VOCI DI UNA CERTA GERMANIA

LETTURE DA AUTORI TEDESCHI

(Scelte da Ezio Beccaria)

Vor der Kaserme,

Vor dem großen Tor,

Stand eine Laterne,

Und steht sie noch davor,

So woll’n wir uns da wieder seh’n,

Bei der Laterne wollen wir steh’n,

Wie einst,  Lili Marleen.

(1915)

Hans Leip

(Amburgo 1893 – 1983)

THOMAS MANN

(Lubecca 1875 – 1955)

LA MORTE A VENEZIA

 

“Per Venezia!”  esclamò,  ripetendo le parole di Aschenbach,  mentre stendeva il braccio a intingere la penna nel vischioso fondo di un calamaio inclinato davanti a lui.  “Prima classe per Venezia!  Il signore è servito!”  Tracciò grandi scarabocchi sul foglietto,  vi versò sopra,  da uno spolverino,  un po‘ di sabbia azzurra che raccolse poi di nuovo in una ciotola di argilla,  lo piegò in due con le dita ossute e gialle e scrisse ancora qualche cosa.  “Ha scelto proprio un bel posto!”  gracidava intanto.  “Ah,  Venezia!  Città meravigliosa!  Città piena di fascino!  Nessuna persona istruita può resistere all’attrattiva dei suoi ricordi storici e delle sue bellezze presenti.”  La lucida speditezza dei suoi gesti e il vuoto chiacchiericcio che li accompagnava,  avevano un che di frastornante,  di suggestivo,  quasi che temesse il sorgere di un dubbio nella mente del viaggiatore circa la decisione di recarsi a Venezia.  Incassò in fretta la banconota e con sveltezza da biscazziere gettò il resto sul panno macchiato che copriva il tavolo.  “Buon divertimento,  signor mio”  continuò inchinandosi teatralmente,  “onoratissimo di servirla…  Prego,  signori!”  gridò poi alzando il braccio come se avesse ancora un gran daffare,  benché non ci fosse più nessuno a chiedere biglietti.  Aschenbach uscì e ritornò sopra coperta.

BERTOLT BRECHT

(Augusta 1898 – 1956)

IL FUMO

La piccola casa sotto gli alberi sul lago.

Dal tetto sale il fumo.

Se mancasse

quanto sarebbero desolati

la casa,  gli alberi,  il lago.

THOMAS MANN

LA MONTAGNA INCANTATA

   La storia di Giovanni Castorp,  che noi vogliamo narrare non tanto per riguardo al personaggio (giovanotto molto semplice e tuttavia interessante) quanto per la storia in se stessa,  ci sembra oltremodo degna di essere narrata.  A tale proposito giova anche ricordare,  a vantaggio di Giovanni Castorp,  che essa è la sua storia,  e che non a tutti succedono delle storie.  Questa poi è carica d’anni,  è ormai coperta,  come si suol dire,  dalla ruggine del tempo,  per cui conviene narrarla nella forma del passato più remoto.

Tale circostanza non costituirebbe svantaggio per una storia,  anzi le riuscirebbe piuttosto di vantaggio,  poiché le storie devono essere passate,  e più sono passate tanto meglio per esse nella loro qualità di storia,  tanto meglio per il novelliere,  evocatore bisbigliante del tempo imperfetto.

Succede alla nostra storia quello che accade oggidì agli uomini,  compresi anche i novellatori:  essa è assai più vecchia dei suoi anni,  l’età sua non si può misurare in giorni né in lune,  in una parola essa non deve veramente la sua maggiore o minore antichità al tempo,  (…).

Ma per non rendere artificiosamente oscuro un chiaro susseguirsi di avvenimenti dichiareremo che la sua estrema antichità è data dal fatto che essa avviene prima del limitare di un certo abisso che ha interrotto la vita e la coscienza dell’umanità…  Avviene,  o meglio,  per evitare di proposito ogni tempo presente,  avvenne,  è avvenuta una volta,  in tempi lontani,  negli antichi giorni del mondo,  prima della Grande Guerra,  con l’inizio della quale ebbero principio tante cose che avevamo appena finito di cominciare.

 

BERTOLT BRECHT

BREVIARIO TEDESCO

Quando chi sta in alto parla di pace

la gente comune sa

che ci sarà la guerra.

Quando chi sta in alto maledice la guerra

le cartoline precetto sono già compilate.

Quelli che stanno in alto

si sono riuniti in una stanza.

Uomo che sei per la via

lascia ogni speranza.

I governi

firmano patti di non aggressione.

Piccolo uomo

firma il tuo testamento.

Sul muro c’era scritto col gesso:

vogliono la guerra.

Chi l’ha scritto

è già caduto.

 

ERICH MARIA REMARQUE

(Osnabrük 1898 – 1970)

NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE

 

È autunno.  Dei vecchi compagni non siamo più in molti qui.  Io sono l’ultimo dei sette che venimmo insieme dalla scuola.

Tutti parlano di pace e di armistizio.  Tutti aspettano.  Se anche questa volta fosse una delusione,  guai;  le speranze son troppo forti,  non si possono più rintuzzare senza farle esplodere.  Se non sarà la pace,  sarà la rivoluzione.

Mi danno due settimane di riposo,  perché ho respirato un po‘ di gas.  Siedo in un piccolo giardino,  tutto il giorno al sole.  L’armistizio viene tra poco,  ora lo credo anch’io.  Ce n’andremo a casa.

Qui i miei pensieri s’interrompono e non vogliono fare un passo innanzi.  Ciò che mi trascina e mi attira,  sono dei sentimenti.  È bramosia di vita,  è nostalgia della mia casa,  è il sangue che pulsa,  è l’ebbrezza di essere salvo;   ma non sono propositi definiti.

Se fossimo tornati a casa nel 1916,  dal dolore e dalla forza delle nostre esperienze si sarebbe sprigionata la tempesta.  Ritornando ora,  siamo stanchi,  depressi,  consumati,  privi di radici,  privi di speranze.  Non potremo mai più riprendere il nostro equilibrio.

E neppure ci potranno capire.  Davanti a noi infatti sta una generazione che ha,  sì,  passato con noi questi anni,  ma che aveva già prima un focolare ed una professione,  ed ora ritorna ai suoi posti d’un tempo,  e vi dimenticherà la guerra;  dietro a noi sale un’altra generazione,  simile a ciò che fummo noi un tempo;  la quale ci sarà estranea e ci spingerà da parte.  Noi siamo inutili a noi stessi.  Andremo avanti,  qualcuno si adatterà,  altri si rassegneranno,  e molti rimarranno disorientati per sempre;  passeranno gli anni,  e finalmente scompariremo.

 

HERMANN HESSE

(Calw 1877 – 1962)

SENZA TITOLO

Come pesano queste giornate!

Non c’è fuoco che possa scaldare,

non c’è sole che rida per me,

solo il vuoto c’è,

solo le cose gelide e spietate,

e perfino le chiare

stelle mi guardano sconsolate,

da quando ho saputo nel cuore

che anche l’amore muore.

 

ERICH MARIA REMARQUE

L’OBELISCO NERO

STORIA DI UNA GIOVINEZZA RITARDATA

   Il sole entra luminoso nell’ufficio della ditta di monumenti funerari Heinrich Kroll e Figli.  È l’aprile del 1923,  e gli affari vanno bene.  Vendiamo molto,  e di conseguenza ci impoveriamo;  ma che fare?  La morte è inesorabile,  non si può allontanarla,  e il dolore degli uomini richiede monumenti di arenaria o di marmo o,  se il rimorso e l’eredità sono grossi,  di costoso granito svedese lucidato da tutte le parti.  L’autunno e la primavera sono le stagioni migliori per chi commercia in articoli da lutto – in queste stagioni,  infatti,  muoiono più uomini che non in estate o in inverno;  in autunno muoiono perché la linfa vitale si ritrae,  in primavera perché torna nel circolo e consuma il corpo indebolito,  come uno stoppino troppo grosso consuma una candela troppo sottile.  Così dice il nostro agente più “patetico”,  il becchino Liebermann,  del Cimitero Comunale,  e chi può saperlo meglio di lui?  Ha ottant’anni,  ha seppellito oltre diecimila salme,  con le sue percentuali sui monumenti funerari si è comperata una casa sul fiume,  con attorno un giardino,  e con un vivaio di trote,  e la sua professione lo ha fatto diventare un incallito bevitore di acquavite.  L’unica cosa che odia è il Crematorio della città,  perché quella è concorrenza sleale.  Non piace neanche a noi:  sulle urne si guadagna poco.

Guardo l’orologio.  Manca poco a mezzogiorno,  e poiché oggi è sabato posso chiudere bottega.  Metto il coperchio di metallo sulla macchina da scrivere,  nascondo dietro la tenda il duplicatore “Presto”,  riordino il campionario delle pietre,  e tolgo dal bagno di fissaggio le fotografie che ritraggono monumenti di caduti in guerra e artistici ornamenti funerari.  Sono il capo della pubblicità,  il disegnatore e il contabile della ditta;  anzi,  da un anno a questa parte sono il solo impiegato,  e sì che non sono un competente.

 

HERMANN HESSE

CANZONE D’AMORE

Per dire cos’hai fatto

di me,  non ho parole.

Cerco solo la notte

fuggo davanti al sole.

 

La notte mi par d’oro

più di ogni sole al mondo,

sogno allora una bella

donna dal capo biondo.

 

Sogno le dolci cose,

che il tuo sguardo annunciava,

remoto paradiso

di canti risuonava.

 

Guardo a lungo la notte

e una nube veloce.

Per dire cos’hai fatto

di me,  non ho parole.

 

ERICH MARIA REMARQUE

TRE CAMERATI

Köster aveva indossato l’abito più vecchio e si era recato all’ufficio imposte.  Voleva tentare di farci ridurre le tasse.  Lenz ed io eravamo soli nell’officina.

“Forza Goffredo” dissi.  “Attacchiamo la grossa Cadillac.”

La sera prima era stato pubblicato il nostro annuncio.  Potevano dunque arrivare i clienti,  se pur sarebbe arrivato qualcuno.  In ogni caso bisognava preparare la vettura.

Prima di tutto passammo una mano di coppale sulle vernici che divennero brillanti e potevano far aumentare di cento marchi il valore della macchina.  Poi versammo nel motore l’olio più denso che avevamo.  Gli stantuffi non erano proprio di prima qualità e facevano un po‘ di rumore,  ma l’olio denso lo attutiva in modo da rendere molto silenziosa la marcia.  Anche negli ingranaggi e nel differenziale mettemmo del grasso denso perché non facessero rumore.

Poi tirammo fuori la vettura.  Nei pressi c’era un tratto di strada pessima sulla quale passammo a una velocità di cinquanta chilometri.  La carrozzeria sbatacchiava.  Togliemmo dai pneumatici un quarto di atmosfera e provammo di nuovo.  Un miglioramento c’era.  Ne togliemmo un altro quarto e tutto andò liscio.

Tornammo indietro,  oliammo il cofano cigolante,  vi cacciammo un po‘ di gomma,  empimmo d’acqua bollente il radiatore affinché il motore si accendesse subito e spruzzammo un’altra volta la macchina dal di sotto con un nebulizzatore di petrolio affinché brillasse anche lì.  Poi Goffredo alzò le mani al cielo:  “E ora vieni,  cliente benedetto!  Vieni,  dolce possessore di portafogli!  Ti aspettiamo come il fidanzato aspetta la sposa”.

La sposa si fece aspettare.  Perciò spingemmo il cavallo meccanico del fornaio sopra la fossa e incominciammo a smontare l’assale anteriore.  Lavorammo un paio d’ore tranquillamente senza discorrere.  Poi udii Jupp fischiettare la canzone “Senti chi arriva da lungi…”.

Uscii dalla buca e mi affacciai alla finestra:  un ometto tarchiato girava intorno alla Cadillac.  Aveva un aspetto da serio borghese.  “Guarda,  Goffredo” sussurrai.  “Che sia la sposa?”

 

GÜNTER GRASS

(Danzica 1927 – )

IL TAMBURO DI LATTA

   Bebra mi passò davanti in bretelle e pantofole,  portando un secchio d’acqua.  I nostri sguardi si incrociarono di sfuggita.  Tuttavia ci riconoscemmo subito.  Egli depose il secchio e mi venne incontro con la sua grossa testa inclinata da una parte.  Poteva essere nove centimetri più alto di me.

“Ma guarda un po‘!”  brontolò invidioso dall’alto;  “oggigiorno già a tre anni non vogliono più crescere.”  E poiché non rispondevo,  proseguì:  “Il mio nome è Bebra;  discendo in linea diretta dal principe Eugenio,  il cui padre fu Luigi XIV,  e non,  come si sostiene,  un qualunque savoiardo.”  Siccome continuavo a tacere,  prese di nuovo slancio:  “Cessai di crescere all’età di dieci anni.  Un po‘ tardi,  ma comunque…”

Poiché egli parlava con tanta franchezza,  mi presentai a mia volta,  ma senza imbastire un albero genealogico dissi semplicemente di chiamarmi Oskar.  “Dica,  carissimo Oskar,  lei adesso dovrebbe avere per lo meno quattordici,  quindici anni,  se non addirittura sedici.  Impossibile,  come afferma,  appena nove e mezzo.”  Mi chiese che cosa ne pensassi della sua età ed io andai di proposito al di sotto.

“Lei mi vuole adulare,  mio giovane amico.  Trentacinque!  Sono passati da un pezzo.  In agosto ho festeggiato il mio cinquantatreesimo compleanno.  Potrei essere suo nonno.”

Oskar fece qualche osservazione lusinghiera sulle abili prestazioni del clown e ne elogiò la sensibilità musicale.  Poi,  per una comprensibile ambizione,  volle offrirgli un piccolo saggio della propria arte.  Tre lampadine elettriche nell’arena del circo dovettero convincersi della sua valentia.  Bebra proruppe in un bravo,  bravissimo,  e propose di ingaggiare subito Oskar.

Qualche volta mi rincresce ancora di avere rifiutato.  Trovai un pretesto e dissi:  “Capirà,  signor Bebra,  io preferisco annoverarmi fra gli spettatori,  non amo ostentare la mia modesta arte,  rifuggo dagli applausi;  ma sono l’ultimo a non tributarle tutto il consenso che le sue esibizioni si meritano.”  Bebra levò il suo indice sgualcito,  come per ammonirmi:  “Carissimo Oskar,  dia retta a un collega esperto.  Uno come noi non deve appartenere mai agli spettatori.  Il nostro posto è sulla scena,  nell’arena.  Dobbiamo prendere l’iniziativa e decidere noi l’azione,  altrimenti quelli là ci mettono sotto i piedi.  E quelli là ci guastano il gioco anche troppo volentieri!”

Con occhi pieni di saggezza ancestrale proseguì,  bisbigliandomi all’orecchio:  “Stanno per venire!  Occuperanno anche le piazze delle feste!  Organizzeranno fiaccolate!  Erigeranno tribune,  popoleranno le tribune e dall’alto delle tribune predicheranno il nostro tramonto.  Stia attento,  mio giovane amico,  a quello che accadrà sulle tribune!  Procuri comunque sempre di trovarsi un posto sulla tribuna e di non starci mai davanti!”

 

BERTOLT BRECHT

TERRORE E MISERIA DEL TERZO REICH

Sì,  dunque io parto,  Fritz.  Ho forse tardato anche troppo,  devi scusarmi,  ma…

 

Fritz,  non devi più cercar di trattenermi,  non puoi…  È evidente che finirei per rovinarti.  Lo so che non sei un vigliacco,  che non hai paura della polizia,  ma c’è di peggio.  Non ti metteranno in campo di concentramento,  ma ti vieteranno l’accesso alla clinica,  domani o dopodomani,  e allora non dirai niente,  ma ti ammalerai.  Non voglio vederti qui a girellare per casa,  a sfogliare riviste.  Credimi,  se me ne vado è per puro egoismo,  non per altro.  Non dirmi niente…

 

Non dirmi che non sei cambiato,  non è vero!  La settimana scorsa hai scoperto molto obiettivamente che la percentuale degli scienziati ebrei non è poi tanto grande.  Si comincia sempre così,  con l’obiettività…  e perché adesso continui a ripetermi che mai come ora ho dato prova del mio nazionalismo ebraico?  Sì,  sono nazionalista.  È come una malattia che ti prende.  Oh,  Fritz,  che destino è stato il nostro!

 

Non ti ho detto che volevo andarmene,  che già da tempo volevo andarmene,  perché non posso parlare quando ti guardo,  Fritz.  Allora mi sembra che ogni parola sia inutile.  Tanto,  è già tutto deciso!  Che cos’hanno?  Cosa vogliono in realtà?  Che cosa gli faccio?  Non mi sono mai occupata di politica.  Tenevo per Thälmann,  forse?  Sono una di quelle signore borghesi che hanno servitù eccetera,  e tutt’a un tratto cosa succede?  Soltanto alle bionde è permesso di essere così?  Negli ultimi tempi ho pensato spesso a quello che mi dicevi anni fa,  che ci sono persone che valgono e persone che valgono meno,  e che ai primi si dà l’insulina quando hanno il diabete e agli altri no;  e allora mi era parso naturale,  stupida che non ero altro!  Adesso hanno fatto una nuova distinzione del genere,  e io appartengo alla categoria di quelli che valgono meno.  Ben mi sta.

 

Sì,  faccio i bagagli.  Non devi far finta di non aver notato niente in questi ultimi giorni.  Fritz,  posso sopportare tutto meno che questo:  di non guardarci dritto negli occhi nell’ultima ora che ci resta.  Non dobbiamo dare questa soddisfazione a quei bugiardi che costringono tutti a mentire.  Dieci anni fa,  quando qualcuno diceva che non si notava affatto che io fossi ebrea,  tu replicavi:  “Eh,  altrochè!”  era una cosa che mi faceva piacere;  era sincerità.  Perché non avere adesso il coraggio di dire le cose come sono?  Faccio i bagagli perché altrimenti non sarai più primario,  perché quelli della clinica ti salutano già a stento e tu non riesci più a dormire la notte.  Non voglio che tu mi dica che non devo andarmene.  Anzi,  mi affretto perché non voglio che un giorno tu mi dica:  “Devi andartene.”  È questione di tempo.  Il carattere,  è questione di tempo.  Ha una certa durata,  proprio come un guanto.  Ce ne sono di buoni che durano un pezzo.  Ma nessuno dura in eterno.  E non sono neanche in collera.  Ma sì che lo sono.  Perché devo tollerare tutto?  Cosa c’è di male nella forma del mio naso e nel colore dei miei capelli?  E devo lasciare la città dove sono nata perché quelli possano risparmiare il burro.  Che razza di uomini siete!  Sì,  anche tu!  Siete capaci di inventare la teoria dei quanta,  la teoria di Trendelenburg,  e lasciate che dei semiselvaggi vi ordinino di conquistare il mondo e di separarvi dalla moglie che vorreste avere.  Siete dei mostri,

Tu te ne stai seduto lì,  vedi tua moglie che fa i bagagli e non dici niente.  Perché i muri hanno orecchie,  eh?  Ma se voi non dite niente!  Gli uni stanno a orecchie tese,  gli altri tacciono!  Che schifo!  Anch’io dovrei tacere.  Se ti volessi bene,  tacerei.  Ma io ti voglio bene davvero!

 

E non aver l’aria di credere che sia una cosa provvisoria:  per quattro settimane!  È una faccenda che non dura quattro settimane.  Lo sai tu e lo so anch’io.

 

E non parliamo di disgrazia,  parliamo di vergogna…

 

HERMANN HESSE

IL LUPO DELLA STEPPA

C’era una volta un tale di nome Harry,  detto il “lupo della steppa”.  Camminava con due gambe,  portava abiti ed era un uomo,  ma,  a rigore,  era un lupo.  Aveva imparato parecchio di quel che possono imparare gli uomini dotati di intelligenza,  ed era uomo piuttosto savio.  Ma una cosa non aveva imparato:  a essere contento di sé e della sua vita.  Non ci riusciva,  era un uomo scontento.  Ciò dipendeva probabilmente dal fatto che in fondo al cuore sapeva (o credeva di sapere) di non essere veramente un uomo,  ma un lupo venuto dalla steppa.  I saggi potranno discutere se sia stato veramente un lupo e una volta,  forse prima della nascita,  sia stato tramutato per incantesimo da lupo in uomo,  oppure sia nato uomo ma con un’anima da lupo,  o se magari questa persuasione,  di essere veramente un lupo,  sia stata una sua fissazione o malattia.  Potrebbe darsi,  per esempio,  che costui sia stato nella fanciullezza stregato e indomabile e disordinato,  e che i suoi educatori abbiano cercato di ammazzare la bestia che aveva dentro e proprio in questo modo abbiano suscitato in lui la fantasia e la credenza di essere effettivamente una bestia,  con sopra soltanto una leggera crosta di educazione e di umanità.  Su questo argomento si potrebbe discorrere a lungo e in modo divertente e scrivere magari dei libri;  ma poco servirebbe al lupo della steppa,  poiché per lui era indifferente che il lupo fosse entrato in lui per magia o fosse soltanto una fantasia della mente.  Quello che ne potevano pensare gli altri o anche lui stesso non aveva per lui alcun valore,  non bastava a cavargli di dentro il lupo.

 

ALFRED DÖBLIN

(Stettino 1878 – 1957)

BERLIN ALEXANDERPLATZ

 

Fermo davanti alla porta della prigione di Tegel,  era libero.  Ancora ieri insieme agli altri aveva raccolto patate nei campi dietro il penitenziario,  vestito da forzato,  ora se ne andava attorno con un soprabito giallo,  leggero,  gli altri stavano ancora dietro a raccogliere le patate,  lui era libero.  Lasciava i tram passargli dinanzi uno dopo l’altro e lui teneva poggiata la schiena alla parete rossa e non si muoveva.  Il custode gli passò dinanzi un paio di volte e gli mostrò il suo tram;  ma lui non si muoveva.  Il momento terribile era venuto (terribile,  Franz,  perché terribile?).  I quattro anni erano passati.  I ferrei battenti neri della porta,  che da un anno egli aveva osservato con crescente avversione (avversione,  perché avversione?) s’erano chiusi dietro a lui.  L’avevano messo fuori.  Dentro sedevano ancora gli altri a fare lavori da falegname,  a laccare,  a cardare,  a incollare,  e avevano ancora due anni,  cinque anni.  Lui stava alla fermata del tram!

 

HEINRICH BÖLL

(Colonia 1917 – 1985)

IL TRENO ERA IN ORARIO

 

Presto.  Presto.  Presto.  Presto.  Ma quand’è,  presto?  Che terribile parola:  presto.  Presto può essere tra un secondo,  presto può essere tra un anno.  Presto è una parola terribile.  Quel presto comprime il futuro,  lo rimpicciolisce,  e non c’è nulla di certo,  nulla di nulla,  è l’incertezza assoluta.  Presto non è nulla e presto è molte cose.  Presto è la morte…

Presto sarò morto.  Io morirò,  e presto.  L’hai detto tu stesso,  e qualcuno dentro di te e qualcuno fuori di te ti ha detto che quel presto si realizzerà.  Ad ogni modo prima che finisca la guerra.  Questo è certo,  se non altro un punto fermo.  Quanto durerà ancora la guerra?

Può passare ancora un anno prima che all’Est si abbia il crollo finale,  e se gli americani e gli inglesi non attaccano a occidente,  ci vorranno due anni prima che i russi arrivino all’Atlantico.  Ma attaccheranno.  Però,  tutt’insieme,  ci vorrà ci vorrà ancora non meno di un anno,  prima della fine del 1944 la guerra non terminerà.  Tutto quest’apparato si regge su troppa obbedienza,  troppa viltà,  troppo valore.  Il termine dunque è tra un secondo e un anno.  Quanti secondi ha un anno?  Morirò presto,  ancora in tempo di guerra.  Non vedrò più la pace.  Niente pace.  Non ci sarà più nulla,  per me:  niente musica…  niente fiori…  niente poesia…  più nessuna gioia umana;  presto morirò

Quel presto è come un colpo di tuono.  Una piccola parola simile alla scintilla che accende la folgore,  e di colpo,  per un millesimo di secondo,  tutto il mondo s’illumina sotto quella parola.

 

Accese un’altra sigaretta.  Voglio immaginare il futuro,  pensa.  Forse il “presto” è un inganno,  forse sono troppo stanco,  eccitato,  e mi lascio spaventare.  Cerca d’immaginare che cosa farà quando la guerra sarà finita…  Farà…  Farà…  ma si trova contro un muro invalicabile,  un muro tutto nero.  Non riesce ad immaginare niente.  Sì,  certo,  può costringersi a pensare la frase sino in fondo:  studierò…  avrò una camera da qualche parte…  con libri…  sigarette…  studierò…  musica…  poesie…  fiori.  Ma anche se si costringe a pensare la frase sino in fondo,  sa bene che non ci sarà nulla.  Tutto questo non ci sarà.  Questi non sono sogni,  sono pensieri evanescenti,  senza peso,  senza sangue,  senza alcuna sostanza umana.  Il futuro non ha più volto,  a un certo punto è mozzo,  e più ci pensa,  più si rende conto di quanto è ormai vicino a quel “presto”.  Presto morirò:  una certezza che si colloca tra un secondo e un anno.  Non ci sono più sogni…

 

BERTOLT BRECHT

SCHWEYK NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

 

CANZONE DELLA DONNA DEL SOLDATO NAZISTA

(E CHE VENNE ALLA DONNA DEL SOLDATO?)

 

E che venne alla donna del soldato

da Praga,  dall’antica capitale?

Da Praga le venne la scarpa col tacco,

un saluto e la scarpa col tacco,

questo le venne da Praga.

E che venne alla donna del soldato

da Varsavia in riva alla Vistola?

Da Varsavia le venne la camicetta di lino,

così vivace e strana,  una camicetta polacca!

Questo le venne dalla riva della Vistola.

E che venne alla donna del soldato

da Oslo sul Sund?

Da Oslo le venne il baverino di pelliccia;

speriamo le piaccia,  il baverino di pelliccia!

Questo le venne da Oslo sul Sund.

E che venne alla donna del soldato

dalla ricca Rotterdam?

Da Rotterdam le venne il cappello.

E le sta bene,  il cappello olandese!

Questo le venne da Rotterdam

E che venne alla donna del soldato

da Bruxelles,  in terra belga?

Da Bruxelles i fini merletti.

Oh,  averli,  quei fini merletti!

Questi le vennero dalla terra belga.

E che venne alla donna del soldato

da Parigi la Ville lumière?

Da Parigi le venne la veste di seta.

Per l’invidia della vicina,  le veste di seta:

Questa le venne da Parigi.

E che venne alla donna del soldato

da Tripoli di Libia?

Da Tripoli le venne la catenella,

gli amuleti alla catenella di rame.

Questi le vennero da Tripoli.

E che venne alla donna del soldato

dall’ampio paese dei russi?

Di Russia le venne il velo di vedova.

Per il funerale il velo di vedova.

Questo le venne di Russia.

 

ERICH MARIA REMARQUE

TEMPO DI VIVERE,  TEMPO DI MORIRE

   Un fanale contorto sosteneva il cartello col nome della strada e indicava di sbieco una buca nella quale giacevano pezzi di muro e un letto di ferro.  Egli girò intorno alla buca e proseguì di corsa.  Poco dopo trovò una casa in piedi.  Il diciotto,  mormorò tra sé,  dev’essere il diciotto.  Dio mio,  fa’ che sia il diciotto!

Aveva sbagliato,  era soltanto la facciata di una casa che,  al buio,  gli era parsa intera.  Quando si avvicinò vide che tutta la parte interna era crollata.  Un pianoforte era incastrato fra le putrelle d’acciaio:  il coperchio era scomparso e i tasti sembravano una gigantesca fila di denti come se di lassù un grosso animale antidiluviano stesse minaccioso in agguato.  Il portone di casa era spalancato.

Graeber si avvicinò.  “Ehi,  Attenzione!”  gridò qualcuno.  “Dove va?”

Egli non rispose.  Non riusciva più a ricordare dove era stata esattamente la casa dei suoi genitori.  In tutti quegli anni l’aveva vista davanti a sé con le finestre,  l’ingresso,  la scala,  ora invece tutto gli si confondeva.  Non sapeva nemmeno da quale parte della strada dovesse stare.

Ehi,  stia attento!”  ripeté quella voce.  “Vuol prendersi il muro sulla testa?”

Graeber guardò dalla porta e vide l’inizio di una scala.  Cercò il numero di casa.  Un capofabbricato si avvicinò:  “Che cosa vuole?”

È questo il numero diciotto?  Dov’è il diciotto?”

“Diciotto?”  Il capofabbricato si aggiustò l’elmetto.  “Vuol sapere dov’è il diciotto?  Dov’era,  vorrà dire.”

“Come?”

“Non ha occhi?”

“Ma questo non è il diciotto.”

“Non era.  Non si può più dire èEra,  era,  ecco la parola d’ordine.”

Graeber lo afferrò per il bavero.  “Senta,  non sono venuto per ascoltare le sue spiritosaggini.  Andiamo,  dov’è il diciotto?”

Quello lo guardò:  “Mi lasci subito o chiamo la polizia con un fischio.  Lei qui non c’entra.  Questa è zona di sgombero.  La posso far arrestare.”

“Nessuno mi arresterà.  Vengo dal fronte.”

“Che arie!  Crede che questo non sia fronte?”

Graeber lo lasciò andare e soggiunse:  “Io abito al numero diciotto.  Qui ci stanno i miei genitori…”.

“In questa via non ci sta nessuno.”

“Dice davvero?”

“Dovrò ben saperlo.  Anch’io abitavo qui.”  E digrignò i denti.  “Abitavo,  abitavo!  In due settimane abbiamo avuto sei incursioni aeree.  Ha capito,  lei che viene dal fronte?  E intanto voialtri laggiù facevate i poltroni.  Siete sani e allegri,  si vede.  E mia moglie?  Là,  vede”  e indicò la casa davanti alla quale si erano fermati.  “Chi la cava fuori di lì?  Nessuno.  Ormai è inutile,  dicono i reparti di salvataggio.  C’è troppo altro lavoro urgente,  troppa cartaccia,  troppi uffici,  troppe autorità da salvare.”  E accostò a Graeber la faccia smunta.  “Le voglio dire una cosa.  Non si capisce mai quel che succede finché non si tratta della propria pelle.  E quando lo si capisce è troppo tardi.  Inteso?  Vede,  eroe carico di chincaglierie,  il diciotto è laggiù dove stanno scavando.”

Graeber lo piantò lì pensando:  Non è vero.  Ora sogno,  ma mi sveglierò.  Sono in trincea,  mi sveglio in una cantina del villaggio russo senza nome e c’è Immermann che bestemmia,  c’è Mücke,  c’è Sauer,  qui siamo in Russia,  non è la Germania,  la Germania è sana e salva e…

 

BERTOLT BRECHT

RICORDO DI MARIE A.

Un giorno di settembre,  il mese azzurro,

tranquillo sotto un giovane susino

io tenni l’amor mio pallido e quieto

tra le mie braccia come un dolce sogno.

E su di noi nel bel cielo d’estate

c’era una nube ch’io mirai a lungo:

bianchissima nell’alto si perdeva

e quando riguardai era sparita.

 

E da quel giorno molte molte lune

trascorsero nuotando per il cielo.

Forse i susini ormai sono abbattuti:

tu chiedi che ne è di quell’amore?

Questo ti dico:  più non lo ricordo.

E pure certo,  so cosa intendi.

Pure il suo volto più non lo rammento,

questo rammento:  l’ho lasciato un giorno.

 

Ed anche il bacio avrei dimenticato

senza la nube apparsa su nel cielo.

Questa ricordo e non potrò scordare:

era molto bianca e veniva giù dall’alto.

Forse i susini fioriscono ancora

e quella donna ha forse sette figli,

ma quella nuvola fiorì solo un istante

e quando riguardai sparì nel vento.

 

HEINRICH BÖLL

LA PALLIDA ANNA

   Tornai dalla guerra solo nel 1950,  e in città non trovai più nessuno che conoscessi.  Per fortuna i miei genitori mi avevano lasciato dei soldi.  Affittai una camera in città,  e là me ne stavo sdraiato a letto,  fumavo,  aspettavo e non sapevo che cosa aspettassi.  Di lavorare non avevo voglia.  Davo del denaro alla mia affittacamere,  e lei mi comprava tutto e mi preparava da mangiare.  Ogni volta che mi portava il caffè o il cibo in camera si fermava più a lungo di quel che avrei voluto.  Suo figlio era morto in una località chiamata Kalinovka,  e appena entrata lei posava il vassoio sulla tavola e si avvicinava all’angolo in penombra dov’era il mio letto.

 

La mia affittacamere era pallida e magra,  e quando nella penombra la sua faccia si fermava sopra il mio letto,  mi faceva addirittura paura.  Dapprima pensai che fosse matta,  perché i suoi occhi erano molto chiari e grandi,  e non faceva che rivolgermi domande su suo figlio.

È proprio sicuro di non averlo conosciuto?  La località si chiamava Kalinovka…  non c’è mai stato,  là?”

Ma io non avevo mai sentito parlare di un posto chiamato Kalinovka,  e ogni volta mi giravo verso la parete e dicevo:

“No,  davvero,  non riesco proprio a ricordare.”

Ma lei non era matta,  era una donna molto a posto e mi addolorava sentirle far quelle domande.  M’interrogava molto spesso,  ogni giorno un paio di volte,  e quando andavo da lei in cucina dovevo guardare la fotografia di suo figlio,  una foto a colori appesa sopra il divano.  Era un ragazzo biondo e ridente,  e su quella foto indossava un’uniforme ordinaria di fanteria.

“Gliel’hanno scattata al presidio,” mi spiegava lei,  “prima che partissero per il fronte.”

Era un ritratto a mezza figura:  portava l’elmetto d’acciaio,  e dietro di lui si vedeva chiaramente un fondale dipinto rappresentante le rovine di un castello coperte di una vite artificiale.

“Faceva il bigliettaio del tram,” mi disse lei.  “Un ragazzo laborioso”.  Poi prendeva ogni volta la scatola di cartone piena di fotografie che teneva sul tavolino da lavoro,  tra ritagli di stoffa e gomitoli di filo.  Ed ero costretto a prendere in mano moltissime fotografie di suo figlio:  (…).

E mi mostrava l’ultima foto di lui,  prima che andasse soldato;  lo si vedeva in uniforme di bigliettaio accanto a una vettura della linea 9,  al capolinea,  dove il tram gira intorno alla rotonda,  e io riconobbi il chiosco delle bibite dove avevo comprato così spesso le sigarette prima che scoppiasse la guerra;  riconobbi i pioppi che ci sono ancor oggi,  la villa coi leoni dorati davanti al portale,  che oggi invece non ci sono più,  e mi tornò in mente la ragazza alla quale avevo pensato così spesso durante la guerra:  era carina,  pallida con gli occhi stretti,  e prendeva sempre il tram al capolinea del 9.

Ogni volta guardavo a lungo la fotografia che raffigurava il figlio della mia affittacamere al capolinea del 9,  e pensavo a tante cose:  alla ragazza e alla fabbrica di sapone dove lavoravo a quel tempo,  sentivo lo stridio del tram,  vedevo la limonata rossa che d’estate bevevo a quel chiosco,  i manifesti verdi di una marca di sigarette e ancora la ragazza.

“Forse,”  diceva l’ affittacamere,  “lei lo ha proprio conosciuto”.  Io scotevo la testa e rimettevo la fotografia dentro la scatola.  Era una foto su carta patinata e pareva ancora nuova,  benché avesse già otto anni.

“No,  no,” dicevo,  “e anche Kalinovka…  no,  veramente.”

…..

 

HERMANN HESSE

VIENI CON ME

Vieni con me!

Devi affrettarti però

sette lunghe miglia

io faccio ad ogni passo.

Dietro il bosco ed il colle

aspetta il mio cavallo rosso.

Vieni con me!  Afferro le redini –

vieni con me nel mio castello rosso.

Lì crescono alberi blu

con mele d’oro,

là sogniamo sogni d’argento,

che nessun altro può sognare.

Là dormono rari piaceri,

che nessuno finora ha assaggiato,

sotto gli allori baci purpurei –

Vieni con me per boschi e colli!

Tieniti forte!  Afferro le redini,

e tremando il mio cavallo ti rapisce.

 

HEINRICH BÖLL

OPINIONI DI UN CLOWN

 

Era già buio quando arrivai a Bonn.  Feci uno sforzo per non dare al mio arrivo quel ritmo di automaticità che si è venuto a creare in cinque anni di continuo viaggiare:  scendere le scale della stazione,  risalire altre scale,  deporre la borsa da viaggio,  levare il biglietto dalla tasca del soprabito,  consegnare il biglietto,  dirigersi verso l’edicola dei giornali,  comperare le edizioni della sera,  uscire,  far cenno a un tassì.  Per cinque anni quasi ogni giorno sono partito da qualche luogo e sono arrivato in qualche luogo,  la mattina ho disceso e salito scale di stazioni,  ho chiamato tassì,  ho cercato la moneta nella tasca della giacca per pagare la corsa,  ho comperato giornali della sera alle edicole e,  in un angolo riposto del mio io,  ho gustato la scioltezza perfettamente studiata di questo automatismo.  Da quando Maria mi ha lasciato per sposare Züpfner,  quel cattolico,  il ritmo è diventato ancor più meccanico,  senza perdere in scioltezza.  Per la distanza dalla stazione all’albergo,  dall’albergo alla stazione,  c’è un’unità di misura:  il tassametro.  A due marchi,  tre marchi,  quattro marchi dalla stazione.  Da quando Maria non c’è più,  qualche volta ho perso il ritmo,  ho confuso l’albergo con la stazione,  ho cercato nervosamente il biglietto ferroviario davanti al portiere dell’albergo,  oppure ho chiesto all’impiegato che ritira i biglietti all’uscita della stazione il numero della mia camera.  Qualcosa che si può chiamare destino,  mi riportava alla mente il mio mestiere e la mia situazione.  Sono un clown.

 

Sono un clown (…) e faccio raccolta di attimi.

 

HERMANN HESSE

SENZA TITOLO

Come pesano queste giornate!

Non c’è fuoco che possa scaldare,

non c’è sole che rida per me,

solo il vuoto c’è,

solo le cose gelide e spietate,

e perfino le chiare

stelle mi guardano sconsolate,

da quando ho saputo nel cuore

che anche l’amore muore.