OTRAS VOCES

LETTURE DA AUTORI LATINO-AMERICANI

(Scelte da Ezio Beccaria)

Se vive solamente una vez,

hay que aprender a querer y a vivir

hay que saber que la vida se aleja

y nos deja llorando quimeras.

 

Consuelo Velázquez

(Ciudad Guzmán,  Messico 1916 – 2005)

EUGENIO MONTEJO

(Caracas,  Venezuela 1938 – 2008)

FINO A QUANDO GIRERÀ LA TERRA

Lascia che ti ami fino a quando girerà la terra

e gli astri inchineranno i loro crani azzurri

sulla rosa dei venti.

Galleggiando,  a bordo di questo giorno

nel quale a caso,  per un istante,

ci siamo destati così vicini.

Ho potuto vivere in un altro regno,  in un altro mondo,

a molte leghe dalle tue mani,  dal tuo sorriso,

su un pianeta remoto,  irraggiungibile.

Ho potuto nascere secoli fa

quando non esistevi in nulla

e nelle mie ansie di orizzonte

potevo indovinarti in sogni di futuro,

ma le mie ossa a quest’ora

non sarebbero che alberi o pietre.

Non è stato ieri né domani,  in un altro tempo,

in un altro spazio,

né giammai accadrà

quantunque l’eternità lanci i suoi dadi

a favore della mia fortuna.

Lascia che ti ami fino a quando la terra

graviterà al ritmo dei suoi astri

e ad ogni istante ci stupisca

questo fragile miracolo di esser vivi.

Non abbandonarmi fino a quando essa non si fermerà.

 

ABRAHAM VALDELOMAR

(Ica,  Perù 1888 – 1919)

L’IPPOCAMPO D’ORO

I

La palma aveva la chioma come la capigliatura di una strega e,  con le foglie spettinate dal vento,  somigliava a un bersagliere che montasse la guardia alla casa della vedova.  La vedova era la signora Glicina.  La brezza del mare aveva sfilacciato le belle foglie della palma;  la polvere di salnitro,  portando con sé quella delle lontane isole,  l’aveva abbronzata dandole un colore seppia e,  soffiando costantemente,  aveva piegato un po‘ la snellezza del tronco.  In distanza si sarebbe detto che la nostra palma fosse il resto di un antico arco sorretto dal capitello capriccioso.

La casa della signora Glicina era piccola e pulita.  Nel villaggio dei pescatori lei era l’unica donna bianca tra la popolazione indigena.  Alta,  robusta,  flessuosa,  agile,  in piena gioventù,  la signora Glicina aveva una tartaruga.  Una tartaruga obesa,  disillusa,  che a tratti nel bel mezzo del giorno si risvegliava al grido gutturale del gabbiano domestico;  tirava fuori la testa piatta come la punta di un dardo dal guscio sfaccettato e terroso;  lasciava cadere due lacrime più per abitudine che per dolore;  scrutava il mare;  faceva il solito sincero voto di fuggire al tramonto e con uno sterile pessimismo da filosofia tedesca faceva questa riflessione:

“Il mondo è cattivo con le tartarughe.”

E dopo una pausa soggiungeva:

“La dolce libertà è un’amara menzogna.”

E finiva sempre con lo stesso profondo ritornello frutto della sua esperienza.

Metteva la testa sotto il guscio schiacciato e sfaccettato e si addormentava.

 

MIA FALLEGOS

(San José,  Costa Rica 1953 – )

TORNO ALLA NOTTE

D’improvviso torno

alla notte

con le mie scarpe d’acqua.

 

Mi spoglio

nel lento

esercizio delle mie mani

e cerco

solamente

un oggetto mio,

una piccola barca,

una cometa,

un circo di cose inventate,

figure quotidiane,

tue e mie,

che amo.

 

Ma so

che d’improvviso

mi ritrovo a essere silenzio

e fiamma oscura,

dove la mia barca

fugge dalla tua riva.

 

NICOLÁS GUILLÉN

(Camagüey,  Cuba 1902 – 1989)

PROSEGUI… *

Cammina,  tu che vai,

prosegui;

cammina e non fermarti,

prosegui.

 

Quando passi per la sua casa

non dirle che mi vedesti;

cammina,  tu che vai,

prosegui.

 

Prosegui,  non fermarti,

prosegui;

non guardarla se ti chiama,

prosegui;  ricordati che lei è cattiva,

prosegui.

 

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

(Aracataca,  Colombia 1927 – 2014)

VIVERE PER RACCONTARLA

                                                                                   La  vita non è quella che si è vissuta

                                                                                               ma quella che si ricorda e come la si ricorda

                                                     per raccontarla.

 

1

Mia madre mi chiese di accompagnarla a vendere la casa.  Era arrivata quel mattino a Barranquilla dal paese lontano dove viveva la famiglia e non aveva la minima idea su come trovarmi.  Domandando qui e là fra i conoscenti,  le indicarono di cercarmi nella libreria Mondo o nei caffè lì accanto,  dove mi recavo due volte al giorno a chiacchierare con i miei amici scrittori.  Chi glielo disse l’avvertì:  “Ci stia attenta perché sono dei pazzi scatenati.”  Arrivò a mezzogiorno in punto.  Si fece strada col suo andare lieve fra i tavoli carichi di libri in mostra,  mi si piantò davanti,  guardandomi negli occhi col sorriso malizioso dei suoi giorni migliori,  e prima che io potessi reagire,  mi disse:

“Sono tua madre.”

Qualcosa in lei era cambiato e mi impedì di riconoscerla a prima vista.  Aveva quarantacinque anni.  Sommando i suoi undici parti,  aveva passato quasi dieci anni incinta e almeno altrettanti allattando i suoi figli.  I capelli le erano incanutiti prima del tempo,  gli occhi sembravano più grandi e attoniti dietro le sue prime lenti bifocali,  e osservava un lutto stretto e severo per la morte di sua madre,  ma conservava la bellezza romana del suo ritratto di nozze,  adesso nobilitata da un’aura autunnale.  Innanzitutto,  ancora prima di abbracciarmi,  mi disse col solito stile cerimoniale:

“Vengo a chiederti il favore che mi accompagni a vendere la casa.”

Non dovette dirmi quale,  né dove,  dal momento che per noi ne esisteva una sola al mondo:  la vecchia casa dei nonni a Aracataca,  dove avevo avuto la buona sorte di nascere e dove non avevo più abitato dopo gli otto anni.  Avevo appena abbandonato la Facoltà di Legge dopo sei semestri,  dedicati più che altro a leggere quanto mi finiva tra le mani e a recitare a memoria le poesie irripetibili del Secolo d’Oro spagnolo.  Avevo già letto,  tradotti e in edizioni imprestate,  tutti i libri che mi sarebbero bastati per imparare la tecnica di scrivere romanzi,  e avevo pubblicato sei racconti in supplementi di giornali,  che avevano riscosso l’entusiasmo dei miei amici e l’attenzione di alcuni critici.  Il mese successivo avrei compiuto ventitre anni,  ero ormai inadempiente rispetto al servizio militare e veterano di due blenorragie,  e ogni giorno fumavo,  senza premonizioni,  sessanta sigarette di tabacco atroce.  Alternavo i miei ozi fra Barranquilla e Cartagena de Indias,  sulla costa caraibica della Colombia,  sopravvivendo come un pezzente grazie a quello che mi pagavano per i miei articoli quotidiani su “El Heraldo”,  che era meno di niente,  e dormivo nella miglior compagnia possibile dove mi sorprendeva la notte.  Come se l’incertezza delle mie aspirazioni e il caos della mia vita non bastassero,  insieme a un gruppo di amici inseparabili mi accingevo a pubblicare una rivista temeraria e senza mezzi che Alfonso Fuenmayor progettava da tre anni.  Cos’altro potevo desiderare?

 

EUGENIO MONTEJO

TERRITUDINE

Stare qui per anni sulla terra,

con le nubi che arrivano,  con gli uccelli,

sospesi a fragili ore.

A bordo,  quasi alla deriva,

più vicini a Saturno,  più lontani

mentre il sole fa un giro e ci trascina

e il sangue percorre il suo profondo universo

più sacro di tutti gli astri.

 

Stare qui sulla terra:  non più lontani

di un albero,  né più incomprensibili,

leggeri d’autunno,  gonfi d’estate,

con ciò che siamo o non siamo,  con l’ombra,

la memoria,  il desiderio,  fino alla fine

(se c’è una fine) voce a voce,

casa per casa,

sia chi porta la terra,  se la portano,

o chi l’attende,  se l’attendono,

dividendo insieme ogni volta il pane

in due,  in tre,  in quattro,

senza dimenticare gli avanzi per la formica

che sempre viaggia da remote stelle

per essere puntuale all’ora della nostra cena

sebbene le briciole siano amare.

 

ANGELES MASTRETTA

(Puebla,  Messico 1949 – )

STRAPPAMI LA VITA

6.

Quella sera Marilú arrivò a casa mia con una pelliccia che era la miglior dimostrazione di come suo marito dividesse le cose con lei.  Lei era figlia di uno spagnolo,  di quelli con padre commerciante,  figlio cavaliere e nipote mendicante.

Suo padre era il nipote.  Non aveva un quattrino ma aveva la certezza del proprio lignaggio e aveva potuto lasciarlo tutto quanto in eredità a sua figlia.  Ricca di tanto capitale,  Marilú aveva fatto a Julián Amed il favore di sposarlo.  Julián Amed era un arabo di quelli che vendevano stoffe nel mercato La Victoria,  prendendo al volo la gente che andava a comprare verdure e costringendola a portarsi a casa almeno un metro di cotonina.  Poi la sera,  quando il mercato era chiuso,  raggiungeva i suoi compaesani per giocare a carte e da quello,  da diverse vincite e da una che aveva incassato ammazzando il perdente che non voleva pagare e prendendosi tutto ciò che possedeva,  Julián aveva ricavato abbastanza da avere una sua fabbrica di filati e tessuti.  Era già molto ricco quando aveva convinto Marilú che il suo capitale e il lignaggio di una Isunza avrebbero fatto una splendida prole e una famiglia esemplare.  Lei,  che allora era una biondina pallida e diafana a causa della fame dissimulata dietro gli enormi mobili della sala da pranzo ereditati da suo nonno,  dopo qualche ritrosia aveva accettato.  Appena sposata il lignaggio le salì all’altezza del portafoglio di suo marito e diventò insopportabile.

 

JOSÉ EMILIO PACHECO

(Città del Messico,  Messico 1939 – )

ALTO TRADIMENTO

Non amo la mia patria.

Il suo fulgore astratto

è inafferrabile.

Ma (benché suoni male)

darei la vita

per dieci suoi luoghi,

porti,  boschi,  deserti,  fortezze,

una città disfatta,  grigia,  mostruosa,

vari personaggi della sua storia,

montagne

– e tre o quattro fiumi.

 

MIGUEL ÁNGEL FERNÁNDEZ

(Asunción,  Paraguay 1938 – )

SPAZIO *

Nessuna parola

minacciosa,

nessun grido

di soccorso

nessuna bestia

in agguato,

nessuna ombra

sinistra,

nulla

nello spazio

vuoto.

Precisamente:

nulla,

nessuno.

 

JOSÉ EUSTASIO RIVERA

(San Mateo Rivera,  Huila,  Colombia 1888 – 1928)

LA LEGGENDA DI MAPIRIPANA

La piccola indigena Mapiripana è la sacerdotessa dei silenzi,  la custode delle fonti e delle lagune.  Vive nel cuore delle foreste,  spremendo le nuvolette,  incanalando le infiltrazioni,  cercando perle d’acqua nella felpa dei burroni per formare nuove correnti che diano il loro chiaro tesoro ai grandi fiumi.  Grazie a lei l’Orinoco e il Rio delle Amazzoni hanno tributari.

Gli indigeni di queste regioni la temono,  e lei permette loro la caccia a condizione di non far rumore.  Chi la contraria non riesce a cacciare;  e basta guardare attentamente l’argilla umida per capire che è passata spaventando gli animali e lasciando l’impronta di un solo piede,  con il tallone davanti,  come se camminasse retrocedendo.  Porta sempre in mano una pianta parassita ed è stata la prima ad usare ventagli di palma.  Di notte la si sente gridare nel folto e nei pleniluni costeggia le rive,  navigando in un guscio di tartaruga,  tirato da delfini che muovono le pinne mentre lei canta.

In altri tempi giunse in queste latitudini un missionario che si ubriacava con succo di palma e dormiva sull’arenile con indigene impuberi.  Siccome era stato inviato dal cielo a sconfiggere la superstizione,  una certa notte aspettò che Mapiripana scendesse dagli stagni del Chupave,  per prenderla al laccio con il cordone della tonaca e bruciarla viva come le streghe.  In un gomito di questi spiaggioni,  forse in quest’arenile dove siete seduti,  la vide mentre rubava le uova di tartaruga e al fulgore della luna piena notò che aveva un vestito di tele di ragno e un aspetto di giovane vedovella.  Nell’affanno della lussuria cominciò a seguirla,  ma gli sfuggiva nelle tenebre;  la chiamava con insistenza,  e l’eco ingannevole rispondeva.  Così lo fece inoltrare nei luoghi più solitari finché non arrivò in una caverna dove lo tenne prigioniero per molti anni.

 

CONSUELO VELÁZQUEZ

AMAR Y VIVIR *

Perché non si deve sapere

che ti amo,  vita mia?

Perché non devo dirlo

se fondi la tua anima

con l’anima mia?

 

Che importa se poi,

un giorno,  mi vedono piangere?

Se per caso mi domandano,

dirò che ti amo tanto ancora.

 

Si vive una volta soltanto,

bisogna imparare ad amare e a vivere;

bisogna sapere che la vita si allontana

e ci lascia chimere piangenti.

 

Non voglio pentirmi poi

di ciò che avrebbe potuto essere e non fu.

Voglio vivere questa vita

tenendoti vicino a me

finché morirò.

 

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

La finestra più grande del balcone era quella della camera di Santiago Nasar.  Pedro Vicario chiese a Clotilde Armenta se aveva visto la luce in quella finestra,  e lei gli rispose di no,  ma le parve un interesse un po‘ curioso.

“Gli è successo qualcosa?”  domandò.

“Niente”  le rispose Pedro Vicario.  “Solo che lo stiamo cercando per ucciderlo.”

Era stata una risposta così spontanea che lei non poté credere che fosse vera.  Ma si accorse che i gemelli avevano con sé due coltelli da macellaio avvolti in stracci da cucina.

“E si può sapere perché volete ammazzarlo così presto?”  domandò.

“Lui sa perché”  rispose Pedro Vicario.

Clotilde Armenta li esaminò con serietà.  Li conosceva così bene che riusciva a distinguerli l’uno dall’altro,  soprattutto da quando Pedro Vicario era tornato dal servizio militare.  “Sembravano due bambini”  mi disse.  E questa considerazione la spaventò,  poiché aveva sempre pensato che solo i bambini sono capaci di tutto.  Tanto che finì di preparare gli arnesi per il latte,  e se ne andò a svegliare suo marito per raccontargli ciò che stava accadendo nel negozio.  Dón Rogelio de la Flor la ascoltò mezzo addormentato.

“Non essere babbea”  le disse,  “quei due non ammazzano nessuno,  e meno che mai un ricco.”

Quando Clotilde Armenta tornò nel negozio,  i gemelli stavano parlando con l’agente Leandro Pornoy,  che era lì per il latte dell’alcalde.  Non sentì i loro discorsi,  ma suppose che qualcosa gli avevano detto dei loro propositi,  per il modo con cui quello osservò i coltelli al momento di andarsene.

Il colonnello Lázaro Aponte s’era alzato un po‘ prima delle quattro.  Stava finendo di rasarsi quando l’agente Leandro Pornoy gli rivelò le intenzioni dei fratelli Vicario.  Aveva sistemato tante liti di amici la notte precedente,  che non si diede nessuna fretta per un’altra lite ancora.  Si vestì con calma,  si fece più volte il nodo della cravattina a farfalla finché non gli venne perfetto,  e s’infilò al collo lo scapolario della Congregazione di Maria per accogliere il vescovo.  Mentre faceva colazione con un umido di fegato,  coperto di anelli di cipolla,  la moglie gli raccontò con grande eccitazione che Bayardo San Román aveva rimandato dai suoi Angela Vicario,  ma non accolse la notizia con uguale drammaticità.

“Dio mio!”  si burlò.  “Che cosa ne penserà il vescovo?”

Tuttavia,  prima di finire la colazione ricordò quello che poco prima gli aveva detto l’ordinanza,  collegò le due notizie e scoprì subito che combaciavano perfettamente come due tessere d’un puzzle.  Allora si diresse verso la piazza passando per la via del porto nuovo,  le cui case cominciavano a ridestarsi per l’arrivo del vescovo.  “Ricordo con certezza che erano quasi le cinque e cominciava a piovere”  mi disse il colonnello Lázaro Aponte.  Strada facendo,  tre persone lo fermarono per raccontargli in gran segreto che i fratelli Vicario stavano aspettando Santiago Nasar per ucciderlo,  ma uno solo seppe dirgli dove.

Li trovò nel negozio di Clotilde Armenta.  “Quando li vidi pensai che erano fanfaronate belle e buone”  mi disse con la sua logica personale,  “perché non erano tanto ubriachi come io credevo.”  Neppure li interrogò sulle loro intenzioni,  ma si limitò a togliergli i coltelli e a rimandarli a dormire.  Li trattava con il medesimo autocompiacimento con cui aveva eluso l’allarme della moglie.

“Pensate”  gli disse,  “cosa direbbe il vescovo se vi vedesse in questo stato!”

Essi se ne andarono.   Clotilde Armenta soffrì una nuova delusione per la leggerezza dell’alcalde,  giacché pensava che avrebbe dovuto arrestare i gemelli fino a che non avesse appurato la verità.  Il colonnello Aponte le mostrò i coltelli come un argomento definitivo.

“Ormai non hanno niente per ammazzare nessuno”  disse.

“Non è per questo”  disse Clotilde Armenta.  “Ma è per liberare quei due poveri ragazzi dall’orribile obbligo che gli è caduto tra capo e collo.”

Dunque,  lei lo aveva intuito.  Aveva la sicurezza che i fratelli Vicario non erano tanto impazienti di eseguire la sentenza quanto di trovare qualcuno che gli facesse il favore di impedirglielo.  Ma il colonnello Aponte era in pace con la propria coscienza.

“Non si arresta nessuno per semplici sospetti”  disse.  “Adesso occorre mettere sull’avviso Santiago Nasar,  e buona pasqua a tutti.”

 

EUGENIO MONTEJO

ACQUE NEL DENSO FOGLIAME

Mi servo di mille voci ma poche sono mie,

appartengono a esseri che non conosco,

le ho forse ereditate già da secoli

e giacciono nascoste in fondo al sangue.

Hanno suoni silvani di venti e pascoli,

fischi di uccelli,  acque nel denso fogliame,

rumori di frutti che cadono,  tuoni erranti,

pioggia sui tetti e galoppi lontani di cavalli.

Viaggiano con me,  ma poche sono mie,

o almeno di chi sono in questo istante,

forse di un uomo che sono stato e non ricordo

o di un altro che dovrò essere domani.

Mi servo dei loro toni proteiformi,  dei loro echi,

che nel contempo dicono e contraddicono,

senza che io sappia mai come arrivano,  e da dove,

né perché mi accompagna il loro coro solitario.

 

AUGUSTO FÁBREGA

(Pocrí de Aguadulce,  Panamá 1940 – )

LE PAROLE *

Lo confesso!

Lo ammetto senza reticenze,

mi piace

far delle parole

uno strumento

per costruire sogni

ed incanti

con loro.

Sia benedetto

il dono della parola!

 

JULIO TORRI

(Saltillo,  Coahuila,  Messico 1889 – 1970)

DI FUCILAZIONI

Di funerali

Oggi ho assistito alla sepoltura di un mio amico.  Mi sono divertito poco,  perché il panegirista è stato molto maldestro.  Sembrava perfino emozionato.  È inquietante la direzione che prende l’oratoria funebre.  Ai giorni nostri si confeziona un panegirico con luoghi comuni sulla morte e,  cosa incredibile e assurda,  con elogi per il defunto.  L’oratore è quasi sempre il migliore amico del morto,  cioè a dire un individuo compunto e trepido che ci muove a pietà con le sue sincere espansioni e i suoi affetti incomprensibili.  Il meno importante in un funerale è il poveruomo nella bara.  E finché le persone non accetteranno queste idee,  continueremo ad andare ai funerali con così poche probabilità di divertirci come a un teatro.

 

…..

 

SAMUEL LUGO

(Puerto Rico)

SILENZIO DELLE PIETRE

Una tristezza di sole

lambisce il paesaggio di pietre scure,  dolorose,

antiche.

 

Nella sera

sembrano mule che un giorno

stanche si sdraiarono sotto gli alberi.

 

Nuovamente laggiù le pietre tristi,  lontane,  oscure.

Addormentate e assetate sotto il sole staranno forse facendo

un fresco sogno di pioggia.

 

Pietre senza stagione.

Passano le primavere e i rossi autunni

senza mutarle di posto.

 

Inchiodate nella terra,

condannate a un medesimo posto per il bel delitto

d’esser nate pietre,

guardano passare la nube sotto il sole estivo

mentre profondo nella pianura

il solco fresco del fiume divide il paesaggio.

 

Tutte le lune nuove le trovano uguali;

gli uomini,  la notte,  il sole che sorge.

 

Se avessero la parola,

se al loro silenzio un giorno nascessero le parole,

con che ardore uscirebbero in un grido

per far rintronare il campo.

 

Spezzano i fuscelli i venti che attraversano

i rami.

Un pezzo di legno secco cade:

nell’improvviso terrore di un uccello fugge spaventata la sera.

 

TERESA DE LA PARRA

(Parigi,  1889 – 1936)  (Venezuela)

IL GENIO DEL PESALETTERE

C’era una volta uno gnomo molto lesto e ingegnoso;  tutto di filo di ferro,  stoffa e pelle di guanto.  Il suo corpo ricordava una patata,  la testa un fungo bianco e i piedi due cucchiaini.  Con un pezzo di filo di ferro del cappello si fece un paio di braccia e un paio di gambe.  Le mani,  inguantate con scamosciati color crema,  non mancavano di dargli una certa eleganza britannica,  smentita forse dal cappello rosso peperone.  In quanto agli occhi,  misteriosa particolarità,  guardavano ostinatamente a destra,  cosa che gli conferiva un’aria strabica molto stravagante.

Lo insuperbiva molto la sua origine irlandese,  classica terra di fate,  silfidi e pigmei,  ma per niente al mondo avrebbe confessato che lì,  al suo paese,  aveva fatto parte di una modesta compagnia di menestrelli o cantori ambulanti;  un simile dettaglio non poteva interessare nessuno.

Dopo Dio sa quanti viaggi e avventure straordinarie era riuscito a ottenere uno dei posti più alti a cui uno gnomo di cuoio possa aspirare.  Era il genio di un pesalettere sullo scrittoio di un poeta.  Si intenda con ciò che,  collocato sulla piattaforma del meccanismo brillante,  si dondolava per tutto il giorno sorridendo con malizia.  Nei primi tempi aveva senza dubbio compreso l’onore che gli avevano fatto nel dargli quel posto di fiducia.  Ma a forza di ascoltare il poeta,  suo padrone,  che ogni momento diceva:  “Attenzione!  Che nessuno lo tocchi,  e non gli passate il piumino.  Guardate com’è carino…  È lui che dirige il viavai di biglietti e lettere!”,  aveva finito per diventare così pretenzioso da perdere completamente il senso della sua reale importanza,  a tal punto che,  quando lo toglievano un istante dal suo posto per pesare le lettere,  gli venivano dei veri e propri attacchi di rabbia e gridava che nessuno aveva il diritto di molestarlo,  perché era a casa sua,  che avrebbe fatto raddoppiare la tariffa e altre deliranti cattiverie.

 

JAIME SAENZ

(La Paz,  Bolivia 1921 – 1986)

COME UNA LUCE *

Arrivata l’ora in cui l’astro si spegne,

restano i miei occhi nell’aria che con te risplendeva.

Silenziosamente e come una luce

riposa sulla mia strada

la trasparenza dell’oblio.

 

Il tuo alito mi riporta all’attesa e alla tristezza della terra,

non allontanarti dal cader della sera

– non lasciarmi scoprire,  se non dietro di te,

ciò che ancora ho da morire.

 

EUGENIO MONTEJO

CREDO NELLA VITA *

Credo nella vita sotto forma terrestre,

tangibile,  vagamente rotonda,

meno sferica ai poli,

dovunque piena di orizzonti.

 

Credo nella vita come territudine,

come grazia e disgrazia.

Il mio più grande desiderio fu nascere,

ogni volta aumenta.

 

Credo nel dubbio agonico di Dio,

cioè,  credo di credere,

anche se di notte,  solo,

interrogo le pietre,

ma non sono ateo riguardo a nulla

tranne che per la morte.

 

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

NESSUNO SCRIVE AL COLONNELLO

   Il colonnello aprì il barattolo del caffè e si accorse che ne era rimasto appena un cucchiaino.  Tolse il pentolino dal focolare,  rovesciò metà dell’acqua sul pavimento di terra battuta,  e con un coltello raschiò l’interno del barattolo sul pentolino finché si distaccarono gli ultimi rimasugli di polvere di caffè misti a ruggine di latta.

Mentre aspettava che l’infusione bollisse,  seduto vicino al focolare di mattoni in un atteggiamento di fiduciosa e innocente attesa,  il colonnello provò la sensazione che nelle sue viscere nascessero funghi e muffosità velenose.  Era ottobre.  Una mattina difficile da cavar fuori,  anche per un uomo come lui che era sopravvissuto a tante mattine come quella.  Per cinquantasei anni – da quando era finita l’ultima guerra civile – il colonnello non aveva fatto altro che aspettare.  Ottobre era una delle poche cose che arrivavano.

Sua moglie alzò la zanzariera quando lo vide entrare nella stanza col caffè.  Quella notte aveva sofferto una crisi d’asma e ora era prostrata in uno stato di sopore.  Ma si sollevò per prendere la tazza.

“E tu,”  disse.

“L’ho già preso,”  mentì il colonnello.  “Ne era rimasta ancora una cucchiaiata grande.”

In quel momento cominciarono i rintocchi.  Il colonnello si era dimenticato del funerale.  Mentre sua moglie beveva il caffè,  staccò l’amaca da un’estremità e l’arrotolò nell’altra,  dietro la porta.  La donna pensò al morto.

È nato nel 1922,”  disse.   “Esattamente un mese dopo nostro figlio.  Il sette aprile.”

 

“Deve essere orribile essere sepolto in ottobre,”  disse.  Ma suo marito non le fece caso.  Aprì la finestra.

Rigida sul letto la donna continuava a pensare al morto.

“Deve aver già incontrato Agustín,”  disse.  “Può darsi che non gli racconti la situazione in cui ci siamo trovati dopo la sua morte.”

“A quest’ora staranno discutendo di galli,”  disse il colonnello.

Trovò nel baule un ombrello enorme e antico.  Lo aveva vinto la donna a una tombola politica destinata a raccogliere fondi per il partito del colonnello.  Quella stessa sera avevano assistito a uno spettacolo all’aperto che non era stato interrotto malgrado la pioggia.  Il colonnello,  sua moglie e suo figlio Agustín – che allora aveva otto anni – avevano assistito allo spettacolo fino alla fine,  seduti sotto l’ombrello.  Ora Agustín era morto e la fodera di raso lucido era stata distrutta dalle tarme.

“Guarda che cosa è rimasto del nostro ombrello da pagliaccio di circo,”  disse il colonnello con una sua antica frase.  Spalancò sul capo un misterioso sistema di stecche metalliche.  “Ora serve soltanto per contare le stelle.”

Sorrise.  Ma la donna non si prese la briga di guardare l’ombrello.  “Tutto è così,”  mormorò.  “Stiamo marcendo vivi.”  E chiuse gli occhi per pensare più intensamente al morto.

 

OSCAR CERRUTO

(La Paz,  Bolivia 1912 – 1981)

CANTARE *

La mia patria ha montagne,

non mare.

 

Onde di grano e campi di grano,

non mare.

 

Spuma azzurra le pinete,

non mare.

 

Cieli di smalto fuso,

non mare.

 

Ed il coro rauco del vento

senza mare.

 

PEDRO SHIMOSE

(Riberalta,  Bolivia 1940 – )

EPILOGO – PROLOGO

Asserragliata nel freddo e nella distruzione

l’aria azzurra della cordigliera.

 

Prigioniera dell’odio che secca i fiumi

l’acqua dolce della primavera.

 

Nell’esilio,  lontano dalla patria

la forza della nostra attesa.

 

MARIO VARGAS LLOSA

(Arequipa,  Perù 1936 – )

LA GUERRA DELLA FINE DEL MONDO

Uno

I.

   L’uomo era alto e così magro che sembrava sempre di profilo.  La sua pelle era scura,  le ossa sporgenti e gli occhi ardevano di un fuoco perpetuo.  Calzava sandali da pastore e la tunica viola che gli ricadeva sul corpo rammentava l’abito di quei missionari che,  di tanto in tanto,  si recavano nei villaggi del sertão a battezzare folle di bambini e a sposare le coppie irregolari.  Era impossibile conoscerne l’età,  la provenienza,  la storia,  ma c’era qualcosa nel suo aspetto quieto,  nelle sue abitudini frugali,  nella sua imperturbabile serietà che,  prima ancora che cominciasse a dar consigli,  attraeva la gente.

Arrivava d’improvviso,  all’inizio solo,  sempre a piedi,  coperto dalla polvere delle piste,  ogni certo numero di settimane,  di mesi.  La sua lunga sagoma si stagliava contro la luce crepuscolare o nascente,  mentre percorreva l’unica via dell’abitato,  a grandi passi,  con una sorta di fretta.  Avanzava risoluto fra capre che scampanellavano,  fra cani e bambini che gli facevano strada e lo guardavano curiosi,  senza rispondere ai saluti delle donne che lo conoscevano già e gli si inchinavano davanti e si affrettavano a portargli brocche di latte e piatti di farinha e fagioli.  Ma lui non mangiava né beveva prima di avere raggiunto la chiesa del villaggio e constatato,  ancora una volta,  la prima e la centesima,  che era cadente,  scrostata,  con le torrette tronche e le pareti sforacchiate e il pavimento sventrato e gli altari rosi dai vermi.  Gli si rabbuiava il viso con un dolore da profugo cui la siccità abbia ucciso figli e animali e tolto ogni avere e debba abbandonare la propria casa,  le ossa dei suoi morti,  per fuggire,  fuggire,  senza sapere dove.  Certe volte piangeva,  e nel pianto il fuoco nero dei suoi occhi rincrudiva in terribili barbagli.  Immediatamente si metteva a pregare.  Ma non come pregano gli altri uomini o le donne:  lui si distendeva bocconi sulla terra o sulle pietre o sulle lastre sconnesse,  dinanzi a dove c’era o c’era stato o avrebbe dovuto esserci l’altare,  e lì pregava,  talvolta in silenzio,  talaltra ad alta voce,  per una,  due ore,  osservato con rispetto e ammirazione dagli abitanti.  Recitava il Credo,  il Padrenostro e le Avemarie note,  e anche altre orazioni che nessuno aveva mai udito prima ma che,  col passare dei giorni,  dei mesi,  degli anni,  la gente avrebbe imparato a memoria.  Dov’è il parroco?,  lo udivano chiedere,  perché qui non c’è un pastore che si occupi del suo gregge?  Perché l’assenza di un sacerdote nei villaggi lo addolorava quanto la rovina delle case del Signore.

Solo dopo aver chiesto perdono al Buon Gesù per le condizioni in cui tenevano la sua dimora,  accettava di mangiare e bere qualcosa,  solo una piccola parte di quanto gli abitanti si premuravano di offrirgli anche nelle annate di scarsità.  Acconsentiva a dormire sotto un tetto,  in una delle case che la gente del sertão metteva a sua disposizione,  ma di rado lo si vide riposare nell’amaca,  sul pagliericcio o sul materasso di chi gli offriva asilo.  Si lasciava cadere a terra,  senza alcuna coperta,  e,  appoggiando sul braccio la testa dai ribollenti capelli color giaietto,  dormiva qualche ora.  Sempre poche,  perché era l’ultimo a coricarsi,  e quando i mandriani e i pastori più mattinieri si avviavano verso i pascoli lo scorgevano già intento a rabberciare i muri e il tetto della chiesa.

Dava i suoi consigli all’imbrunire,  quando gli uomini erano tornati dai pascoli e le donne avevano terminato le loro faccende domestiche e i bambini stavano già dormendo.  Li dava in quei luoghi pietrosi e senza alberi che ci sono in tutti i villaggi del sertão,  all’incrocio delle vie principali,  e che si sarebbero potuti chiamare piazze se ci fossero state panchine,  chioschi,  giardini,  o fossero rimasti quelli che un tempo c’erano stati e che la siccità,  i flagelli,  le contese avevano distrutto.  Li dava in quell’ora in cui il cielo del Nord del Brasile,  prima di rabbuiarsi ed empirsi di stelle,  fiammeggia tra fioccose nuvole bianche,  grigie o azzurrate e c’è come un vasto fuoco d’artificio lassù,  sopra l’immensità del mondo.  Li dava in quell’ora in cui si accendono i fuochi per allontanare gli insetti e preparare i pasti,  quando cala l’afa soffocante e si leva una brezza che dispone meglio la gente a sopportare le malattie,  la fame e i travagli della vita.

Parlava di cose semplici e importanti,  senza guardare nessuno in particolare fra la gente che lo attorniava,  o,  piuttosto,  guardando,  con i suoi occhi incandescenti,  al di là della cerchia di vecchi,  donne,  uomini e bambini,  qualcosa o qualcuno che solo lui poteva vedere.

 

EUGENIO MONTEJO

SONO QUESTA VITA

Sono questa vita e quella che resta,

quella che verrà dopo in altri giorni,

in altri giri della terra.

 

Quella che ho vissuto così come fu scritta

ora dopo ora

sul grande libro indecifrabile,

quella che mi va cercando per strada,

da un taxi

e senza avermi visto mi ricorda.

 

Ancora non so quando arriverà,  chi la trattiene,

non conosco il suo viso,  il suo corpo,  il suo sguardo,

non so se arriverà da un altro paese

in un tappeto volante

o da un altro continente.

 

Sono questa vita che ho vissuto o malvissuto

ma ancor di più quella che deve arrivare

nelle orbite che la terra mi deve.

Quella che sarà domani quando giunga

in un amore,  una parola;

quella che in ogni attimo spero di prendere

senza sapere se è qui,  se è lei quella che scrive

guidandomi per mano.

AMADO NERVO

(Tepic,  Nayarit,  Messico 1870 -1919)

LA CITTÀ DOVE LA PIOGGIA ERA LUMINOSA

Dopo lente giornate a cavallo per un periodo di mezzo mese e per strade sconosciute e viottoli obliqui arrivammo al paese della pioggia luminosa.

La capitale di questo paese,  ora ignorato,  anche se un tempo fu scenario di fatti preclari,  era una città gotica,  con stradine tortuose,  piene di romantiche sorprese,  svolte misteriose,  angoli di pietra intagliata,  su cui i secoli avevano accumulato la loro patina signorile,  di venerande sfumature d’acciaio.

La città era situata sulla riva di un mare poco frequentato;  un mare le cui acque,  infinitamente più fosforescenti di quelle dell’oceano Pacifico,  producevano con la loro evaporazione questo fenomeno della pioggia luminosa.

Come è noto,  la fosforescenza di certe acque è dovuta a batteri che vivono sulla superficie dei mari,  ad animaletti microscopici che possiedono un forte potere fotogeno,  simile nelle sue proprietà a quello dei piròfori,  lucciole e vermi di luce.

Questi microrganismi,  in virtù della loro piccolezza,  quando l’acqua evapora salgono con essa senza alcuna difficoltà.

 

Prima di arrivare nella città,  all’imbrunire di un assolato e splendente giorno di giugno,  grosse nubi,  molto basse,  navigavano nell’atmosfera torva ed elettrizzata.

La guida,  osservandole,  mi disse:

“Vossignoria avrà la fortuna della pioggia questa sera.  E sarà un temporale formidabile.”

Mi rallegrai intimamente davanti alla prospettiva di quel diluvio di luce…

I cavalli,  aspirando l’alito della tormenta,  affrettavano il passo monoritmico.

Il temporale si scatenò quando non avevamo ancora varcato le porte della città.

E lo spettacolo che videro i nostri occhi fu tale che frenammo i destrieri e a rischio di inzupparci come spugne ci fermammo a contemplarlo.

Era come se il caseggiato fosse stato improvvisamente avvolto dalla terribile e luminosa nube del Sinai…

Tutto all’intorno era luce;  luce azzurrina che si sfrangiava dalle nubi in meravigliose perle di vetro;  luce che cadeva dai tetti e veniva vomitata dalle grondaie come pallido oro fuso;  luce che,  sferzata dal vento,  si frantumava in sciami di faville contro i muri;  luce che con assordante rumore precipitava sulle strade diseguali,  formando rivoli di zaffìro e di madreperla tremula e cangiante.

Era come se la luna piena si fosse liquefatta e cadesse a fiotti sulla città…

Presto il temporale cessò e varcammo le porte.  L’atmosfera andava rasserenandosi.

Ai getti scintillanti si era sostituita un’acquerugiola diamantina di effetto prodigioso.

Dopo un po‘ cessò anche questa e apparvero le stelle,  e allora lo spettacolo fu ancora più sorprendente:  stelle su,  stelle giù,  stelle da tutte le parti.

Dalle mille grondaie della cattedrale cadevano ancora tenui fili lattei.  Sui merli secolari delle torri brillavano sospese migliaia di gocce tremule,  come se gli gnomi avessero ingioiellato la foresta di pietra.  Sui plinti,  sui capitelli,  sulle statue posate sopra le colonne;  sulle cornici,  sui trafori delle ogive,  su tutti gli aggetti degli edifici si annidavano globuli di luce smorzata.

E sulle strade inclinate e tortuose,  come un drago di opale fusa,  la linfa brillante fuggiva sfrenata,  ora saltando in cascate di livide fiamme,  ora biforcandosi,  ora formando stagni perlacei in cui si riflettevano le sagome eminenti degli edifici come in specchi di metallo antico…

Gli abitanti della città (le donne soprattutto) che cominciavano a transitare sui marciapiedi di vecchie piastrelle ora brillanti,  avevano i capelli ingioiellati dalla pioggia scintillante.

E un fulgore misterioso,  un chiarore soave ed enigmatico si diffondevano da tutte le parti.

Era come se migliaia di lucciole cadute dal cielo battessero le loro ali impalpabili.

Assorto nello spettacolo mai neppure sognato,  arrivai senza rendermene conto,  e preceduto sempre dalla mia guida,  all’albergo principale della città.

Sul portone un locandiere obeso e cordiale mi guardava sorridendo e venne avanti compiacente per aiutarmi a scendere dalla mia cavalcatura,  mentre una donzella bionda e luminosa come tutto ciò che la circondava,  dall’inferriata del balcone che coronava la facciata mi diceva:

“Benvenuto vossignoria nella città della pioggia luminosa.”

E la sua voce era più armoniosa dell’oro quando urta il cristallo.

 

MARGARITA MUÑIZ

(Montevideo,  Uruguay 1963 – )

CHITARRE BAGNATE *

Le mie parole

hanno

dita minute

che disegnano

sulla tua spalla

giovinezze perdute

nelle asprezze

dell’inverno.

 

I tuoi silenzi

invece

hanno artigli

che abbattono

il petto

bruciando

le viscere.

 

Solo restano

le chitarre bagnate

nella piazza…

 

RAFAEL AMÉRICO HENRÍQUEZ

(Santo Domingo 1899 – 1968)

ORTO

La luna cavalca

su rami di pino.

Oscure le spighe,

oscuro il silenzio,

ancora più oscure

le acque del fiume.

Rubaron le tue mani

la luce del solco:

orto di madreperla

con macchie divise

di terra vermiglia;

son luci le tue dita,

luci che s’arrampicano

cercando la luna…

Si rompono l’ombre,

il pino ricresce,

la luna è sull’alto:

Temendo qualche furto

i venti raccolgono

pecore addormentate

nel cielo notturno.

 

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

CENT’ANNI DI SOLITUDINE

Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate,  bianche ed enormi come uova preistoriche.  Il mondo era così recente,  che molte cose erano prive di nome,  e per citarle bisognava indicarle col dito.  Tutti gli anni,  verso il mese di marzo,  una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio,  e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni.  Prima portarono la calamita.  Uno zingaro corpulento,  con barba arruffata e mani di passero,  che si presentò col nome di Melquíades,  diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia.  Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici,  e tutti sbigottirono vedendo che i paioli,  le padelle,  le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto,  e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi,  e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati,  e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquíades.  “Le cose hanno vita propria,”  proclamava lo zingaro con aspro accento,  “si tratta soltanto di risvegliargli l’anima.”  José Arcadio Buendía,  la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura,  e ancora più in là del miracolo e della magia,  pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per sviscerare l’oro della terra.  Melquíades,  che era un uomo onesto,  lo prevenne:  “Per quello non serve.”  Ma a quel tempo José Arcadio Buendía non credeva nell’onestà degli zingari,  e così barattò il suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.  Ursula Iguarán,  sua moglie,  che faceva conto su quegli animali per rimpinguare il deteriorato patrimonio domestico,  non riuscì a dissuaderlo.  “Molto presto ci avanzerà tanto oro da lastricarne la casa,”  ribatté suo marito.  Per parecchi mesi si ostinò a dimostrare la veracità delle sue congetture.  Esplorò la regione a palmo a palmo,  compreso il fondo del fiume,  trascinando i due lingotti di ferro e recitando ad alta voce l’esorcismo di Melquíades.  L’unica cosa che riuscì a dissotterrare fu un’armatura del quindicesimo secolo con tutte le sue parti saldate da una crostaccia di ruggine,  la cui cavità aveva la risonanza vacua di un’enorme zucca piena di sassi.    Quando José Arcadio Buendía e i quattro uomini della sua spedizione riuscirono a disarticolare l’armatura,  vi trovarono dentro uno scheletro calcificato che portava appeso al collo un reliquario di rame con un ricciolo di donna.

 

EUGENIO MONTEJO

DURATA

Dura meno un uomo che una candela

ma la terra preferisce la sua luce

per seguire il passaggio degli astri.

Dura meno di un albero,

di una pietra;

si abbuia davanti al vento più lieve,

con un soffio si spegne.

Dura meno di un uccello,

di un pesce fuori dell’acqua;

quasi non ha tempo di nascere;

fa un giro intorno al sole e si cancella

tra le ombre delle ore

finché le sue ossa nella polvere

si mescolano con il vento.

E comunque,  quando va via

sempre più nitida lascia la terra.

 

JOSÉ DE LA CUADRA

(Guayaquil,  Ecuador 1903 – 1941)

I SANGURIMA

Leggende

Su don Nicasio si riferivano cose stravaganti e truculente.

Nelle cucine delle case montuviane,  all’ora del caffè pomeridiano,  dopo la merenda,  si raccontavano di lui storie spaventose.

I legnaioli dei monti vicini trovavano nei presunti fatti sul vecchio Sangurima ampio tema per le  loro chiacchiere,  riuniti intorno a un falò,  nel periodo di tempo che va dall’ora di pranzo a quella di coricarsi,  con la faccia rivolta al cielo,  sulla nuda terra.

I barcaioli,  che portavano la frutta dalle fattorie degli altopiani,  avvicinandosi alla zona abitata dai Sangurima,  cominciavano imprescindibilmente a raccontare le leggende del nonno.

Ma dove più si parlava di lui era alle veglie funebri…

 

…..

Patto satanico

I montuviani giuravano che don Nicasio aveva firmato un patto con il Diavolo.

“Davvero?”

“Certo.”

“Questo succedeva nei tempi antichi.  Ora non succede più.”

“Ma è che voi non sapete.  Don Nicasio è vecchissimo.”

“Più vecchio della rogna.”

“Non esageri…!  Ma più vecchio dell’albero della gomma dei Solines.”

“Ah!…”

Qualcuno alludeva allo strumento del patto:

“Mio nonno,  che faceva il seminatore nella fattoria di don Sangurima,  lo vide.  Era fatto con il cuoio di un vitello che non era nato da dove doveva nascere.”

“Come?”

“Sì,  di un vitello tirato fuori aprendo il ventre della vacca gravida…  Era lì…  Scritto con sangue umano.”

“Di don Nicasio?”

“No,  di una ragazza mestruata.”

“Ah!”

“E dove conserva il documento?”

“In una bara.  Dicono nel cimitero di Salitre.  Sepolto.”

“E perché,  ah?”

“Il diavolo non può entrare nel cimitero.  È sacro.  E così non può prendersi don Sangurima.  Don Sangurima se la ride del diavolo.  Quando va a chiedergli l’anima gli dice:  – Per pagarti porta il documento -.  E il diavolo si morde la coda dalla rabbia perché non può entrare nel camposanto a prendere il documento.  Ma si vendica facendo vivere don Sangurima.  Don Sangurima vuole morire per riposare.  È vissuto più di qualunque altro di queste parti.  Il diavolo non lo lascia morire.  Così si vendica il diavolo…”

“Ma don Sangurima è morto dentro,  dicono.”

“Sarà così,  sicuramente.”

 

Il prezzo

Qualche curioso domandava il prezzo della vendita.

“E quanto gli diede il diavoletto a don Sangurima per l’anima?”

“Uh!  Terra,  soldi,  vacche,  donne…”

Allora interveniva qualche vecchio montuviano:

“Voi sapete com’è ora la fattoria di don Sangurima:  La Hondura.  Una pianura sulla riva,  nient’altro.  All’interno tutto burroni profondi.  Terreno per svernare.  Collinette.  Ma prima non era così.”

“E com’era?”

“Mio padre raccontava che,  quando era giovane,  quello non era altro che un grandissimo acquitrino.  Per questo lo chiamavano La Hondura,  che poi gli è rimasto come nome.”

“Ah!”

“Quando don Sangurima si accordò con il Maligno,  acquistò l’acquitrino…  Sapete a quanto?  A venti pesos…  Per nasconderlo ora lui dice che glielo ha lasciato la mamma…  Ma non è così…  E subito dopo il pantano cominciò a prosciugarsi e a spuntare solo terra…  Proprio come quando si rigenera la carne in una ferita.  Avete visto?”

“Caspita!”

“Fu grazie al diavolo.”

“Proprio così.”

“Si dice che quando don Sangurima morirà,  la terra sprofonderà di nuovo,  e uscirà l’acqua che sta aspettando sotto.”

“Sarà così.”

“Sarà così.”

 

…..

 

JOSÉ EMILIO PACHECO

NOTTE E NEVE

Mi affacciai alla finestra e,  al posto del giardino,  trovai la notte costellata di neve.

 

La neve rende tangibile il silenzio.

È il crollo della luce e si spegne.

 

La neve non vuole dire nulla:

è solo una domanda che lascia cadere milioni di segni interrogativi sopra il mondo.

 

FRANCISCO MANRIQUE CABRERA

(Bayamón,  Portorico 1908 – 1978)

A CAVALLO DI VALLI E COLLINE

A cavallo di valli e colline

il vento passa cantando

con la sua chitarra di rami.

Va verso il mare lontano,

verso fiumi e ruscelli

che scherzano con l’erbe

piccole amiche dei campi.

 

Con che dolcezza i bimbi si addormentano

quando il vento passa cantando

canzoni così fresche!

 

Pensano anch’essi

che se il vento tace

dormiranno l’erbe,

dormiranno i rami.

 

Tutto sarà sogno

quando nonno vento

inizierà e finirà

di suonare l’immensa

chitarra di rami.

 

RICARDO PALMA

(Lima,  Perù  1833 – 1919)

LO SCORPIONE DI FRATE GOMEZ

I

Costui era un frate laico,  contemporaneo di don Juan de Pipirindica,  (…),  e di san Francesco Solano;  e questo frate laico svolgeva a Lima,  nel convento dei padri serafici,  le funzioni refettoriali all’infermeria o all’ospedale dei devoti padri.  La gente lo chiamava frate Gomez,  frate Gomez lo chiamano le cronache conventuali e come frate Gomez lo conosce la tradizione.  Credo che anche nella pratica avviata a Roma per la sua beatificazione e canonizzazione non gli venga dato altro nome.

Frate Gomez fece nella mia terra miracoli a bizzeffe,  senza rendersene conto e come non volendo.  Faceva miracoli per natura,  (…).

Accadde che un giorno il frate camminava sul ponte,  quando un cavallo imbizzarrito scaraventò sul selciato il cavaliere.  L’infelice rimase con le gambe paralizzate e la testa come un colabrodo,  perdendo sangue dalla bocca e dal naso.

“Si è rotta la testa!  Si è rotta la testa!”  gridava la gente.  “Andate a san Lazzaro per l’olio santo!”

E con il clamore era tutto un tumulto.

Frate Gomez si avvicinò lentamente a quel tale che giaceva a terra,  gli mise sulle labbra il cordone del suo abito,  gli diede tre benedizioni e senza né medico né medicina il ferito si alzò così fresco come se non avesse ricevuto alcun colpo.

“Miracolo!  Miracolo!  Viva frate Gomez!”  esclamavano gli innumerevoli spettatori.

E nel loro entusiasmo cercarono di portare in trionfo il frate.  Questi,  per sottrarsi al plauso popolare,  si mise a correre in direzione del convento e si rinchiuse nella sua cella.

La cronaca francescana racconta quest’ultimo particolare in modo diverso.  Dice che frate Gomez,  per sfuggire a coloro che lo acclamavano,  si alzò in aria e volò dal ponte alla torre del convento.  Io non lo affermo e non lo nego.  Può essere di sì e può essere di no.  Trattandosi di prodigi,  non spreco l’inchiostro per difenderli o rifiutarli.

 

EUGENIO MONTEJO

UN SOLO AMORE PUÒ SALVARE TUTTO

Un solo amore può salvare tutto,

ciò che se ne è andato,  ciò che è partito e più non torna,

i naufraghi che emergono dall’oblio

e ci perseguitano in fondo a qualche sogno,

le perdite che in ogni ombra ci insediano

con dadi neri,  schivi alla sorte,

la fiamma che fece notte nelle nostre mani,

l’angoscia,  la sofferenza,  i singhiozzi,

gli oscuri Titanic del sangue,

quel che nacque per non essere e per un attimo è stato.

Tutto il furore,  la polvere e la sconfitta

con un amore,  un solo amore,  presto si salvano:

un solo amore può salvare tutto.

 

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

IL GENERALE NEL SUO LABIRINTO

   …

Sicché era di nuovo a Turbaco.  Nella stessa casa dalle stanze ombrose,  dalle grandi arcate lunari e dalle finestre alte quanto una persona sopra la piazza di ghiaia,  e il cortile monastico dove aveva visto il fantasma di Antonio Caballero y Góngora,  arcivescovo e viceré della  Nueva Granada,  che nelle notti di luna si sgravava delle sue molte colpe e dei suoi debiti insolubili passeggiando fra gli aranci.  Al contrario del clima generale della costa,  ardente e umido,  quello di Turbaco era fresco e sano per la sua posizione sopra il livello del mare,  e sulla riva dei ruscelli c’erano mirti immensi dalle radici tentacolari alla cui ombra i soldati si distendevano a fare la siesta.

Erano arrivati due sere prima a Barranca Nueva,  termine vagheggiato del viaggio fluviale,  e dovettero maldormire in una fetida baracca di canne e argilla,  fra sacchi di riso stipati e pelli da conciare,  perché non c’era una locanda riservata per loro né erano pronte le mule che avevano ordinato per tempo.  Sicché il generale arrivò a Turbaco zuppo e dolorante,  e smanioso di dormire,  ma senza sonno.

Non avevano ancora finito di scaricare,  e già la notizia del suo arrivo si era sparsa fino a Cartagena de Indias,  a solo sei leghe di lì,  dove il generale Mariano Montilla,  intendente generale e comandante militare della provincia,  aveva preparato per il giorno dopo un’accoglienza popolare.  Ma lui non era in vena di feste premature.  Quelli che lo attesero lungo la strada reale sotto la pioviggine inclemente,  li salutò con un’effusione da vecchi conoscenti,  ma chiese loro con la stessa franchezza che lo lasciassero solo.

In realtà,  stava peggio di quanto rivelava il suo malumore,  sebbene si impegnasse a nasconderlo,  e il suo stesso seguito osservava un giorno dopo l’altro la sua erosione inarrestabile.  Non ne poteva più della sua anima.  Il colore della sua pelle era passato dal verde pallido al giallo mortale.  Aveva la febbre,  e il mal di testa era divenuto eterno.  Il parroco si offrì di chiamare un medico,  ma lui si oppose:  “Se avessi dato retta ai miei medici sarei sepolto già da molti anni.”  Era arrivato con l’intenzione di proseguire il giorno dopo per Cartagena,  ma nel corso del mattino ebbe notizia che nel porto non c’era nessuna nave per l’Europa,  né gli era arrivato il passaporto con l’ultima posta.  Sicché decise di fermarsi a riposare tre giorni.  I suoi ufficiali se ne rallegrarono non solo per il bene del suo corpo,  ma anche perché le prime notizie che arrivavano in segreto sulla situazione nel Venezuela non erano le più salutari per la sua anima.

Non poté impedire,  tuttavia,  che continuassero a far esplodere mortaretti finché non fu terminata la polvere,  e che installassero lì vicino un complesso di flauti che avrebbe continuato a suonare fino a notte tarda.  Gli portarono pure dai vicini pantani di Marialabaja una  mascherata di uomini e donne negri,  vestiti come i cortigiani europei del XVI secolo,  che ballavano per burla e con arte africana le danze spagnole da salotto.  Gliela portarono perché durante la visita precedente gli era piaciuta tanto che l’aveva fatta chiamare più volte,  ma ora non la guardò neppure.

“Portate lontano di qui quel bailamme”  disse.

Il vicerè Caballero y Góngora aveva fatto costruire la casa e ci aveva vissuto per circa tre anni,  e all’incantesimo della sua anima in pena si attribuivano gli echi spettrali delle stanze.  Il generale non volle ritornare nella camera da letto dove era stato la volta prima,  che ricordava come una camera di incubi,  perché tutte le notti in cui vi dormì sognò una donna dai capelli illuminati che gli legava al collo un nastro rosso fino a svegliarlo,  e così ancora e ancora,  fino all’alba.  Sicché si fece appendere l’amaca agli anelli infissi nelle pareti della sala e dormì un poco senza sognare.  Pioveva a catinelle,  e un gruppo di bambini rimase affacciato alle finestre della via per vederlo dormire.  Uno di loro lo svegliò con voce cauta:  “Bolívar,  Bolívar.”  Lui lo cercò fra le brume della febbre,  e il bambino gli domandò:

“Tu mi vuoi bene?”

Il generale annuì con un sorriso tremulo,  ma poi ordinò che scacciassero le galline che giravano di continuo per la casa,  che allontanassero i bambini e che chiudessero le finestre,  e si addormentò di nuovo.  Quando si risvegliò continuava a piovere,  e José Palacios preparava la zanzariera per l’amaca.

“Ho sognato che un bambino dalla via mi faceva domande strane attraverso la finestra”  gli disse il generale.

 

AUGUSTO FÁBREGA

TEMPO E RICORDO *

Potranno strapparmi il presente,

il domani – forse.

Ma il passato,  mai.

Il tuo ricordo

Durerà per sempre nella mia memoria.

 

NICOLÁS GUILLÉN

A VOLTE *

A volte ho voglia di essere una persona volgare

per dire:  t’amo con pazzia.

A volte ho voglia di essere stupido

per gridare:  t’amo tanto!

A volte ho voglia di essere un bambino

per piangere raggomitolato sul tuo seno.

A volte ho voglia di essere morto

per sentire,  sotto la terra umida dei miei umori,

che mi cresce un fiore che mi rompe il petto,

un fiore e dire:  questo fiore,

per te.

 

ANGELES MASTRETTA

MALE D’AMORE

2

 

Dal letto,  Josefa seguì con lo sguardo Milagros mentre si dirigeva verso la culla dove  dormiva sua figlia.

“Stando all’ora e al giorno in cui è nata,  tua figlia è Acquario con ascendente Vergine,”  disse Milagros.  “Un incrocio di passione e debolezza che le darà gioia e pene in egual misura.”

“Desidero soltanto che sia felice,”  vagheggiò Josefa.

“Lo sarà molte volte,”  rispose Milagros.  “La sua vita sarà illuminata dal quarto di luna crescente che ancora brillava nell’alba in cui è nata.  In questo mese il cielo è governato dall’Orsa Maggiore,  la Chioma di Berenice,  Procyon,  Canopo,  Sirio,  il Pesce Australe di Eridano,  la Corona Boreale,  Andromeda,  Perseo,  Algol e Cassiopea.”

“La luce di così tanti astri l’aiuterà a essere padrona di se stessa,  ad avere buon senso e un cuore grato alla vita?”  domandò Josefa.

“Non solo questo,”  disse Milagros china e immobile sotto al tulle della culla.

Josefa la pregò di recitare alla piccola l’augurio che tutte le donne della loro famiglia avevano ricevuto al momento della nascita.

Milagros acconsentì ad arrendersi alla tradizione famigliare perché non mancasse nulla al rito che l’avrebbe trasformata in madrina.  Appoggiò la mano sulla testa di sua nipote e cominciò:

“Bambina che dormi sotto lo sguardo di Dio,  ti auguro di non perderlo mai,  che nella vita la pazienza sia la tua miglior alleata,  che tu possa conoscere il piacere della generosità e la pace di coloro che non aspettano nulla,  di comprendere i tuoi dolori e di saper accompagnare quelli altrui.  Ti auguro di possedere uno sguardo limpido,  una bocca prudente,  un naso comprensivo,  un udito incapace di ricordare gli intrighi,  lacrime precise e moderate.  Ti auguro di credere nella vita eterna e di possedere la quiete che tale fede concede.”

“Amen,”  disse Josefa dal letto,  abbandonandosi al pianto.

“Ora posso pronunciare il mio?”  chiese Milagros.

Non era solo una donna bella che a volte si vestiva come una modella del Moniteur de la Mode,  e indossava i cappelli più leziosi che potesse disegnare madame Berthe Manceu;  sapeva esserlo ancora di più perché nel suo guardaroba aveva una collezione di finissime huipiles,  tuniche lunghe dai ricami splendidi.  Di solito le indossava nelle occasioni solenni ed era capace di camminare per strada con i capelli raccolti in tante  trecce sulla testa e quell’abito indio che,  sventolandole sul corpo,  sembrava una bandiera colorata.  Come quella mattina.  Josefa la guardò con una punta di ammirazione,  e le chiese di proseguire.

“Bambina,”  cominciò Milagros con la solennità di una sacerdotessa,  “i miei doni sono la follia,  il coraggio,  l’ambizione e l’irrequietezza.  La fortuna degli amori e il delirio della solitudine.  Il gusto per le comete,  per l’acqua e per gli uomini.  Desidero per te intelligenza e ingegno.  Uno sguardo curioso,  un naso dotato di memoria,  una bocca che sorrida e maledica con precisione divina,  gambe che non invecchino,  un pianto in grado di restituirti la fierezza.  Ti auguro di avere il senso del tempo che hanno le stelle,  la tenacia delle formiche,  il dubbio dei templi.  Spero tu abbia fede negli àuguri,  nella voce dei morti,  nella bocca degli avventurieri,  nella pace degli uomini che dimenticano il proprio destino,  nella forza dei tuoi ricordi e nel futuro come promessa che contiene tutto ciò che non ti è ancora accaduto.  Amen.”

“Amen,”  ripeté Josefa e benedisse la fede e la fantasia della sorella.

 

 

EUGENIO MONTEJO

GLI ALBERI

Parlano poco gli alberi,  si sa.

Passano tutta la vita meditando

e muovendo i loro rami.

Basta guardarli in autunno

quando si riuniscono nei parchi:

soltanto i più vecchi conversano,

quelli che distribuiscono le nuvole e gli uccelli,

ma la loro voce si perde tra le foglie

e assai poco ci arriva,  quasi nulla.

 

È difficile riempire un piccolo libro

coi pensieri degli alberi.

Tutto in essi è vago,  frammentario.

Oggi,  ad esempio,  mentre ascoltavo il grido

di un tordo nero,  di ritorno a casa,

grido ultimo di chi non attende un’altra estate,

ho capito che nella sua voce parlava un albero,

uno dei tanti,

ma non so cosa fare di quel grido,

non so come trascriverlo.

* (Traduzione di Ezio Beccaria)