VOCES AL SUR

LETTURE DA AUTORI CILENI

(Scelte da Ezio Beccaria)

Gracias a la vida,  que me ha dado tanto

Me ha dado la risa y me ha dado el llanto

Asi yo distingo dicha de quebranto

Los dos materiales que forman mi canto

Y el canto de ustedes,  que es el mismo canto

Y el canto de todos,  que es mi propio canto

Violeta Parra

(San Carlos 1917 – 1967)

 

 

PABLO NERUDA

(Parral 1904 – 1973)

AH IMMENSITÀ DI PINI,  RUMORE D’ONDE CHE S’INFRANGONO

Ah immensità di pini,  rumore d’onde che s’infrangono,

gioco lento di luci,  campana solitaria,

crepuscolo che cala sui tuoi occhi,  bambolina,

conchiglia terrestre,  in te la terra canta!

 

Cantano in te i fiumi e la mia anima li insegue

come tu vuoi e laddove a te piace.

Indicami la strada sul tuo arco di speranza

e libererò delirante il mio stormo di frecce.

 

Sto vedendo intorno a me la tua cintura di nebbia

e il tuo silenzio incalza le mie ore braccate,

ed è in te,  nelle tue braccia di pietra trasparente,

che ancorano i miei baci e la mia umida ansia si annida.

 

Ah la tua voce misteriosa che l’amore colora e piega

nel tramonto che risuona e muore!

Così nelle ore profonde sui campi ho visto

piegarsi le spighe nella bocca del vento.

 

Da VEINTE POEMAS DE AMOR Y UNA CANCIÓN DESESPERADA  (1924)

 

 

MARCELA SERRANO

(Santiago del Cile 1951 – )

NOI CHE CI VOGLIAMO COSÌ  BENE

   Dicono che sono malata.

Non so bene perchè mi trovi in questa clinica.  Mi ci ha portato Magda quella notte,  pensando che avessi tentato di suicidarmi.  Ho provato a spiegarle,  il giorno successivo,  che quella non era la mia intenzione.  Magda non capisce che ero solo stanca.  Per questo ho perso conoscenza.  Avrebbe potuto portarmi in un ospedale qualsiasi.  Ma non mi credono.  Dicono che la miscela di tranquillanti e alcol può essere letale.  E che io lo sapevo.

Qui sto bene.  È tutto molto grigio,  in sintonia con me stessa.  Le donne che occupano i letti accanto – le ho notate questa mattina – stanno peggio di me.  Una piangeva,  un’altra vomitava.  Ho visto braccia e gambe ciondolare dai letti e mi sono domandata se non fossero tutte morte.  Per lo meno materassi e lenzuola sono puliti.  La vegetazione che scorgo dalla finestra mi dà l’idea che ci troviamo vicino alla cordigliera,  nella città alta.  Non ho neppure chiesto,  e non mi importa.  Ho avuto soltanto uno scontro con l’infermiera:  ha cercato di portarmi via le sigarette.  Quel pacchetto che ho implorato,  che sono riuscita virtualmente a estrarre dalla borsa di Magda.  Non gliel’ho permesso e le ho detto chiaramente che me ne sarei andata via subito,  se me lo avesse confiscato.  La cosa strana è che mi ha dato ascolto.  Se ha a che fare con gli psicopatici,  deve essere abituata all’aggressività.  Ho usato con lei lo stesso tono di comando che usava mia madre con i contadini,  e ha fatto effetto.  Non mi lasceranno senza fumare,  è l’unica cosa per la quale mi resta ancora la volontà.

Ho passato tutto il giorno da sola,  a letto:  sta calando la sera e,  con quella,  la desolazione.  Ma non importa.  Voglio solo riposare.  Sarebbe bello che il dottore mi prescrivesse una cura del sonno.  Glielo chiederò,  forse acconsente.  E potrei svegliarmi a Las Mellizas,  la casa della mia infanzia,  e dire come Rossella O’Hara:  “Domani è un altro giorno.”

 

 

PABLO NERUDA

LA REGINA

Io ti ho nominato regina.

Ve n’è di più alte di te,  di più alte.

Ve n’è di più pure di te,  di più pure.

Ve n’è di più belle di te,  di più belle.

 

Ma tu sei la regina.

 

Quando vai per le strade

nessuno ti riconosce.

Nessuno vede la tua corona di cristallo,  nessuno guarda

il tappeto d’oro rosso

che calpesti dove passi,

il tappeto che non esiste.

 

E quando t’affacci

tutti i fiumi risuonano

nel mio corpo,  scuotono

il cielo le campane,

e un inno empie il mondo.

 

Tu sola ed io,

tu sola ed io,  amor mio,

lo udiamo.

 

 

ISABEL ALLENDE

(Lima,  Perù 1942 – )

IL MIO PAESE INVENTATO

2.  PAESE D’ESSENZE LONGITUDINALI

  Cominciamo dal principio,  dal Cile,  quella terra remota che pochi sono in grado di localizzare sull’atlante,  perché è il posto più lontano dove si possa andare senza cadere giù dal pianeta.  “Perché non vendiamo il Cile e ci compriamo qualcosa più vicino a Parigi?”  domandava uno dei nostri scrittori.  Nessuno capita per caso da quelle parti,  per quanto possa essersi perso,  anche se molti visitatori decidono di rimanerci per sempre,  affascinati dalla terra e dalla gente.  E‘ il punto finale di tutte le rotte,  una lancia nel Sud del Sud America,  quattromilatrecento chilometri di colline,  vallate,  laghi e mari.  Così la descrive Neruda nella sua appassionata poesia:

 

Notte,  neve e sabbia disegnano la forma

della mia patria sottile,

tutto il silenzio giace nella lunga linea,

tutta la spuma straripa dalla barba marina,

tutto il carbone la colma di misteriosi baci.

 

  Questa terra affusolata è come un’isola,  separata dal resto del continente,  a nord dal Deserto di Atacama,  il più arido del mondo,  come amano dire i suoi abitanti,  anche se probabilmente non è vero,  perché in primavera una parte di questo calcinaccio lunare indossa un manto di fiori,  come un meraviglioso dipinto di Monet;  a est dalla Cordigliera delle Ande,  imponente massiccio di rocce e nevi perenni;  a ovest dalle coste scoscese dell’Oceano Pacifico;  a sud dal solitario Antartico.  Questo paese,  dalla topografia drammatica e dai climi diversi,  pieno di ostacoli capricciosi e scosso dai sospiri di centinaia di vulcani,  che si estende come un miracolo geologico dai rilievi della cordigliera agli abissi del mare,  è unito dal profondo senso di nazionalità dei suoi abitanti.

 

 

PABLO NERUDA

BIMBA BRUNA E FLESSUOSA,  IL SOLE CHE FA LA FRUTTA

Bimba bruna e flessuosa,  il sole che fa la frutta,

quello che riempie il grano,  quello che piega le alghe,

ha fatto il tuo corpo allegro,  i tuoi occhi luminosi

e la tua bocca che ha il sorriso dell’acqua.

 

Un sole nero e ansioso si attorciglia alle matasse

della tua nera chioma,  quando allunghi le braccia.

Tu giochi con il sole come con un estuario

e lui ti lascia negli occhi due stagni scuri.

 

Bimba bruna e flessuosa,  nulla mi avvicina a te.

Tutto da te mi allontana,  come dal mezzogiorno.

Sei la delirante gioventù dell’ape,

l’ebbrezza dell’onda,  la forza della spiga.

 

Eppure il mio cuore cupo ti cerca,

e amo il tuo corpo allegro,  la tua voce disinvolta e sottile.

Farfalla bruna dolce e definitiva

come il campo di grano e il sole,  il papavero e l’acqua.

 

Da VEINTE POEMAS DE AMOR Y UNA CANCIÓN DESESPERADA  (1924)

 

 

PABLO NERUDA

POSSO SCRIVERE I VERSI…

Posso scrivere i versi più tristi questa notte.

 

Scrivere,  ad esempio:  “La notte è stellata,

e tremolano,  azzurri,  gli astri,  in lontananza”.

 

Il vento della notte gira nel cielo e canta.

 

Posso scrivere i versi più tristi questa notte.

Io l’amai,  e a volte anche lei mi amò.

 

Nelle notti come questa la tenni tra le mie braccia.

La baciai tante volte sotto il cielo infinito.

 

Lei mi amò,  a volte anch’io l’amavo.

Come non amare i suoi grandi occhi fissi.

 

Posso scrivere i versi più tristi questa notte.

Pensare che non l’ho.  Sentire che l’ho perduta.

 

Udire la notte immensa,  più immensa senza lei.

E il verso cade sull’anima come sull’erba la rugiada.

 

Che importa che il mio amore non potesse conservarla.

La notte è stellata e lei non è con me.

 

È tutto.  In lontananza qualcuno canta.  In lontananza.

La mia anima non si accontenta di averla perduta.

 

Come per avvicinarla il mio sguardo la cerca.

Il mio cuore la cerca,  e lei non è con me.

 

La stessa notte che fa biancheggiare gli stessi alberi.

Noi,  quelli di allora,  più non siamo gli stessi.

 

Più non l’amo,  è certo,  ma quanto l’amai.

La mia voce cercava il vento per toccare il suo udito.

 

D’altro.  Sarà d’altro.  Come prima dei miei baci.

La sua voce,  il suo corpo chiaro.  I suoi occhi infiniti.

 

Più non l’amo è certo,  ma forse l’amo.

È così breve l’amore,  ed è sì lungo l’oblio.

 

Perché in notti come questa la tenni tra le mie braccia,

la mia anima non si rassegna ad averla perduta.

 

Benché questo sia l’ultimo dolore che lei mi causa,

e questi siano gli ultimi versi che io le scrivo.

 

LUIS SEPÚLVEDA

(Ovalle 1949 – )

LE ROSE DI ATACAMA

STORIE MARGINALI

  Un paio di anni fa visitai il campo di concentramento di Bergen Belsen,  in Germania.  In mezzo a un silenzio atroce,  feci il giro delle fosse comuni in cui giacciono migliaia di vittime dell’orrore nazista,  chiedendomi dove fossero i resti di una certa bambina che ci ha lasciato la più commovente testimonianza di quella barbarie e la certezza che la parola scritta è il più grande e invulnerabile dei rifugi,  perché le sue pietre sono unite dalla malta della memoria.  Cercai ovunque,  ma invano:  non trovai alcun indizio che mi portasse ad Anna Franck.

Alla morte fisica,  i boia avevano aggiunto la seconda morte dell’oblio e dell’anonimato.  “Un morto è uno scandalo,  mille morti sono una statistica”  affermava Goebbels,  e questo è quanto hanno sempre detto e continuano a ripetere i militari cileni e argentini e i loro complici mascherati da democratici.  Questo è quanto hanno sempre detto e continuano a ripetere i Milosevic’,  i Mladic’ e i loro complici mascherati da negoziatori di pace.  Questo è quanto ci viene continuamente sputato in faccia dai massacratori dell’Algeria,  così vicina all’Europa.

Bergen Belsen non è certo un posto da passeggiate,  perché il peso dell’infamia opprime,  e all’angoscia del “cosa posso fare io perché tutto questo non si ripeta mai più?”  subentra il desiderio di conoscere e narrare la storia di ciascuna delle vittime,  di aggrapparsi alla parola come unico scongiuro contro l’oblio,  di dare nome e voce alle vicende gloriose o insignificanti dei nostri genitori,  dei nostri amori,  dei nostri figli,  dei nostri vicini e dei nostri amici,  di trasformare la vita in una vera e propria forma di resistenza contro l’oblio,  perché,  come ha detto il poeta Guimaraes Rosa,  narrare è resistere.

In un angolo del campo di concentramento,  a un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori,  nella ruvida superficie di una pietra,  qualcuno,  chi?,  aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse,  o di un chiodo,  la più drammatica delle proteste:  “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”.

 

Credo di aver letto un migliaio di libri,  ma mai un testo che mi sia parso così duro,  così enigmatico,  così bello e al tempo stesso così straziante come quello inciso nella pietra.

“Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”  aveva scritto una donna,  forse,  o un uomo.  E quando?  Pensava alla sua saga personale,  unica e irripetibile,  o l’aveva fatto in nome di tutti coloro che non vengono mai citati nei notiziari,  che non hanno biografie,  ma solo un labile passaggio per le strade della vita?

Non so quanto tempo rimasi davanti a quella pietra,  ma man mano che scendeva la sera vidi che altre mani passavano sull’iscrizione per impedire che fosse ricoperta dalla polvere dell’oblio.  Erano quelle di un tedesco,  Fritz Niemand,  Federico Nessuno,  che sopravvissuto all’orrore nazista gira cieco la Germania cercando le voci dei carnefici.  Di un argentino,  Lucas,  che stufo di discorsi ipocriti decise di salvare i boschi della Patagonia andina con il solo aiuto delle sue mani.  Di un cileno,  il professor Gálvez,  che in un esilio mai capito sognava la sua vecchia aula scolastica e si svegliava con le dita sporche di gesso.   Di un Ecuadoriano,  Vidal,  che sopportava i pestaggi dei latifondisti raccomandandosi a Greta Garbo.  Di un italiano,  Giuseppe,  che era giunto in Cile per errore,  aveva trovato i suoi migliori amici per errore,  era stato felice a causa di un altro enorme errore e rivendicava il diritto di sbagliarsi.  Di un Bengalese,  Simpah,  che ama le navi e le porta alla demolizione ricordando loro le bellezze dei mari che hanno solcato.  E del mio amico Fredy Taberna,  che affrontò i suoi assassini cantando…

Tutti loro,  e molti altri,  erano lì a togliere la polvere dalle parole incise nella pietra e io capii che dovevo raccontare le loro storie.

 

 

PABLO NERUDA

MI PIACI QUANDO TACI PERCHÉ SEI COME ASSENTE

Mi piaci quando taci perché sei come assente,

e mi ascolti da lontano,  e la mia voce non ti tocca.

Sembra che siano dileguati i tuoi occhi

e che un bacio ti abbia chiuso la bocca.

 

Siccome ogni cosa è piena della mia anima

tu emergi dalle cose,  piena dell’anima mia.

Farfalla di sogno,  assomigli alla mia anima,

e assomigli alla parola malinconia.

 

Mi piaci quando taci e sei come distante.

Sembri lamentarti,  farfalla che tuba.

E mi ascolti da lontano e la mia voce non ti giunge:

lascia che io taccia con il silenzio tuo.

 

Lascia che ti parli anche con il tuo silenzio

chiaro come una lampada,  semplice come un anello.

Sei come la notte,  silenziosa e stellata.

Il tuo silenzio è di stella,  così lontano e semplice.

 

Mi piaci quando taci perché sei come assente.

Distante e dolorosa come se fossi morta.

Poi basta una parola,  un sorriso.

E sono felice,  felice che non sia vero.

 

Da VEINTE POEMAS DE AMOR Y UNA CANCIÓN DESESPERADA  (1924)

 

 

PABLO NERUDA

PER IL MIO CUORE BASTA IL TUO PETTO

Per il mio cuore basta il tuo petto,

per la tua libertà bastano le mie ali.

Dalla mia bocca arriverà fino al cielo

ciò che stava sopito sulla tua anima.

 

È in te l’illusione di ogni giorno.

Giungi come la rugiada sulle corolle.

Scavi l’orizzonte con la tua assenza.

Eternamente in fuga come l’onda.

 

Ho detto che cantavi nel vento

come i pini e come gli alberi maestri delle navi.

Come quelli sei alta e taciturna.

E di colpo ti rattristi,  come un viaggio.

 

Accogliente come una vecchia strada.

Ti popolano echi e voci nostalgiche.

Io mi sono svegliato e a volte migrano e fuggono

gli uccelli che dormivano nella tua anima.

 

Da VEINTE POEMAS DE AMOR Y UNA CANCIÓN DESESPERADA  (1924)

 

 

 ISABEL ALLENDE

 

D’AMORE E OMBRA

Seconda parte

Le ombre

Ben presto si sentì meglio e riuscì a godersi l’attraente spettacolo della città in primavera,  delle strade pulite,  dei muri dipinti di recente,  della gente cortese e disciplinata,  tutte cose di cui bisognava ringraziare le autorità,  che esercitavano controllo e vigilanza.  Osservò le vetrine dei negozi zeppi di merci esotiche prima mai messe in vendita nel paese,  i lussuosi edifici con piscine circondate da palme nane sugli attici,  chiocciole di cemento in cui si aprivano botteghe stravaganti per i nuovi ricchi e alti muri che nascondevano le zone della povertà,  dove la vita trascorreva fuori dell’ordine del tempo e delle leggi di Dio.  Dinanzi all’impossibilità di eliminare la miseria,  si era proibito di parlarne.  Le notizie sui giornali erano tranquillizzanti,  vivevano in un regno incantato.  Erano completamente false le voci di donne e bambini che assaltavano panetterie sospinti dalla fame.  Le brutte notizie provenivano solo dall’estero,  dove il mondo si dibatteva fra problemi irresolvibili che non sfioravano la benemerita patria.  Per le strade circolavano automobili giapponesi così delicate che sembravano doversi sgretolare e le enormi motociclette nere con tubi cromati dei guardiani dell’ordine;  a ogni angolo c’erano annunci pubblicitari che offrivano appartamenti esclusivi per gente speciale,  i viaggi di Marco Polo a credito e gli ultimi ritrovati dell’elettronica.  Proliferavano i luoghi di svago con le luci accese e le porte sorvegliate fino al segnale del coprifuoco.  Si parlava dell’opulenza,  del miracolo economico,  dei capitali stranieri incanalati a fiotti grazie ai meriti del regime.  Gli scontenti venivano definiti antipatriottici,  perché la felicità era d’obbligo.  Mediante una  legge di segregazione non scritta,  ma nota a tutti,  funzionavano due paesi sullo stesso territorio nazionale,  l’uno della élite dorata e potente e l’altro della massa emarginata e silenziosa.  E‘ il prezzo sociale,  sentenziavano i giovani economisti della nuova scuola e così ripetevano i mezzi di comunicazione.

 

 

PABLO NERUDA

NON T’AMO

Non t’amo se non perché t’amo

e dall’amarti a non amarti giungo

e dall’attenderti quando non t’attendo

passa dal freddo al fuoco il mio cuore.

 

Ti amo solo perché io ti amo,

senza fine io t’odio,  e odiandoti ti prego,

e la misura del mio amor viandante

è non vederti e amarti come un cieco.

 

Forse consumerà la luce di gennaio,

il suo raggio crudo,  il mio cuore intatto,

rubandomi la chiave della calma.

 

In questa storia solo io muoio

e morirò d’amore perché t’amo,

perché t’amo,  amore,  a sangue e fuoco.

 

 

PABLO NERUDA

IL MONTE E IL FIUME

Nella mia patria c’è un monte.

Nella mia patria c’è un fiume.

 

Vieni con me.

 

La notte sale sul monte.

La fame scende al fiume.

 

Vieni con me.

 

chi sono quelli che soffrono?

Non lo so,  ma mi appartengono.

 

Vieni con me.

 

Non lo so,  ma mi chiamano

e mi dicono:  “Soffriamo”.

 

Vieni con me.

 

E mi dicono:  “Il tuo popolo,

il tuo popolo sventurato,

tra il monte e il fiume,

 

con fame e con sofferenze,

non vuole lottare solo,

ti sta aspettando,  amico”.

 

Oh tu,  che io amo,

piccola,  chicco rosso

di grano,

sarà dura la lotta

la vita sarà dura,

ma tu verrai con me.

 

Da LOS VERSOS DEL CAPITÁN  (1952)

 

LUIS SEPÚLVEDA

INCONTRO D’AMORE IN UN PAESE IN GUERRA

VIENI,  VOGLIO PARLARTI DI PILAR SOLÓRZANO

Il volume mi aspettava in un angolo di una piccola libreria antiquaria,  a Praga.

   Era un volume sottile,  rilegato in tela scarlatta,  con la copertina ornata da un rigo dorato,  in parte sbiadito,  che incorniciava due filigrane,  anch’esse dorate,  le quali concludevano le loro capricciose volute tracciando cardi e altri fiori che ricordavano i dipinti di Hieronymus Bosch.  Nella parte inferiore della copertina,  tra le filigrane,  c’era un’ellissi orizzontale con la scritta “Biblioteca scelta per la gioventù”.  Al centro,  in una specie di pergamena dispiegata a metà,  era impresso il titolo,  Storia della macchina a vapore,  e sotto dei caratteri massicci indicavano il nome della casa editrice:  Fratelli Garnier,  Parigi.

…  il libro con la copertina scarlatta racchiudeva un richiamo

…  spinsi la porta della libreria.

Da una porta sul fondo,  forse dell’abitazione,  comparve un anziano tutto infagottato.

Gli comunicai in tedesco il mio desiderio di esaminare il libro della vetrina,  e quando glielo indicai,  il vecchio sorrise prima di rivolgersi a me in uno spagnolo dall’accento dolce e stranamente familiare,  un accento altrettanto o più antico dei suoi libri:  era un ebreo sefardita e appariva felice di poter parlare la sua lingua.

“Ah,  il libro in spagnolo.  Da quanti anni è nella vetrina!”  disse consegnandomelo.

Il retro della copertina era protetto da un foglio di carta ocra e il frontespizio aveva lo stesso colore.  Quando vidi la calligrafia disinvolta della dedica,  tratti che evidentemente non avevano cercato l’effetto sorpresa,  capii che non avrei dovuto spingermi oltre nella lettura per comprendere il silenzioso richiamo che quel libro mi aveva lanciato dalla sua prigionia.

Non posso spiegare con precisione cosa provai guardando quelle parole scritte con un inchiostro,  forse azzurro,  che ora si confondeva con il colore indefinito del foglio.  O forse sì,  ma solo in minima parte:  provai compassione per un certo vecchio dalla barba rada,  morto più di trent’anni prima,  che avevo amato e a cui avevo tenuto compagnia in lontane sere cilene dal profondo silenzio.

L’affollarsi dei ricordi dovette modellare sul mio volto un’espressione preoccupante,  perché il libraio mi prese per un braccio,  mi accompagnò a una sedia e mi offrì un bicchierino di liquore.

“Pilar Solórzano è esistita”,  mi sentii mormorare.

“Non ti affliggere.  Tutto è possibile nei libri”,  spiegò il vecchio.

Fui grato al libraio che capì il mio asfissiante bisogno di parlare e iniziai a farlo mentre rileggevo più volte la scritta:  “Dedico questo libro a Genaro Blanco in omaggio ai suoi sogni e a tutto ciò che ci unisce.  Pilar Solórzano,  15 agosto 1909“.

Genaro Blanco.  Don Genaro.  Si chiamava così un vecchio Andaluso pieno di sogni che un giorno fu adottato come parente dalla mia famiglia.  Mia madre racconta che si trovava al quinto mese di gravidanza quando lui era apparso nel salotto di casa con una sgangherata valigia di cartone e un ombrello nero,  sostenuto per un braccio da mio nonno.

“Questo è Genaro,  mio compagno e fratello.  Qualche settimana fa ha perso la sua compagna e crede di essere rimasto solo.  Noi gli dimostreremo che,  nella grande fratellanza degli uomini liberi,  non si è mai soli.  Sii il benvenuto,  compagno.  Dividi con noi il vino,  il pane e l’affetto”,  pare che dicesse mio nonno,  indicandogli il suo posto alla tavola della famiglia.

“Auguro a tutti voi salute e anarchia”,  raccontano che rispose don Genaro,  di modo che,  quando quattro mesi dopo venni al mondo,  ebbi due nonni spagnoli e uno cileno.

   Tutto ciò che ricordo è frammentario,  e la memoria mi riporta con certezza solo una frase che gli sentii dire spesso quando,  dall’orlo del suo abisso di silenzio,  mi invitava a sedermi accanto a lui.  “Vieni,  voglio parlarti di Pilar Solórzano”,  ma non aggiungeva mai altro.

   Il libraio mi guardò con aria comprensiva,

Prima di parlare si tolse gli occhiali e li pulì con la sciarpa.

“Portati via il libro.  Ti stava aspettando.”

“Non le ho ancora chiesto il prezzo.  Non so neppure se posso pagarlo.”

“Portati via il libro.  C’è racchiuso un dubbio lontano che aspetta di essere risolto.  Se non lo porti via,  ti perseguiterà come un Golem.  Ricorda che sono ebreo e so quello che dico.  Il libro è tuo.  Apparteneva a Genaro Blanco e tu sei stato la sua famiglia.”

 

 

PABLO NERUDA

IL RAMO RUBATO

Nella notte entreremo

per rubare

un ramo fiorito.

 

Oltrepasseremo il muro,

nelle tenebre dell’altrui giardino,

due ombre nell’ombra.

 

L’inverno non è ancora finito

e già il melo appare

trasformato di colpo

in cascata di stelle profumate.

 

Nella notte entreremo

fino al suo tremante firmamento,

e le tue piccole mani e le mie

ruberanno le stelle.

 

E furtivamente,

in casa nostra,

nella notte e nell’ombra,

entrerà con i tuoi passi

il silenzioso passo del profumo

e con i piedi stellati

il corpo chiaro della Primavera.

 

Da LOS VERSOS DEL CAPITÁN  (1952)

 

 

PABLO NERUDA

ODE AL CHIARORE

 

La burrasca ha lasciato

sull’erba

fili di pino,  aghi,

e il sole nella coda del vento.

Un azzurro diretto

riempie il mondo.

 

Oh giorno pieno,

oh frutto

dello spazio,

il mio corpo è una coppa

in cui la luce e l’aria

cadono come cascate.

Tocco

l’acqua del mare.

Sapore di fuoco verde,

di bacio vasto e amaro

hanno le onde nuove

di questo giorno.

Intrecciano la loro trama d’oro

le cicale

nell’altezza sonora.

La bocca della vita

bacia la mia bocca.

 

Vivo,

amo

e sono amato.

Ricevo in me quanto esiste.

Sono seduto

su una pietra:

in lei

toccano

le acque e le sillabe

della selva

il chiarore ombroso

della sorgente che viene

a trovarmi.

Tocco il tronco

del cedro

le cui rughe mi parlano

del tempo e della terra.

Cammino

e vado con i fiumi,

ampio,  fresco e aereo

in questo nuovo giorno,

e lo ricevo,

sento

come

mi entra nel petto,  guarda coi miei occhi.

 

Io sono,

io sono il giorno,

sono

la luce.

Per questo

ho

doveri di mattina

impegni di mezzogiorno.

Devo

andare

con il vento e l’acqua,

aprire finestre,

abbattere porte,

rompere muri,

illuminare angoli.

 

Non posso

starmene seduto.

A presto.

Domani

ci rivedremo.

Oggi ho molte

battaglie da vincere.

Oggi ho molte ombre

da ferire e sterminare.

Oggi non posso

stare con te,  devo

eseguire il mio compito

di luce:

andare e venire per le strade,

le case e gli uomini

distruggendo

l’oscurità.  Io devo

dividermi

finché tutto sia giorno,

finché tutto sia chiarore

e allegria sulla terra.

 

Da ODAS ELEMENTALES  (1954)

 

 

FRANCISCO COLOANE

(Quemchi 1910 – 2002)

TERRA DEL FUOCO

TERRA D’OBLIO

 

Più ci spingevamo verso l’interno e più il paesaggio diventava tetro e inquietante.  La desolazione di alcuni passi infondeva un vago timore nell’animo e persino i cavalli drizzavano le orecchie,  spaventati da qualcosa che non riuscivano a scorgere ma che costituiva una presenza reale quanto la viva roccia.

Il nostro sentiero sfiorava ogni tanto l’abisso e alla vista del fiume,  fragoroso,  che scorreva laggiù in fondo,  restavamo,  uomo ed animale,  sospesi per qualche istante,  cercando di addossarci alla parete di pietra che con la sua forza di gravità sembrava spingere verso la vertigine.  In quel momento non eravamo niente;  ci limitavamo a irrigidirci un po‘ di più sulle staffe,  ci aggrappavamo alle redini,  e il cavallo,  da solo,  andava avanti al passo veloce sull’arida roccia con impavida fermezza.

Prima di una svolta in cui il petto della montagna sembrava gonfiarsi in fuori,  vedemmo per l’ultima volta il mare.  E fu come se avessimo perduto qualcosa…  Qualcosa che non avremmo mai più ritrovato.

Allora cominciammo a capire il motivo dell’opprimente inquietudine che si andava impossessando di noi mano a mano che ci addentravamo in quel desolato paesaggio.  Il mare,  per quanto possa essere cupo e violento quando si naviga nel mezzo della sua vastità,  da quella distanza assumeva le sembianze di un immenso compagno,  una quieta pianura di pace,  la cui vista infondeva calma e,  soprattutto,  una vaga e indefinibile sensazione di speranza.

Ci sono paesaggi,  come certi istanti della vita,  che non si possono cancellare mai dalla mente;  tornano sempre ad attraversarci dal di dentro,  con intensità ogni volta più forte.  E volgere l’ultimo sguardo al mare fu uno di questi;  avevamo voltato la testa per non perdere l’estrema visione di quella speranza e addentrarci definitivamente nella terra dell’oblio.

PABLO NERUDA

DOVETE ASCOLTARMI

Io andai cantando errante

tra le uve

d’Europa

e sotto il vento,

sotto il vento in Asia.

 

Il meglio delle vite

e la vita,

la dolcezza della terra,

la pace pura,

andai raccogliendo,  errante,

raccogliendo.

 

Il meglio di una terra

e altra terra

ho innalzato nella mia bocca

con il mio canto:

La libertà del vento,

la pace tra le uve.

 

Sembravano gli uomini

nemici,

ma la stessa notte

li copriva

ed era lo stesso chiarore

quello che li svegliava:

il chiarore del mondo.

 

Io entrai nelle case quando

mangiavano intorno al tavolo,

 

tornavano dalle fabbriche,

ridevano o piangevano.

 

Tutti erano uguali.

 

Tutti tenevano gli occhi

rivolti alla luce,  cercavano

il cammino.

 

Tutti avevano bocca,

cantavano

rivolti alla primavera.

 

Tutti.

 

Per questo

io cercai tra le uve

e il vento

il meglio degli uomini.

 

Adesso dovete ascoltarmi.

 

Da LAS UVAS Y EL VIENTO  (1954)

 

 

PABLO NERUDA

ODE ALLA SPERANZA

Crepuscolo marino,

in mezzo

alla mia vita,

le onde come uve,

la solitudine del cielo,

mi colmi

e mi trabocchi,

tutto il mare,

tutto il cielo,

movimento

e spazio,

i battaglioni bianchi

della schiuma,

la terra color arancia,

la cintura

incendiata

del sole in agonia,

tanti

doni e doni,

uccelli

che vanno verso i loro sogni,

e il mare,  il mare,

aroma

sospeso,

coro di sale sonoro,

e nel frattempo,

noi,

gli uomini,

vicino all’acqua,

che lottiamo

e speriamo

vicino al mare,

speriamo.

 

Le onde dicono alla costa salda:

“Tutto sarà compiuto”.

 

Da ODAS ELEMENTALES  (1954)

 

 

ISABEL ALLENDE

D’AMORE E OMBRA

 

Terza parte

Dolce patria

L’aveva preso la letteratura e si era smarrito sedotto nell’opera degli scrittori latinoamericani,  rendendosi conto che viveva in un paese in miniatura,  una macchia sulla carta geografica,  immerso in un vasto e prodigioso continente dove il progresso arriva con secoli di ritardo;  terra di uragani,  di terremoti,  di fiumi vasti come mari,  di foreste così fitte che non vi penetra la luce del sole;  un territorio nel cui humus eterno si trascinano animali mitologici e vivono esseri umani immutabili dall’origine del mondo;  una sgangherata geografia dove si nasce con una stella in fronte,  segno del meraviglioso,  regione incantata di tremende cordigliere dove l’aria è sottile come un velo,  di deserti assolati,  di ombrosi boschi e di serene vallate.  Lì si mescolano tutte le razze nel crogiolo della violenza:  indiani impennacchiati,  viaggiatori di repubbliche lontane,  negri peregrinanti,  cinesi giunti di contrabbando dentro casse di mele,  turchi confusi,  ragazze di fuoco,  frati,  profeti e tiranni,  tutti l’uno accanto all’altro,  i vivi e i fantasmi di chi lungo i secoli aveva percorso questa terra benedetta da tante passioni.  Ovunque si trovano uomini e donne americani,  che soffrono nei canneti,  che tremano di febbre nelle miniere di stagno e d’argento,  persi sotto l’acqua in cerca di perle e sopravvivendo,  malgrado tutto,  nelle prigioni.

 

 

PABLO NERUDA

ODE ALLA CROCE DEL SUD

Oggi 14 aprile,

sulla costa,

notte

e vento,

notte

buia

e vento,

si è turbata l’ombra,

si è inalberato il cipresso

delle stelle,

le foglie della notte

hanno trascinato

la polvere morta

nello spazio

e tutto è rimasto limpido

e tremante.

 

Albero

di spade

fredde

fu la tenebra

stellata,

coppa

dell’universo,

raccolto

di platino,

tutto ardeva

nelle alte

solitudini

marine,

a Isla Negra

camminando

sottobraccio

alla mia amata,

e lei,

allora,

ha alzato appena un braccio

immerso

nel buio

e come un raggio di ambra

diretto

dalla terra al cielo

mi ha mostrato

quattro stelle:

la Croce del Sud immobile

sulle nostre teste.

 

In un attimo

si sono spenti tutti

gli occhi

della notte

e solo ho visto conficcate

nel cielo deserto

quattro rose azzurre,

quattro pietre gelate.

E le ho detto,

prendendo

la mia lira

di poeta

davanti al vento

oceanico,  tra i morsi

dell’onda:

Croce

del Sud,  dimenticato

vascello

della mia patria,

fermaglio

sul petto

della notte turgida,

costellazione marina,

luce

delle case povere,

lampada errante,  rombo

di pioggia e velluto,

forbice dell’altitudine,

farfalla,

posa le tue quattro labbra

sulla mia fronte

e conducimi

nel tuo notturno

sogno

e traversata

per le isole del cielo,

per i versanti

dell’acqua della notte,

per la roccia

magnetica,

madre delle stelle,

fino al tumulto

del sole,  al vecchio carro

dell’aurora

coperto di limoni.

E non mi ha risposto

la Croce del Sud:

ha continuato il suo viaggio

spazzata

dal vento.

Allora,  ho lasciato la lira

da parte,

lungo il sentiero,

e ho abbracciato la mia amata

e mentre avvicinavo i miei occhi

ai suoi occhi,

ho visto in quelli,

nel suo cielo,

quattro punte

di diamante acceso.

 

La notte e il suo vascello

nel suo amore

palpitavano

e ho baciato ad una ad una

le sue stelle

 

Da NUEVAS ODAS ELEMENTALES  (1956)

 

 

PABLO NERUDA

IO TORNERÒ

 

Un giorno,  uomo o donna,  viandante,

dopo,  quando non vivrò,

cercate qui,  cercatemi

tra pietra e oceano,

alla luce burrascosa

della schiuma.

Qui cercate,  cercatemi,

perché qui tornerò senza dire nulla,

senza voce,  senza bocca,  puro,

qui tornerò a essere il movimento

dell’acqua,  del

suo cuore selvaggio,

starò qui,  perso e ritrovato:

qui sarò forse pietra e silenzio.

 

Da MEMORIAL DE ISLA NEGRA  (1963)

 

 

LUIS SEPÚLVEDA

LE ROSE DI ATACAMA

GÁSFITER

È così che in Cile chiamano l’idraulico,  e mastro Correa era un gásfiter orgoglioso della sua professione.  “A tutto c’è rimedio fuorché alla morte” recitava il codice etico scritto sulla sua vecchia borsa degli attrezzi,  e lui,  coerente con tale massima,  girava le strade di San Miguel,  La Cisterna e La Granja riparando tubazioni,  sistemando rubinetti gocciolanti che erano causa di notti insonni e saldando le crepe della vita con la sua fiamma ossidrica al cherosene.

Quasi tutti i gásfiter uscivano molto presto dai loro quartieri operai e,  aggrappati ad autobus strapieni,  si dirigevano nei quartieri alti,  nelle zone dei ricchi,  in un altro Cile estraneo e lontano.  Là di lavoro ce n’era d’avanzo,  e di tanto in tanto qualche padrone generoso mollava una mancia.

Mastro Correa odiava la parola padrone,  così non usciva mai dai suoi quartieri.  Lì si sentiva davvero necessario,  perché quando si rompeva qualcosa in una casa ricca,  si limitavano a ricomprarla,  mentre fra la sua gente bisognava prolungare la durata degli impianti e per riuscirci bisognava conoscere i segreti del mestiere.

Esaminava con occhio clinico un rubinetto dal gocciolio ribelle e,  quando la padrona gli chiedeva se conveniva installarne uno nuovo,  mastro Correa rispondeva lodando i fabbricanti,  citando le caratteristiche nobili del metallo e la perfezione delle varie parti,  in cui trovava sempre dettagli stile Bauhaus o art déco.  Alla fine,  con precisione da chirurgo,  passava a smontare il rubinetto e sentenziava:  “A tutto c’è rimedio fuorché alla morte”.

Non beveva,  perché secondo lui un polso fermo era fondamentale nel suo lavoro.  Sfogliava e leggeva con passione pubblicazioni di architettura che comprava nei negozi di libri usati,  si emozionava fino alle lacrime descrivendo gli elementi di qualche nuovo materiale da costruzione,  e se si concedeva un lusso,  era quello di andare a vedere le olimpiadi studentesche allo stadio.  Mastro Correa considerava gli atleti meccanismi perfetti,  immuni dalla muffa e da ogni ruggine.

Un po‘ più di un anno fa si sentì male e i medici gli diagnosticarono un cancro in stadio avanzato,  ormai in fase terminale.  Il gásfiter mise la sua canna ossidrica vicinissimo al letto e cominciò a osservarla con aria preoccupata,  con angoscia,  non per la certezza della morte,  ma per l’abbandono in cui sarebbero caduti i rubinetti,  le tubature e tutti quegli impianti che dipendevano dalle sue mani.

Doveva fare qualcosa e lo fece.  Con le sue ultime forze convocò le clienti che sentiva più vicine,  gli spiegò che il mondo non poteva restare alla mercé della muffa e della ruggine,  e gli rivelò tutti i segreti del mestiere.

Qualche giorno fa,  a Santiago,  sua figlia Doris mi ha raccontato di quell’università dell’idraulica,  di come i ferri passavano di mano in mano mentre le apprendiste ripetevano parole tecniche come nei vecchi riti di iniziazione.  Il funerale di mastro Correa è stato affollatissimo e tra i familiari e i vicini spiccava il battaglione di donne gásfiter.

Non mi è mai importato,  né mi importa,  di ciò che accade nei quartieri ricchi,  ma mi preoccupa la sorte del mio quartiere San Miguel,  di La Granja e La Cisterna.  È un sollievo sapere che le discepole di mastro Correa ne girano le strade con i loro attrezzi in spalla,  entrano nelle case e fanno in modo che l’acqua scorra libera e pura,  senza scorie,  come la grande verità solidale dei poveri che non arrugginisce mai.

 

 

PABLO NERUDA

ABBIAMO PERSO ANCHE QUESTO CREPUSCOLO

Abbiamo perso anche questo crepuscolo.

Nessuno ci ha visto stasera mano nella mano

mentre la notte azzurra cadeva sul mondo.

 

Ho visto dalla mia finestra

la festa del tramonto sui monti lontani.

 

A volte,  come una moneta

mi si accendeva un pezzo di sole tra le mani.

 

Io ti ricordavo con l’anima oppressa

da quella tristezza che tu mi conosci.

 

Dove eri allora?

Tra quali genti?

Dicendo quali parole?

Perché mi investirà tutto l’amore di colpo

quando mi sento triste e ti sento lontana?

 

È caduto il libro che sempre si prende al crepuscolo

e come cane ferito il mantello mi si è accucciato tra i piedi.

 

Sempre,  sempre ti allontani la sera

e vai dove il crepuscolo corre cancellando statue.

 

Da VEINTE POEMAS DE AMOR Y UNA CANCIÓN DESESPERADA  (1924)

 

 

MARCELA SERRANO

L’ALBERGO DELLE DONNE TRISTI

 

5.

   Floreana torna con la memoria all’uomo della regione di Magallanes.  Si chiamava don Eugenio.  L’aveva conosciuto a Puerto Williams mentre lavorava alla sua ricerca sulle popolazioni yaganas.  Non aveva perso la capacità di stupirsi ogni volta che tornava nella capitale della Provincia Antartica,  nella città più australe del mondo.  Era convinta che ci fossero pochi posti al mondo con distese solitarie vaste come quelle.  L’Isola di Navarino è circondata da tante piccole isole,  quasi tutte deserte.  Ma su una di queste c’era un abitante.  Era un uomo solo:  solo con la sua isola.  Gli tenevano compagnia soltanto il suo spirito,  un gregge di pecore e il freddo.  Veniva a Puerto Williams una volta al mese a vendere qualche capo di bestiame e ad approvvigionarsi:  un’incombenza che detestava,  ma di cui non poteva fare a meno.  Quando Floreana conobbe don Eugenio,  le venne istintivo fantasticare e farsi molte domande sulla sua vita.  E ogni sera,  mentre scrutava le imponenti vette dei Dientes de Navarino,  si sentiva invadere da una grande ammirazione per quell’uomo;  fino a quando,  un giorno,  fissando la montagna,  l’ammirazione non si trasformò in invidia.  Floreana aveva osservato attentamente i branchi di guanachi di quella regione.  In ogni gruppo c’è un solo capo che spaventa i più giovani e li allontana per restare solo con tutte le femmine.  Di tanto in tanto capita di vedere,  sullo sfondo della pampa,  un guanaco solitario che pascola,  come un esiliato,  in attesa del suo turno.

Eugenio non aspettava più alcun turno;  era arrivato a poterne fare a meno.  L’invidia di Floreana.

 

 

PABLO NERUDA

LA POESIA

E fu a quell’età…  Venne la poesia

a cercarmi.  Non so da dove

uscì,  da quale inverno o fiume.

Non so come né quando,

no,  non erano voci,  non erano

parole,  né silenzio,

ma da una strada mi chiamava,

dai rami della notte,

all’improvviso tra gli altri,

tra fuochi violenti

o mentre rincasavo solo,

era lì senza volto

e mi toccava.

 

Io non sapevo che cosa dire,  la mia bocca

non sapeva

chiamare per nome,

i miei occhi erano ciechi,

e qualcosa pulsava nella mia anima,

febbre o ali perdute,

e mi formai da solo,

decifrando

quella bruciatura,

e scrissi il primo verso vago,

vago,  senza corpo,  pura

sciocchezza,

pura saggezza

di colui che nulla sa,

e vidi all’improvviso

il cielo

sgranato

e aperto,

pianeti,

piantagioni palpitanti,

l’ombra trafitta,

crivellata

da frecce,  fuoco,  e fiori,

la notte travolgente,  l’universo.

 

E io,  minimo essere,

ebbro del grande vuoto

costellato,

a somiglianza,  a immagine

del mistero,

mi sentii parte pura

dell’abisso,

ruotai insieme alle stelle,

il mio cuore si distese nel vento.

 

Da MEMORIAL DE ISLA NEGRA  (1963)