento” e mi fissò con un sorriso furtivo e incontenibile.
IL MESTIERE DI VIVERE
1941
30 Gennaio
Quel senso dolce e indulgente d’amore per l’umanità che si prova un giorno freddo, durante un intervallo trascorso in un caffè – quando si osserva il volto emaciato e triste di uno, la bocca piegata di un altro, la voce dolente e buona di un terzo, ecc. – e ci si abbandona ad un voluttuoso e malinconico abbraccio sentimentale a tanto quotidiano soffrire, non è vero amore del prossimo, ma compiaciuta e distesa introversione. In quei momenti non si muoverebbe un dito per nessuno: si è, in sostanza, beati alla nostra tranquilla futilità davanti alla vita.
THE CATS WILL KNOW
Ancóra cadrà la piòggia
sui tuòi dólci selciati,
una piòggia leggèra
cóme un alito ó un passo.
Ancóra la brézza é l’alba
fioriranno leggère
cóme sótto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fióri é davanzali
i gatti ló sapranno.
Ci saranno altri giórni
ci saranno altre vóci.
Sorriderai da sóla.
I gatti ló sapranno.
Udrai paròle antiche,
paròle stanche é vane
cóme i costumi sméssi
délle fèste di ièri.
Farai gèsti anche tu.
Risponderai paròle –
viso di primavèra,
farai gèsti anche tu.
I gatti ló sapranno,
viso di primavèra;
é la piòggia leggèra,
l’alba colór giacinto,
ché dilaniano il cuòre
di chi più nón ti spèra,
sóno il triste sorriso
ché sorridi da sóla.
Ci saranno altri giórni,
altre vóci é risvégli.
Soffrirémo néll’alba,
viso di primavèra.
10 aprile 1950
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI –
IL MESTIERE DI VIVERE
1941
27 Maggio
Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige, è amato. Cioè, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria.
LA CASA
L’uòmo sólo ascólta la vóce calma
cón ló sguardo socchiuso, quasi un respiro
gli alitasse sul vólto, un respiro amico
ché risale, incredibile, dal tèmpo andato.
L’uòmo sólo ascólta la vóce antica
che i suòi padri, néi tèmpi, hanno udita, chiara
é raccòlta, una vóce ché cóme il vérde
dégli stagni é déi còlli incupisce a séra.
L’uòmo sólo conósce una vóce d’ómbra,
carezzante, ché sgórga néi tòni calmi
di una polla segréta: la béve intènto,
òcchi chiusi, é nón pare ché l’abbia accanto.
È la vóce ché un giórno ha fermato il padre
di suo padre, é ciascuno dél sangue mòrto.
Una vóce di dònna ché suòna segréta
sulla sòglia di casa, al cadére dél buio.
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI –
IL MESTIERE DI VIVERE
1947
5 Marzo
È notte, al solito. Provi la gioia che adesso andrai a letto, sparirai e in un attimo sarà domani, sarà mattino e ricomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose.
È bello andare a dormire, perché ci si sveglierà. È il mezzo più rapido di fare il mattino.
IL COMPAGNO
CAPITOLO I (Inizio)
Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra. La notte che Amelio si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina – mica lontano, si vedeva il ponte – e avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso. Allora le ragazze si eran messe a ballare. Io suonavo – Pablo qui, Pablo là – ma non ero contento, mi è sempre piaciuto suonare con qualcuno che capisca, invece quelli non volevano che gridare più forte. Toccai ancora la chitarra andando a casa e qualcuno cantava. La nebbia mi bagnava la mano. Ero stufo di quella vita.
Adesso che Amelio era finito all’ospedale, non avevo con chi dir la mia e sfogarmi. Si sapeva ch’era inutile andarlo a trovare perché gridava giorno e notte e bestemmiava, e non conosceva più nessuno. Andammo a vedere la moto ch’era ancora nel fosso, contro un paracarro. S’era spaccata la forcella, saltata la ruota, per miracolo non s’era incendiata. Sangue per terra non ce n’era ma benzina. Vennero poi a prenderla con un carretto. Non mi sono mai piaciute le moto, ma era come una chitarra fracassata.
IL MESTIERE DI VIVERE
1949
28 Novembre
Succede di notte, quando comincio ad assopirmi. Ogni rumore – scricchiolio di legno, frastuono in strada, grido lontano e improvviso – mi risucchia come un gorgo, in cui mi crolla il cervello e crolla il mondo. Nell’attimo attendo il terremoto, il finimondo. È un residuo della guerra, delle bombe aeree? È una raggiunta consapevolezza della possibile fine universale? Esaurimento – è una parola – ma che cosa significa? È piacevole, un sussulto leggero come d’ubriachezza e mi riprendo a denti stretti. Ma se un giorno non ce la faccio a riprendermi?
IN THE MORNING YOU ALWAYS COME BACK
Ló spiraglio déll’alba
respira cón la tua bócca
in fóndo alle vie vuòte.
Luce grigia i tuòi òcchi,
dólci gócce déll’alba
sulle colline scure.
Il tuo passo é il tuo fiato
cóme il vènto déll’alba
sommèrgono lé case.
La città abbrividisce,
odórano lé piètre –
sèi la vita, il risvéglio.
Stélla sperduta
nélla luce déll’alba,
cigolío délla brézza,
tepóre, respiro –
è finita la nòtte.
Sèi la luce é il mattino.
20 marzo 1950
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI –
IL MESTIERE DI VIVERE
1950
27 Maggio
La beatitudine del ‘48 – ‘49 è tutta scontata. Dietro quella soddisfazione olimpica c’era questo – l’impotenza e il rifiuto a impegnarmi. Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio.
YOU WIND OF MARCH
Sèi la vita é la mòrte.
Sèi venuta di marzo
sulla tèrra nuda –
il tuo brivido dura.
Sangue di primavèra
– anèmone ó nube –
il tuo passo leggèro
ha violato la tèrra.
Ricomincia il dolóre.
Il tuo passo leggèro
ha riapèrto il dolóre.
Èra frédda la tèrra
sótto pòvero cièlo,
èra immòbile é chiusa
in un tòrpido sógno,
cóme chi più nón sòffre.
Anche il gèlo èra dólce
déntro il cuòre profóndo.
Tra la vita é la mòrte
la speranza tacéva.
Óra ha una vóce é un sangue
ógni còsa ché vive.
Óra la tèrra é il cièlo
sóno un brivido fòrte,
la speranza li tòrce,
li sconvòlge il mattino,
li sommèrge il tuo passo,
il tuo fiato d’auròra.
Sangue di primavèra,
tutta la tèrra trèma
di un antico tremóre.
Hai riapèrto il dolóre.
Sèi la vita é la mòrte.
Sópra la tèrra nuda
sèi passata leggèra
cóme róndine ó nube,
é il torrènte dél cuòre
si è ridestato é irrómpe
é si spècchia nél cièlo
é rispècchia lé còse –
é lé còse, nél cièlo é nél cuòre
sòffrono é si contòrcono
néll’attésa di té.
È il mattino, è l’auròra,
sangue di primavèra,
tu hai violato la tèrra.
La speranza si tòrce,
é ti attènde ti chiama.
Sèi la vita é la mòrte.
Il tuo passo è leggèro.
25 marzo 1950
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI –
IL MESTIERE DI VIVERE
1950
17 Agosto
I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo.
VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI
Verrà la mòrte é avrà i tuòi òcchi –
quésta mòrte ché ci accompagna
dal mattino alla séra, insònne,
sórda, cóme un vècchio rimòrso
ó un vizio assurdo. I tuòi òcchi
saranno una vana paròla,
un grido taciuto, un silènzio.
Così li védi ógni mattina
quando su té sóla ti pièghi
néllo spècchio. Ó cara speranza,
quél giórno saprémo anche nói
ché sèi la vita é sèi il nulla.
Pér tutti la mòrte ha uno sguardo.
Verrà la mòrte é avrà i tuòi òcchi.
Sarà cóme sméttere un vizio,
cóme vedére néllo spècchio
riemèrgere un viso mòrto,
cóme ascoltare un labbro chiuso.
Scenderémo nél górgo muti.
22 marzo 1950
Da VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI – VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI –
IL MESTIERE DI VIVERE
1950
18 Agosto
La cosa più segretamente temuta accade sempre.
Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?
Basta un po‘ di coraggio.
Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte e cade l’idea del suicidio.
Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.
Tutto questo fa schifo.
Non parole. Un gesto. Non scriverò più.